Dal
confine
di Stefano Bernazzani, da Viaggiatori diretti altrove (Mobydick,
2003).
Nonostante
siano ormai trascorsi un paio d’anni dalla loro partenza, e da tale
tempo non se ne abbiano notizie, e nessuno di noi creda più ad un loro
ritorno, continuiamo a parlare di quei due giovani forestieri come se li
avessimo incontrati anche stamattina e fossimo certi di vederli tornare
entro questa sera.
Tutto
ciò - a pensarci bene - testimonia non tanto l’importanza che ebbero
per noi quei due cristiani, quanto invece la pochezza dei nostri
argomenti, la pigrizia che non ci abbandona un momento, e soprattutto il
nostro ingresso in pompa magna nel club dei vecchi rimbambiti cronici -
avete presente?- quelli che ripetono sempre le stesse cose per poi
dimenticarle subito e biasimarle un attimo dopo se le dice un altro.
La
verità è che qui non succede niente, ma proprio niente, al punto che
io non ricordo nulla di rilevante dal giorno della partenza di Antonio e
Maria (chiamiamoli così per adesso); niente, capito?, addirittura -
scusate il macabro - in questi ultimi due anni non è morto nessuno, e
nessuno si è ammalato sul serio, e adesso il più giovane del nostro
paese ha la ragguardevole età di sessantasei anni, sessantasei. Di cosa
dovremmo parlare dunque, se siamo tutti talmente riservati da custodire
piccole manie come segreti importanti e preferiamo tacere imbarazzati
l’uno di fronte all’altro piuttosto che chiedere, ad esempio, come
stai? E così è come se questi ultimi due anni non fossero affatto
passati, e i nostri discorsi sono ancora fermi a quei giorni,
inizialmente perché ci faceva comodo parlare dei “visitatori”
anziché di noi, adesso invece perché siamo un po’ rintronati e a
furia di darci contro l’un l’altro ci stiamo quasi divertendo.
Tutta
questa premessa per dire che da oltre ventitré mesi nella nostra
comunità (“comunità” è un termine che ci descrive meglio di
paese) si discute esclusivamente del vero nome di lei,
la ragazza forestiera. Lui per
adesso lo chiameremo Antonio, perché fino a poco tempo fa eravamo quasi
tutti d’accordo nel chiamarlo così, quasi
tutti, visto che c’è ancora qualcuno che per il gusto della
polemica dice Antonino.
Ma
è sul nome di lei che non si riescono a trovare due persone con lo
stesso convincimento. Io, e lo dico subito a scanso di equivoci, il vero
nome della ragazza non lo conosco.
Per
me si chiamava Maria.
Maria.
E
dico questo perché non ho mai sentito Antonio chiamare la sua compagna
col nome di Maria, mai. Non l’ha mai chiamata Maria.
Bene
- direte voi - non l’ha mai chiamata Maria perché non
si chiamava così.
Be’,
sì... forse... oppure no.
Perché
dovete sapere che Antonio (...capisco che possa sembrarvi incredibile)
chiamava la sua ragazza con tutti i nomi del mondo. Ma proprio tutti eh,
tutti tutti, la chiamava in ogni modo possibile, con tutti i nomi
immaginabili, e mai che si ripetesse. Li usava una volta sola, i nomi, e
poi li gettava via per sempre. E vi garantisco che era davvero
sconcertante sentire Antonio che ogni cinque minuti chiamava la sua
compagna di viaggio con un nome diverso. Col primo nome che gli saltava
in mente, ve l’assicuro. Silvia, Paola, Giovanna, Roberta, Giulia,
Enrica, Barbara, Anna, Ivana, Teresa, Lucia, e tutti gli altri nomi che
possono entrare nel cervello di un uomo, anche solo di passaggio. Giada,
per esempio, vi sembra un nome che possa entrare nella memoria di un
uomo se non perché legato ad un affetto preciso? E Diamantina?
Antonio
doveva avere una testa veramente speciale, innanzitutto perché si era
spinto fino al nostro rifugio (“rifugio” è una parola che ci
descrive meglio di comunità), e poi perché tutti quei nomi che
conteneva dovevano fare continuamente a botte dalla mattina alla sera,
ammucchiati com’erano a centinaia, eppure Antonio ne aveva sempre uno
in bella forma da tirare fuori al momento giusto, inedito; Lilli, per
esempio. Una testa nella quale, però, non era mai passato il nome più
comune del mondo, Maria. Possibile?
Ho
chiesto in giro se qualcuno l’avesse sentito riferirsi alla sua
compagna con quel bellissimo nome, ma nessuno lo ha ricordato, e da
questo ho dedotto che Antonio lo faceva apposta a non nominare il vero
nome della ragazza, e che non avendola mai chiamata Maria, nome diffuso,
lei doveva veramente chiamarsi come la Madonna.
E
l’ho spiegato a questi testoni dei miei compaesani, ma non lo
capiscono. “Ma pensa tu” dice Benvenuto “se una ragazza giovane e
bella, con i capelli biondi e i jeans stretti, si può chiamare Maria,
con tutti i nomi che ci sono. Per chiamarsi Maria bisogna portare la
gonna innanzitutto, e poi avere i capelli mori, e aver superato i
cinquant’anni, come la nostra Maria, appunto”, e la nostra Maria,
che porta la gonna e ha i capelli neri da almeno settant’anni,
annuisce beatamente dimenticando che si chiamava Maria anche quando
giovinetta aveva sposato Benvenuto, che pure continua a dirla
“nostra” anziché “mia” sebbene nessuno di noi la rivendichi,
anzi.
