Piccioni
La
carcassa del piccione non era altro che un fagotto floscio di penne
fradice, una macchia grigia appena affiorante dalla povera neve
superstite nell’aiuola centrale di Piazza Fontana. L’estremo residuo
di quella spolverata notturna che cinque giorni prima aveva imbellettato
di bianco la città, nascondendo sotto la sua veste immacolata, anche se
per poche ore soltanto, l’immondizia e le brutture delle strade.
Grossi
fiocchi durante la notte avevano volteggiato a lungo sui tetti dei
palazzi, sui rami spogli dei pochi alberi di Milano, sulle lamiere delle
automobili parcheggiate un po’ dovunque, infilandosi sotto i portici e
rendendo scivolosi i gradini dei sottopassi e degli ingressi della
metropolitana.
Poi, di primissimo mattino, quando l’illuminazione stradale si era
spenta, quasi ne regolasse la caduta un identico timer, all’improvviso
e all’unisono avevano smesso di scendere.
Non era neanche più piovuto, però, cosicché, considerato anche che la
temperatura era rimasta costantemente sotto lo zero, la neve era
sopravvissuta con caparbietà degna di miglior causa, ritraendosi con
dignità prima dalle strade, poi dai marciapiedi, rifugiandosi infine,
lordata e violentata dalla fuliggine che la città produce senza sosta,
negli angoli più defilati, al riparo dal calpestio dei passanti.
Come quell’aiuola gelata, appunto.
Mi chiamo Remo.
Mica tanto normale per uno che è nato e vissuto sempre a Milano, che è
iscritto alla Lega da prima che l’Umberto si sparasse la prima sega
con la mancina, e che di cognome fa Brambilla, tanto per chiudere in
bellezza.
Si vede che il giorno che è andato a iscrivermi all’Anagrafe di Via
Larga mio padre per colazione aveva bevuto un paio di bianchini più del
solito.
Cioè quattro.
Più i due con cui brindava al nuovo giorno appena fuori dalle coperte
fanno sei se i conti sono giusti: un po’ troppi anche per uno con lo
stomaco foderato di ghisa come ce l’aveva lui, soprattutto se il tutto
si verifica prima che al giornale radio delle otto del mattino abbiano
letto le notizie sportive.
Remo, pensa te!
A me invece quando mi sveglio mi piace bere il caffè.
Bello caldo, corretto con un bicchierino di grappa, s’intende.
Comunque la verità è che stamattina fa un freddo del cazzo: è il
secondo di quei giorni che qui a Milano chiamano i Giorni della Merla.
L’Osvaldo dice che invece quando comincia a fare caldo davvero, e tra
San Babila e il Duomo si vedono passeggiare a coppia tutte quelle
modelle con la gonna corta e le gambe così lunghe che non arrivano più
a terra, vuole dire che hanno preso il via alla grande i Giorni della
Passera …
Non so a voi, ma a me è una battuta che mi ha sempre fatto cagare sotto
dal ridere.
Sto passando in questo stesso momento proprio davanti alle vetrine della
Banca Nazionale dell’Agricoltura, quella saltata in aria nel dicembre
del ’69. Non l’avranno messa gli anarchici, non l’avranno messa i
fascisti, voglio credere che non l’abbiano messa neanche quelli dei
Servizi Segreti, fatto sta che la bomba è scoppiata lo stesso.
Mistero della Fede.
Amen e alleluia, fratelli, oremus.
Da piccolo ho fatto il chierichetto, sapete? Abitavo proprio alle spalle
di San Nazzaro, a pochi passi da qui. Ricordo che il parroco era basso e
grasso, mentre il suo vice era alto e allampanato.
Noi ragazzi li chiamavamo don Stanlio e don Ollio.
Quando eravamo ben certi che non ci fosse in giro il lungagnone, quello
dei due che si occupava dei ragazzi dell’oratorio, naturalmente.
Non era per paura della bacchetta che portava sempre nella manica della
tonaca, e che ti percuoteva sulle mani sorridendo con la bocca, ma certo
non con quei suoi occhiacci color pozzanghera.
No, era per la quotidiana partitella di calcio
nel campetto, un lembo di paradiso chiuso da un cancello col
chiavistello, con il pallone di cuoio lasciato non certo per caso sempre
lì, nella porta opposta all’entrata, sempre gonfio, lucido e
tentatore più della mela di Adamo ed Eva.
Quando si facevano le squadre, avevi voglia ad aspettare che venisse
fuori il tuo nome, se appena appena avevi commesso una mancanza piccola
così.