“Si
chiamava Benedetta, Benedetta, si chiamava Benedetta” mi dice ogni
volta che c’incrociamo la vedova Adele, come se venissimo non da
opposte direzioni pensando ognuno ai fatti propri, ma come se
camminassimo da due ore a braccetto dibattendo animatamente l’atroce
dilemma. “Nel giorno di Natale, quello di Nostro Signore intendo, non
quello dei bolscevichi, lui l’ha chiamata Benedetta, che è anche un
nome tanto caro. Benedetta, ma non Maria. Maria non l’ha mai chiamata.
Ma ti pare che uscendo dalla Santa Messa il giorno di Natale, lì sul
sagrato della chiesa, sotto lo sguardo vigile del Signore, lui potesse
chiamarla con un nome finto?”, e senza aspettare la mia replica si
affretta per la sua strada come se il nostro incontro fosse stato
sospeso in suo favore per manifesta superiorità.
Voglio
dire - perché non vi facciate un’idea sbagliata - che la parola
“chiesa” male descrive una stanza consacrata con un crocefisso
appeso alla parete, dove peraltro il prete non viene quasi mai e la
messa l’ascoltiamo alla radio.
Devo
ammettere che tra tutte le varie ipotesi (che sono in numero pari agli
abitanti di quassù perché ognuno ha la propria), la mia è quella che
gode di minor credito, la più criticata, e da più parti viene
caldeggiata addirittura una mia abiura ufficiale - nell’interesse
della mia reputazione, dicono. Ma tant’è, sono dei testoni. Per loro
vale solo quello che vedono, quello che sentono. Per questo ce l’hanno
con me, perché la mia teoria è al tempo stesso la più logica e la più
fantasiosa, quella che maggiormente dista da tutte le altre. E procura
gelosia, naturalmente, un sentimento che fino a due anni fa credevamo
estinto e che adesso salvaguardiamo come una specie protetta. Avrebbero
voluto formularla loro, questa bella teoria, e allora l’avrei
contestata io adducendo per contro i loro stessi motivi: la verità è
che nessuno è disposto a concedere nulla su una questione così vitale
per noi, perché è l’ultima che ci rimane, l’unica capace di farci
alzare alla mattina con la speranza di avere ancora qualcosa da fare
anche in questo buco (“buco” è una parola che ci descrive meglio di
rifugio).
Così,
per esempio, Artemio è convinto che la ragazza si chiamasse Luisa.
Luisa, figuratevi. Artemio è coraggioso, ma anche sciocco e infantile.
Pur di avvalorare la propria tesi, Artemio ha ammesso pubblicamente - e
non dev’essergli costato poco - di aver spiato Antonio e Luisa in
tutte le loro attività nella roulotte, “tutte” specifica, e davanti
allo sdegno delle signore aggiunge “dalle dieci di mattina alle sette
di sera”. Dunque Artemio racconta che un giorno, quando Antonio era già
sotto la doccia, aveva chiamato Luisa per farsi portare in fretta un
asciugamano, “e vi sembra che nel momento del bisogno, magari tutto
bagnato e infreddolito, Antonio potesse chiamare la compagna con un nome
falso rischiando la possibilità che lei non rispondesse?
Impossibile!”, e trova naturalmente, questa tesi, la comprensione
soprattutto di quelle donne nelle quali l’istinto materno non si è
ancora spento, e aborrano l’idea che un loro figliolo possa rimanere
bagnato un minuto di troppo, come se si trattasse di rischio mortale.
Attenzione
però, quando dico che approvano la tesi di Artemio non intendo che la
condividono, poiché ognuno la pensa comunque a modo proprio, e contro
tutti gli altri.
Vi
domanderete come mai nessuno di noi ad un certo punto abbia avuto il
coraggio o la faccia tosta di chiedere ad Antonio il vero nome della sua
compagna. Bella forza! E se poi ce lo avesse rivelato?
Pino
è stato l’ultimo ad esibire la sua tesi. Pino è al tempo stesso il
più riflessivo e il più lento a riflettere, quindi arriva sempre in
doppio ritardo. Però è singolare - molto - e quando si decide a
parlare tutti noi lo ascoltiamo con la massima attenzione. Dunque Pino
sostiene che la ragazza si chiamasse Antonia, e che fosse non la moglie
o la fidanzata, ma la sorella gemella di Antonio. Dice che erano molto
giovani - ed è vero - e che solo da una lunga convivenza potevano
risultare certi meccanismi perfetti, come intendimenti a vista, segnali
segreti, parole appena accennate, tratti caratteristici non di amanti,
ma appunto di gemelli, e cita ad esempio il proprio caso, sostenendo che
capisce meglio suo fratello gemello che non sua moglie con la quale si
corica da quasi cinquant’anni. “Perché sono cinquant’anni che
appena coricato ti addormenti senza neanche pensare di fare
qualcosa”, replica ogni volta la moglie, e vorrebbe essere solo una
battuta, io almeno taccio, altri, magari un po' sordi, se la fanno
ripetere più di una volta, e se non gliela ripetono bene si arrabbiano
perché pensano che li si voglia escludere, così ci fermiamo,
spieghiamo la battuta, ma c’è sempre qualcuno che non capisce, è
inevitabile, bisognerebbe descrivergli qualcosa che davanti alle signore
non si può, così alla fine rimaniamo in silenzio senza sapere cosa
dire, malediciamo ognuno quella battuta, ogni volta la stessa battuta,
anche chi non l’ha ancora capita la maledice lo stesso, e malediciamo
anche quella stupida idea di riunirci ogni tanto, era molto meglio se
restavamo ognuno a casa propria, e ci sentiamo vecchi di mille anni.
Sono i momenti peggiori. Rimaniamo in silenzio, e ogni secondo che passa
sembra invecchiarci di un anno, e ci manca l’aria per respirare.
Agonizziamo. “Ma quali gemelli!” deve gridare ogni volta la Carmen
per riportarci nel mondo dei vivi, “Quali gemelli! Si vedeva lontano
un chilometro che il loro era amore vero, amore da amanti, amore di
fuoco, credete a me, che io me ne intendo!”, mentre tutti sappiamo
bene che non se ne intende affatto, e che forse sono trent’anni che
non riceve un bacio, ma tant’è, ci ha tirati fuori dalla nostra
millenaria ottusità e il minimo che possiamo fare è darle ragione.
Certe
volte penso che se non fossero arrivati Antonio e Maria, a quest’ora
noi si sarebbe già tutti muti; stavamo quasi abituandoci all’idea,
del resto, e senza troppo dispiacere, convinti che non avevamo più
nulla da dirci, e tanto meno qualcosa da ascoltare. E invece… Anche
adesso non parliamo molto di noi, è vero, e tacciamo i nostri problemi
esattamente come prima, e voi direte che è facile parlare sempre di
quei due giovani che ormai non ci sono più, ma per noi è già tanto,
tantissimo: parlare, non ha importanza di cosa.
A
volte ci riesce addirittura di ridere. Io, per esempio, rido ogni volta
che Guido espone la sua teoria sul nome della ragazza, perché Guido
secondo me è pazzo. “Quella ragazza non ha più un nome” dice
Guido. “Il vero nome è andato perduto nella memoria di quei giorni
quando per scherzo Antonio ha cominciato a chiamarla con nomi diversi;
adesso non è più possibile risalire al nome originale, è come
pretendere di desumere dallo scacco matto qual è stata la prima mossa
della partita, impossibile. Allora, se la ragazza non ha più un nome,
li ha tutti, e ognuno di voi ha ragione a chiamarla come gli pare, è un
suo diritto; ma bisogna pure intendersi quando si parla di lei,
non la si può nominare semplicemente lei,
e chiamandola sempre con dei nomi diversi nascono malintesi, e noi non
vogliamo - perché nessuno lo vuole - che nascano malintesi, perciò
bisogna chiamarla con il suo nome giusto, ma il suo nome giusto non lo
conosciamo, ella non ha più un nome preciso, allora ha tutti i nomi e
contemporaneamente altri nomi, più altri nomi che non rientrano per
vari motivi nei primi nomi, per cui è necessario scrivere subito,
immediatamente, una Carta dei Nomi completa di tutti i nomi che
conosciamo e che possiamo inventare, Carta che porteremo sempre in tasca
e che mostreremo in pubblico ogni volta che qualcuno di noi vorrà
riferirsi a quella cara ragazza. Io, per parte mia, indico il primo nome
della lista: Alberèlla (sì, con l’accento sulla e)”.
Magari
tutto questo a voi non farà ridere, è facile anzi che vi disgusti, è
naturale, vivete in un altro mondo, ma non capita spesso per noi di
sentire tante parole di fila, e così intorno alla centesima parola
cominciamo a ridere - non tutti, certo - e ridiamo per niente, senza
motivo, solo perché qualcuno parla tanto, e ridiamo di gioia parola
dopo parola, qualsiasi cosa dica. A volte ridiamo fino alle lacrime, non
riusciamo proprio a fermarci, e quando il primo comincia a tossire, è
come se raccontasse una barzelletta irresistibile, e gli altri giù a
ridere ancora, dall'inizio. Alla fine però ci vergogniamo, perché non
siamo abituati a divertirci insieme. Quello che ne segue è un silenzio
timido, imbarazzato, colpevole. Forse è anche per questo che nessuno
parla tanto.
La
verità è che c’eravamo affezionati a quei due ragazzi nonostante la
nostra diffidenza e le nostre clausure, e anche se nessuno lo ammetterà
mai, la prima cosa che tutti facciamo alzandoci la mattina è quella di
gettare uno sguardo soffermato dove Antonio e Maria avevano parcheggiato
la loro roulotte, nella speranza che nottetempo siano tornati. Sappiamo
bene che non torneranno più, e ci siamo rassegnati al fatto di averli
persi, tuttavia siamo vecchi, e conserviamo con gelosia ogni piccola
abitudine che ci ricorda Antonio e Maria. A tal punto c’eravamo
affezionati a loro, pensate, che di quell’anno in cui rimasero tra noi
io ricordo tutto; ricordo un paesaggio innevato che circonda Maria, e
allora concludo che ha nevicato tanto; ricordo Antonio che gioca a
pallacanestro mentre io guardo la TV, e mi sovviene che ascoltavo il
discorso di insediamento del nuovo governatore, e anche il suo nome,
Carlo Alberto.
Ma
torniamo a noi. Avevo detto, proprio all’inizio, che sul nome di lui,
Antonio, si era tutti d’accordo, o quasi. In verità, adesso che le
tesi sul nome di lei non riescono più a procedere e si sono un po'
incartate, anche sul nome di Antonio si avanzano sospetti. Ci guardiamo
in faccia, già incerti, e stiamo un po' zitti, pensando tutti la stessa
cosa, finché uno dice: “Ma voi avete sentito almeno una volta il nome
Antonio pronunciato dalla ragazza?”, e gli altri tutti in coro
rispondono “no!”.