C’era soltanto un modo per recuperare, uno soltanto: mettere ben bene
la coda tra le gambe e andarsi a inginocchiare nell’angolo buio del
transetto, al di qua della grata del confessionale di don Ollio.
L’importante era parlare, dire qualsiasi cosa, perché il vecchio
prete oltre che grasso era sordo quanto una campana, al punto che per
farti sentire da lui dovevi strillare talmente forte che l’assoluzione
avrebbe potuto tranquillamente darla
uno qualsiasi dei sacerdoti del Duomo.
Riusciva a volare, ancora, nonostante il gelo mortale che gli
intorpidiva le ali, ignorando ostinatamente lo stimolo feroce della fame
che sembrava mordergli il piccolo stomaco dal di dentro.
Sfiorò in un’ampia virata la facciata del Duomo, resistendo a stento
alle raffiche di vento che sembravano volerlo spingere a schiantarsi
contro il marmo viscido di pioggia e di smog. Subito dopo con un ultimo
sforzo planò sulla piazza, sorvolando a non più di due metri
d’altezza gli ombrelli aperti dei pochi frettolosi passanti, e
andandosi a posare alla fine tra le zampe del cavallo bruno del
monumento a Vittorio Emanuele.
E una volta lì decise che sarebbe rimasto a riposare un po’.
Con gli occhi ancora attenti, nonostante la spossatezza mortale che si
sentiva addosso, con le pupille lucide come capocchie di spilli neri,
girando a scatti nervosi la testa esplorò tutto intorno alla ricerca di
una mollica, un chicco di granturco, il frammento di un popcorn o di una
patatina fritta caduta dal sacchetto di cellophane di qualche turista o
dalle dita disattente di un bambino.
Ma non vide altro che biglietti della metropolitana accartocciati e
mozziconi di sigaretta infradiciati d’acqua e di guano.
E’ disseminato di chiazze
giallastre, il marciapiede sotto il cornicione del Vicariato: sono le
scacazzate dei piccioni che piovono dai cornicioni.
Sembra che non sappiano fare altro, quelle bestiacce, che zampettare a
destra e a sinistra tra i piedi della gente per bene alla ricerca di
qualche schifezza da beccare, digerire rapidamente e poi cacciare fuori
allo stato semiliquido dalla apertura posizionata nella parte opposta
del corpo.
Preferibilmente dall’alto, ancora meglio se proprio sul più bello
passa qualcuno nella strada sottostante. Esattamente quanto accadde a me
in Galleria qualche anno fa, alla faccia delle reti piazzate nella parte
superiore delle arcate d’ingresso da qualche testa fine
dell’Assessorato all’Igiene.
Frega una minchia delle reti ai piccioni: lo sanno tutti che quando gli
scappa gli scappa.
Avevo indosso il trench nuovo appena comprato da Raoul del Mare, mica ai
banchi del mercato di Via Papiniano, uno degli ultimi capi che acquistai
prima che cominciasse la mia personale “ Grande Crisi “,
se non ricordo male.
Fui centrato proprio sulla spalla destra, da un pennuto che quella sera
non doveva stare bene d’intestino, neanche un po’, porca puttana.
Stupidi uccelli, solo qui a Milano ce ne devono essere a migliaia.
Gliela darei io qualche palata di mangime speciale, quello col veleno
dentro. Un modo come un altro di risolvere il problema una volta per
tutte.
Già, ma adesso che ci penso, tanti quanti sono, capita solo di rado di
imbattersi in qualcuna delle loro carogne.
Per esempio le volte in cui è capitato a me potrei contarle sulla punta
delle dita di una mano, con l’avanzo di una, e in tre di quelle
occasioni non rimaneva altro che marmellata spiaccicata sull’asfalto
dalle ruote delle automobili di passaggio.
Eppure sono sempre in giro per le strade, da quando quella cazzo di
banca giapponese dov’ero andato per tirare su cinquecentomila al mese
in più di quanto prendessi alla Banca Regionale di Sconto decise
all’improvviso di chiudere baracca e burattini e di lasciarci tutti
nella merda fin qui.
Anzi, nella MELDA, come dicono dalle loro parti.
Ma quando mi arrivò la classica letterina che cominciava con
“ Siamo spiacenti di comunicarLe che, a causa del
processo di ristrutturazione aziendale a Lei noto ... “
io ero già arrivato per conto mio molto vicino ai titoli di coda.
Ma questa è ancora un’altra storia.