In
effetti Maria non chiamava mai il suo compagno per nome. Mai. Era una
sua peculiare caratteristica, come quella dello zoppo di zoppicare. Lei
non pronunciava mai il nome del suo uomo, o gemello, o quello che fosse.
Mi
ricordo quella sera che vennero a mangiare a casa mia. Non su mio
invito, certo, perché in questo esilio (“esilio” è una parola che
ci descrive meglio di buco) è impossibile invitare qualcuno per cena,
non arriveremo mai a tanta confidenza, moriremo tutti molto prima.
Tuttavia quel giorno erano rimasti senza pane e Maria venne da me a
chiedermi una pagnotta. Mentre io prendevo il pane e Maria aspettava
sulla porta, arrivò anche Antonio dicendo che avevano vuotato la
bombola del gas; al che io, preso da inedita partecipazione, li feci
accomodare alla mia tavola. Fu una serata bellissima, che certo non
dimenticherò mai, e che ancora vado raccontando a piccole dosi agli
amici invidiosi che ogni volta ascoltano avidamente ogni particolare,
salvo quando parlo di me, allora sbuffano e mi sgridano, “parlaci di
loro!”. Ebbene, in tutta la serata, e non solo a cena ma anche dopo
quando giocammo a carte, Maria non si rivolse mai ad Antonio chiamandolo
per nome, e al contrario nominava il mio (Giuseppe) ogni qualvolta si
rivolgeva a me. Se voleva che io le passassi il vino diceva:
“Giuseppe, per cortesia, mi passeresti il vino?”. Se invece lo
stesso vino chiedeva ad Antonio diceva: “Mi passeresti il vino?”,
dando per scontato che solo il ragazzo si sentisse autorizzato ad
allungarle la bottiglia.
E
così in ogni altra situazione. Va da sé che Maria aveva una memoria
fenomenale per i nomi delle persone, e una volta memorizzato un
sostantivo non lo dimenticava più. Ricordava centinaia di nomi, forse
migliaia, e li citava continuamente; ogni sua frase non indirizzata ad
Antonio cominciava con un nome proprio di persona, ti chiamava per nome
anche quando ti guardava in faccia e non c’era la possibilità di
fraintendere a chi si rivolgeva, anche se Antonio non poteva sentirla,
anche se Antonio non era presente - per lei era come se Antonio ci fosse
sempre. Questa pratica doveva andare avanti da anni, e devo dire che non
le costava nessuno sforzo continuare a ripeterti il tuo nome in faccia,
anzi le scappava da ridere, a volte. Doveva essere una situazione
divertente anche per loro, con lui
che chiamava lei con tutti i
nomi del mondo e lei che si
rivolgeva a tutti gli altri indicandoli ogni volta per nome. Noi
all’inizio fummo scioccati da questa cosa (“scioccati” è una
parola splendida che fino a tre anni fa ignoravamo completamente), ma
poi capimmo che doveva essere una specie di gioco, e ricordando che non
giocavamo da tempo immemorabile, fu già tanto capire che forse avremmo
potuto partecipare anche semplicemente guardando giocare gli altri. Così
ne coprimmo il divertimento non facendo mai domande dirette sui loro
segreti, in una complicità che a tratti sfiorava l’intimità,
ennesimo termine imparato di recente. Era vietato metterli in imbarazzo
e avvicinarli troppo, come certi stambecchi sui monti. Ancora adesso,
quando avanzo la mia tesi sull’identità della ragazza e sostengo il
nome di Maria, qualcuno ammicca e sottolinea che io ci sono “andato a
cena”, e con questo semplice argomento si getta discredito su tutte le
mie idee, e nella testa di ognuno, in quei momenti, il nome “Maria”
è l’ultimo dei nomi possibili, anzi neanche tanto, alla stregua di un
nome da uomo.
Ogni
volta che parliamo di loro, e riferendoci a lui lo chiamiamo Antonio,
c’è sempre il Nino che fa la stessa domanda, manco cascasse dalle
nuvole: “Ma perché lo chiamate Antonio? Io non ho mai sentito la
ragazza chiamarlo con questo nome”. E ogni volta ci vuole qualcuno che
glielo ripeta daccapo, scandendo bene le parole, perché il Nino, oltre
a non esserci molto con la testa e niente affatto con la memoria, è
anche sordo da un orecchio e sempre raffreddato. Così cerchiamo un
volontario che gli ripeta per l’ennesima volta la solita storia, ma
nessuno si offre volontario, siamo tutti spazientiti, qualcuno
addirittura indignato, il Nino è perplesso, non capisce la nostra
seccatura, passano i minuti, quando finalmente si fa avanti Francesca,
sempre e solo Francesca, che si avvicina al Nino dalla parte
dell’orecchio buono e gli ripete, con infinita pazienza, per la
millesima volta, che un giorno, ritirando il resto alla cassa di Franca,
notando una banconota sulla quale era stato scritto a mano il nome
“Antonio”, lui avrebbe
detto: “Questo biglietto l’ho portato io qui”.
In
effetti, chi ci assicura che il nome “Antonio” sul biglietto sia
stato scritto proprio da lui? E quand’anche, perché quello dovrebbe
essere il suo nome e non invece quello di un fratello, un amico, un
socio o che altro? “Bisognerebbe sapere se la scritta è antecedente
al suo arrivo in paese oppure no, sapremmo almeno se è opera sua”,
osserva il professore in pensione Armando, che per ogni argomento ha
sempre un “bisognerebbe sapere”. Quando il dubbio ha cominciato a
tormentarci, va detto, per un giorno intero non si è visto in giro
nessuno, tutti intenti a cercare quel biglietto o altri biglietti nelle
proprie tasche, suppellettili, materassi, credenze etc., senza altro
esito se non quello di aver riempito una giornata con un po' di moto e
di esserci guadagnati una notte di sonno ininterrotto.
In
verità dobbiamo essere grati al Nino. E’ merito suo se oggi abbiamo
un nuovo argomento di discussione. Non fosse per la sua memoria che gli
impedisce di ricordare, da tempo tutti noi avremmo accettato la
spiegazione del biglietto come logica e veritiera, ma a furia di
sentirla ripetere tutti i giorni, e tutti i giorni dalla stessa voce
cantilenante di Francesca, questa spiegazione ci convince sempre meno,
ci appare banale, scontata, e soprattutto “noiosa”, parola che
adesso è per noi sinonimo di malattie. Solo adesso però, perché fino
a tre anni fa noi ricercavamo la noia, le facevamo la corte come ad una
bella donna, la credevamo ambasciatrice di pace e sicurezza, e al
contrario ogni novità era considerata portatrice di microbi pericolosi,
un vero attacco alla nostra salute già precaria. Oggi la nostra
valutazione è cambiata - avete visto - e anche se continuiamo a vivere
nella noia e saremo sempre troppo pigri per inventare qualcosa che ci
riguardi veramente tutti, sono proprio per queste valutazioni che dovete
apprezzare i nostri piccoli cambiamenti, piccoli, certo, piccoli anche se ottenuti con sforzi enormi,
talmente piccoli che nei momenti di sconforto ci paiono solo una
degenerazione delle nostre abitudini, ma dovete considerare che noi
siamo al confine (“confine” è una parola che ci descrive bene
quanto esilio), e qui ogni cambiamento, seppure minimo, ci costa fatica,
molta fatica, quindi i cambiamenti possono essere solo piccoli, forse
ridicoli, quasi inutili, eppure apprezzabili, apprezzabili, apprezzabili
ancora.
Almeno
per noi.
Come
forse ho già detto, Antonio e Maria vivevano su una roulotte bianca
trainata da una macchina piuttosto vecchiotta. Era la roulotte più
grande che io avessi mai visto, dotata probabilmente di ogni comfort,
come una vera e propria casa ambulante poggiata su otto ruote. Una
mattina ci svegliammo e le trovammo lì, la macchina e la roulotte, come
se fossero piovute dal cielo più che salite lungo la strada
(“strada” è una parola che non rende bene l’idea del sentiero che
ci tiene attaccati al mondo). Fin dal primo momento non potemmo fare a
meno di interessarcene senza soluzione di continuità, benché tale
comportamento fosse contro le nostre abitudini, abitudini che erano il
mezzo più sicuro per giungere alla noia, appunto. Intorno a mezzogiorno
avvenne il primo avvistamento, quando cioè Antonio uscì per vuotare il
cestino dell’immondizia. Nessuno di noi sospettava allora che quel
giovanotto ci avrebbe fatto ragionare tanto, e obbligati addirittura su
una strada nuova, una strada che certamente non ci porterà da nessuna
parte, lo sappiamo, ma sulla quale ormai ci siamo incamminati - a
piccoli passi, certo, ma stiamo andando. Uscito Antonio, qualcuno
ritenne già di aver visto tutto, ma io no, non demorsi e continuai, tra
un boccone e l’altro, a tener d’occhio la roulotte. La mia costanza
fu premiata intorno alle due del pomeriggio, quando una ragazza
dall’aria assonnata fece capolino dalla roulotte per sgranchirsi un
attimo le gambe, come se si fosse appena svegliata. La guardai bene: era
bella! E in più giovane, magra, agile; in una parola, una marziana. Era
la prima ragazza che vedevo dopo tanto tempo, e devo dire che mi fece
bene da subito. L’unica persona che veniva - e viene - quassù con una
certa regolarità, una volta al mese, è il vecchio filibustiere che
rifornisce il solo negozio che abbiamo, quello di Franca, ma è muto, e
antipatico, e ben lungi dall’essere giovane e femminile. Qualche
giorno dopo, quando chiesi a Bartolomeo cosa ne pensava della ragazza,
mi rispose testuale: “Una marziana”.
Qualcuno
li prese subito troppo sul serio, quei due giovani. Come Artemio, per
esempio, che li spiava veramente dalla mattina alla sera, con
l’assiduità con la quale un malato resta attaccato alla sua flebo. O
come Vinicio, il nostro sonnambulo, che salutava Maria solo per sentirsi
ripetere da lei il proprio nome, perché sostiene che come lo
pronunciava quella ragazza il nome Vinicio non lo sapeva dire nessuno.
Certo
che su tutti Franca era favorita, essendo la proprietaria dell’unico
negozio che c’è qui. “Sono una coppia ordinata” ci dice ogni
volta “perché a fare la spesa venivano un giorno l’uno e un giorno
l’altra”, e questo lo sappiamo anche noi che più o meno li tenevamo
d’occhio, “lui aveva un bel portafoglio di pelle e pagava spesso con
pezzi di grosso taglio, come se ne avesse una pila”, e va bene,
cominciamo a spazientirci, “comperavano ogni giorno qualcosa di
diverso”, e va bene anche questo, accidenti, ma si può sapere di
preciso cosa compravano e cosa
dicevano?, “questo non lo ricordo”, conclude Franca, mentre noi
ricordiamo benissimo che non l’abbiamo mai potuta sopportare, che
tiene prezzi dei quali dovrebbe vergognarsi, e che andiamo da lei solo
perché il suo è l’unico negozio nel raggio di chilometri e
chilometri, altrimenti vedrebbe, potrebbe morire di fame se fosse solo
per noi.
Perdiamo
la pazienza quando parliamo di Antonio e Maria, e per loro - in certi
momenti - possiamo anche litigare, e odiarci, e augurarci il colera
l’un l’altro; in una parola, vivere. Con Teodoro, per esempio, io
non parlo più, perché Teodoro è il solito ingordo, come Franca, che
non ti dice nulla di quello che sa, e se potesse cancellerebbe dalle
nostre memorie anche Antonio e Maria, così lui avrebbe qualcosa che noi
non abbiamo, come l’antenna parabolica che ha montato da due anni e
che dice non funzionare, ma non è vero, piuttosto la staccherebbe che
farci vedere i suoi programmi. Con Bartolomeo, al contrario, sono sempre
stato amico, ma negli ultimi anni non sapevamo più di cosa parlare,
perché qui il tempo cambia quattro volte l’anno, e così non
c’incontravamo quasi più. Ma ho capito che lui ci teneva a parlare
con me, e adesso ci sforziamo di essere gentili l’uno con l’altro, e
di interessarci di cose che non c’interessano, ed è bello, sono
contento di lui. E questo grazie esclusivamente ad Antonio e Maria. Loro
non erano come Teodoro, credetemi, e se gli avessimo chiesto qualcosa -
una cortesia o qualsiasi altro favore - si sarebbero fatti in quattro
per contentarci, ne sono certo. Ma da noi chiedere non si usa, è una
confidenza che sconfina nel debito, e ci sentiamo in colpa, preferiamo
rinunciare e continuare a farci del male per niente, in fondo.
Un’altra
cosa che non abbiamo mai capito di quei due è come si guadagnassero da
vivere. Noi non gliel’abbiamo mai chiesto e loro non ce n’hanno mai
parlato, e fino a ieri pomeriggio non avrei saputo cosa dire, visto che
adesso un’idea me la sono fatta. Di sicuro non lavoravano in paese (e
cosa avrebbero fatto dal momento che in questa piccola frazione non c’è
nulla?) e nemmeno davano l’impressione di produrre qualcosa
all’interno della roulotte, come bigiotteria o modellini o roba del
genere. Ogni tanto Antonio faceva un giro in macchina, partiva a
mezzogiorno e tornava nel tardo pomeriggio, ma io non l’ho mai visto
caricare dei pacchi che potessero contenere il risultato del loro
lavoro. Forse avevano semplicemente un sacco di soldi e li spendevano
poco per volta vivendo dignitosamente in giro per il mondo
(evidentemente dovevano già averlo visto tutto, il mondo, perché il
nostro è l’ultimo posto dove qualcuno verrebbe a vedere qualcosa).
Un
giorno, però, Antonio mi stupì. Aveva sistemato una sdraio fuori dalla
roulotte, e se ne stava tranquillo a godersi il sole d’estate. Con un
cappello da cowboy che gli riparava la testa, sembrava addormentato come
un sasso. Invece, quando gli passai davanti tornando dal negozio di
Franca, Antonio mi fece cenno di fermarmi. Rimase seduto ancora per un
attimo, con aria indecisa, quasi pentendosi di avermi fermato. Poi si
alzò e mi raggiunse, ma incerto. “Secondo te” mi disse con una
certa severità, portando l’indice sinistro vicino alla bocca e
facendo gli occhi sottili, “secondo te”, ripeté molto lentamente,
“qual è il posto migliore dove nascondere un cadavere?”
Per
un istante pensai che volesse uccidere qualcuno, ma poi capii che
scherzava, e mi adeguai. “Nell’armadio!”, risposi contento.
“Sbagliato!”,
esclamò lui aprendosi in un sorriso trionfante che scacciò dalla sua
fronte i dubbi di poco prima; “In un cimitero”, concluse
soddisfatto.
Naturalmente,
poiché in diversi mi avevano visto sostare con Antonio, dovetti ben
presto ragguagliare tutti in merito alla sua battuta, che ognuno valutò
con la propria testa. Romeo, ufficiale in congedo, non aveva dubbi, e
diceva Antonio essere un soldato, essendo la sua una battuta che lui
giurava di avere già sentito in caserma negli anni della gioventù.
Romeo non ci aveva mai parlato dei suoi trascorsi nelle forze armate, e
da quel giorno, invece, ha cominciato a dirci qualcosa, non molto,
certo, solo accenni, parole sparse qua e là, ogni tanto un saluto
sull’attenti, sciocchezze, ma noi ci accontentiamo di poco, ormai lo
sapete, noi siamo così, raccogliamo anche le briciole e le conserviamo
con cura, non buttiamo via niente, noi.
Gertrude
dice che Antonio e Maria erano due scienziati del centro sismico della
Capitale, inviati ai margini (“margini” è un’altra parola che ci
descrive molto bene) per dei rilevamenti importanti. E’ inutile
spiegarle che negli ultimi cento anni non si è registrata una scossa
tellurica in tutto lo Stato, “appunto” ribatte Gertrude “perché
gli studiosi le prevedono e le annullano”.
Alberico,
ultimamente, ha formulato un’ipotesi interessante, che fino a ieri
quasi condividevo, segretamente, s’intende, perché in pubblico ho
sempre deriso ogni sua parola. Alberico, che sfrutta il suo tempo meglio
di noi e legge una gran quantità di libri che gli arrivano due volte
all’anno per posta, sostiene che alcune Autorità, peraltro non meglio
precisate, abbiano il potere di allontanarti da casa in seguito ad un
comportamento a loro non gradito. In effetti può essere. Anch’io
credo che sia così; non mi spiegherei altrimenti il grande traffico che
a volte si riunisce su strade impervie che non conducono da nessuna
parte. (A volte, portati dal vento, ci arrivano strani rumori
clacsonanti, e qualche giorno dopo, se piove, la pioggia è sporca, come
acqua usata). L’idea che Antonio e Maria ne avessero combinata una
fuori dalle regole, di quelle regole che se violate ti mandano in
carcere, stimolava la mia fantasia. Non solo. Il fatto che li avessero
mandati proprio da noi confermava il nostro principale sospetto, e cioè
che laggiù si fossero completamente dimenticati di noi, e credessero la
nostra zona una brughiera disabitata buona solo per confinarvi gli
scarti della società, come noi del resto.
Comunque,
il dubbio sul loro mestiere di guadagnarsi la vita adesso non c’è più.
Ma
lo sappiamo solo noi.
E’
questo il bello; lo sappiamo solo noi, solo noi quassù. Di sotto,
quelli che si credono tanto intelligenti, tanto furbi, tanto belli, loro
no, loro non lo sanno: ma vorrebbero.
Ci
credete? Noi non glielo diremo, il segreto di Antonio e Maria.
Proprio
ieri, dunque, intorno alle tre di pomeriggio, abbiamo sentito una
macchina sforzarsi su per la salita, poi fare capolino sulla via,
indugiare un attimo e infine spegnersi. Subito ci siamo tutti affacciati
dietro le tendine per vedere chi si era spinto fino al paese, e non
senza un sussulto di gioia abbiamo riconosciuto il sergente della
polizia, che non veniva a trovarci da anni. Dal momento che faceva
sfoggio di una divisa mai vista, da principio abbiamo pensato che fosse
venuto a farcela vedere - per cortesia -, ma dal fare spazientito col
quale si guardava attorno abbiamo escluso quasi subito che fosse venuto
solo per aggiornarci sulla moda e sui costumi. Così, visto che lui non
si allontanava troppo dalla macchina e non mostrava di essere venuto per
qualcuno di noi in particolare, a poco a poco siamo usciti dalle nostre
case e gli ci siamo fatti tutti incontro.
Il
sergente non si è perso in convenevoli, però ha aspettato anche
Giulio, lo zoppo, che è arrivato in netto ritardo. E’ stata una
cortesia molto gradita, perché di solito Giulio arriva sempre in
ritardo e ogni volta ci vuole qualcuno che lo aggiorni, che è cosa
noiosa anche per noi che pure non abbiamo nulla da fare.
Il
sergente è un giovanotto di una trentina d’anni, potrebbe essere
nostro figlio, e quando parla con noi scandisce bene le parole e alza la
voce, forse ce l’abbiamo scritto in faccia che siamo mezzi sordi, o
forse i giovanotti di oggi parlano tutti così, strillando - ma Antonio
e Maria no, loro ci trattavano meglio, con più gentilezza.
-
Giù in centrale abbiamo ricevuto un fax, - ha cominciato il sergente,
come se qualcuno di noi fosse mai stato in centrale e sapesse di preciso
in quale angolo stia la macchinetta che li stampa, questi fax - un
avviso che vi riguarda tutti, proveniente dalla polizia della contea
vicina -. (Il sergente dimentica, o forse ignora, che per noi non esiste
nessuna contea vicina, vicina
è una parola che quassù non ha più significato, perché la più
piccola delle distanze, ma anche già la sua metà, è per noi
incolmabile).
-
Ci chiedono notizie - ha continuato il sergente - di due giovani nomadi
girovaganti su una roulotte bianca, nell’ambito di una vasta indagine
riguardante il furto in una gioielleria. E’ normale routine, nessuno
crede veramente che siano stati quei due, però, se ricordate, anche giù
nella nostra città si verificò un furto analogo in una gioielleria, un
paio d’anni fa, furto tuttora impunito. E anche allora, se non mi
sbaglio, c’erano quei due giovani, marito e moglie presumo...-
-
Visto che erano marito e moglie? L’avevo detto io! - ha esclamato a
quel punto Carmen, letteralmente incontenibile nel suo solito entusiasmo
da prima mondiale.
- Ma cosa dici, bugiarda, - salta su Carlo, che non perde occasione per
dare del bugiardo a qualcuno, - tu hai sempre sostenuto che erano
amanti, a-man-ti; peccatori! -.
-
Ti dico che si vedeva lontano un chilometro che erano marito e moglie,
un chilometro si vedeva lontano, un chilometro!-
-
Signori! Signore! - è intervenuto allora il sergente,- Vi prego. Non
sappiamo se erano sposati o semplicemente conviventi, e in fondo...-
-
E se fossero stati gemelli? - ha detto a quel punto Pino; e se già
Pino, notoriamente molto lento, era arrivato a profferir parola, è
parso a tutti noi di avere il diritto di dire la nostra. In due minuti
si è abbattuta sul sergente una vera tempesta di parole, parole che
erano sempre le stesse, ma ripetute da ognuno più volte e più volte
ancora, e a gran voce, decine di volte ogni volta più forte. Amanti,
fratelli, sposi, gemelli, concubini, cugini, ognuno diceva la propria
tesi gridando più del vicino, anzi, più del vicino quando il vicino
gridava più di lui. Per il sergente la cosa cominciava a farsi
difficile. Se fosse venuto a parlarci di qualsiasi altra cosa, ci
avrebbe trovati tutti d’accordo e disposti a collaborare con pigrizia;
ma proprio sull’unica cosa che ci divideva e ci metteva
tutti-contro-tutti veniva a domandarci?
Forse
cominciava a capirlo. Quando ci siamo calmati, mi è parso infatti più
attento nello scegliere le parole giuste, e strillava meno, come se non
gli dispiacesse di non essere udito bene da tutti.
-
Dunque ci sono state due rapine,- ha ripreso
- e in entrambi i casi si registra la presenza di queste due...
persone - e qui si è fermato un attimo, compiacendosi del termine
“persone”. Tutti noi lo aspettavamo al varco, perché sapevamo già
come sarebbe finita.
-
Tramite fax - ha continuato il sergente - ci vengono chieste le
generalità delle due persone, perché pare che nell’altra contea non
siano riusciti a reperirle. A cominciare dai cognomi.-
Così
trasparente è stato a questo punto il nostro stupore, che il sergente
deve aver pensato di essersi sbagliato nel parlare, e si è affrettato a
ripetere (ma lui credeva di correggersi) “ i cognomi!, solo i cognomi.
“
E
noi siamo caduti dalle nuvole. Non c’eravamo ancora spinti così
lontano. Noi discutevamo da due anni sui nomi di Antonio e Maria, e solo
ieri, e solo perché ce l’ha detto il sergente, ci siamo ricordati che
anche le persone reali hanno un cognome, non solo quelle che vanno in
TV. Giuro che erano anni che non collegavo la parola “cognome” ad
una persona in carne ed ossa. Nel nostro paese non ci chiamiamo mai per
cognome, e laddove ci sono nomi uguali, si ricorre al soprannome.
Guardavamo il sergente a bocca aperta, vergognandoci sì del nostro
stupore, ma incapaci di dissimularlo, fino a quando a risolvere la
situazione non ci ha pensato quel gran genio di Felice, dicendo:
“Perché, lei pensa davvero che quei due ragazzi avessero anche un
cognome?”
Allora
Romeo, che ha sempre un passato nell’esercito e un certo senso
dell’onore, ha fatto segno al sergente che Felice è un po'
picchiatello, e in maniera brillante ha fatto notare che se avessimo
conosciuto il cognome dei due giovani non ci saremmo divisi tra chi
sostiene che fossero fratelli e chi invece che fossero amanti, sposi
etc.etc., da che il sergente ha subitamente concluso che i cognomi non
li conoscevamo di sicuro.
Prima
che il sergente ci ponesse l’altra domanda che già tutti stavamo
aspettando, e che sapevamo ci avrebbe rivolta poiché non era tanto
svelto da capire che avrebbe fatto meglio a risparmiarsela, sono
riuscito ad ottenere un paio di informazioni che ritengo molto
interessanti.
-
Sergente, - ho chiesto - come avrebbero fatto i ladri a superare i posti
di blocco con tutti quei gioielli rubati?-
-
Questo non lo sappiamo- mi ha detto.- I posti di blocco sono scattati
subito, ma niente. In verità io mi sento di escludere che siano stati
quei due giovani, qui siamo di fronte ad una grande organizzazione
criminale, non c’è dubbio.-
-
Ancora una domanda, sergente - ho insistito.- Qual è il posto migliore
dove nascondere un cadavere?-
-
Eh eh, vuole uccidere qualche vecchietto? Ma lo sanno tutti il posto
migliore dove nascondere un cadavere: l’armadio!-
-
Appunto - ho risposto. - Hai sentito Bartolomeo?-
E
così ho capito che il sergente non li prenderà mai, i ladri, perché
l’idea di Antonio e Maria di svuotare gioiellerie fingendosi operai di
bigiotteria è un’idea al passo con i tempi, come quei due giovani,
del resto.
E
noi dobbiamo ringraziarli per aver diviso un po' del loro tempo con noi,
perché dopo, una volta andati via, ce ne hanno lasciato un po', del
loro tempo; poco, certo, anzi pochissimo, solo le briciole, ma per noi e
già tanto, tantissimo, è come assaporare un’arancia quando piove da
giorni e giorni e il sole sembra annegato anche lui.
-
Ricordate almeno i nomi di
quei due giovani?- ha chiesto il sergente.
Non
avrebbe dovuto farlo.
Dopo
una quindicina di minuti passati ad ascoltare ognuno di noi, e ognuno di
noi più volte sulle voci degli altri, e gli altri più volte sulle voci
di tutti, e poi tutte le voci insieme a gridare più forte per avere
ragione su tutte le altre, dopo una quindicina di minuti lo abbiamo
visto andare via barcollando come un ubriaco- barcollando come un
ubriaco - anche di più.
Era
uno spettacolo, era uno spettacolo vederlo andare via così, con tutti
quei nomi che gli svolazzavano intorno e sulla testa.
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