Con
il becco infilato nelle soffici piume che gli gonfiano il petto,
consumato dalle sevizie del freddo, della fame e della vecchiaia, resta
immobile sotto la sferza gelida del vento del nord. E’ lo stesso
istinto di sopravvivenza che lo costringe a risparmiare energie
limitando per quanto possibile ogni funzione corporea che non risulti
incontestabilmente finalizzata
a sopravvivere.
I milanesi che da soli camminano verso casa e quelli che si dirigono a
coppie o a piccoli gruppi verso
i cinema del Corso per lo spettacolo delle venti e trenta, si incrociano
coi loro passi frettolosi a pochi metri di distanza dal suo precario
rifugio.
Caparbiamente insensibile al puzzo nauseabondo di idrocarburi che
impregna l’aria ormai vecchia del giorno,
sordo ai rumori del traffico isterico dell’ora di punta, il
piccione dorme.
Anch’io avrei un letto caldo e un’amica comprensiva, ad
aspettarmi.Se soltanto ne avessi la voglia.
Se cioè non fosse universalmente noto come la bottiglia sappia essere
assai più esigente di
un’amante.
Intanto quando decide di avere una storia importante con te, una delle
prime cose che ti chiede è di baciarla sempre sulla bocca: dopo i primi
approcci, infatti, riesce a convincerti che passare attraverso la
mediazione di un bicchiere è un affare del tutto fuori luogo, un po’
come stare lì a infilarsi un preservativo stimolante la prima notte di
matrimonio.
Poi, una volta che ti è entrata bene bene nel sangue e nel cervello,
comincia a non sopportare più che tu possa provare altri appetiti che
non siano quelli di una sonora sbronza.
Basta con il cibo, a parte quello strettamente necessario per
sopravvivere, basta con gli hobbies, basta soprattutto col sesso. E
quello stesso alcool che all’inizio sembrava poterti accendere il
fuoco dentro alle mutande si trasforma come per incanto in un calmante
molto più efficace del bromuro con il quale durante il servizio
militare condivano ogni
giorno la minestra del rancio.
Stasera io e la signora dal collo lungo abbiamo un appuntamento
speciale.
Sto andando a incontrarmi col Tonio,
che non ho ancora capito bene come, è riuscito a procurarsi le chiavi
della cantina di un certo medico suo vicino. L’aspetto più
interessante della questione è che sembra che il dottore in questione
ci abbia una collezione di vini che gli tira una pippa pure Veronelli.
E, siccome l’ “Apriti Sesamo” di quel paradiso il Tonio se l’è
procurato solo stamattina, e il Dottore Tal de’ Tali rientra dalla
settimana bianca proprio domani, non è possibile che se le scoli lui da
solo!
Così eccomi al tornello del metrò rosso a invalidare per la sesta
volta il biglietto che ho comprato la scorsa settimana.
Quindi domani mi toccherà acquistarne un altro: com’è scritto a
lettere di piombo nel sacro manuale dei portoghesi, ho raggiunto il
limite massimo di timbrature sopportato dalla carta, prima che risulti
talmente deteriorata da non ingannare più neanche il più orbo e
distratto dei controllori.
Ha
recuperato
energie sufficienti a potersi mettere di nuovo in movimento. E
adesso è proprio ora di andare, infatti.
Si sente abbastanza in forze da scendere con un aborto di volo giù
dalla base del monumento, e di lì zampettare fino alla pozza di acqua
piovana che ha il suo alveo nel punto di convergenza tra quattro dei
lastroni di pietra che pavimentano la piazza.
Becchetta quel liquido grigio aromatizzato al fango.
Senza badare al sapore sente scorrere con penosa fatica lungo la gola
gonfia e irritata i tonificanti minerali che vi sono disciolti. Il
richiamo è sempre più forte, acuto come la più acuta delle vibrazioni
di un diapason, gli trapana il cervello, ricavandone scorie di puro
dolore.
Il richiamo.
Quando si manifesta nessuno della sua specie può resistervi.
E’ della stessa natura, probabilmente, di quel misterioso segnale che
fa levare in volo tutte insieme le rondini dai paesi caldi, per guidarle
in stormi neri contro l’azzurro del cielo verso la temperate regioni
Europee, e poi, con l’arrivo dei primi rigori invernali, le riconduce
indietro, oltre i monti, al di là del mare.
Deve andare.
Finché sarà in grado di farlo si dirigerà lì dove è destino che
vada.
Il cestino è almeno a un metro e mezzo di distanza, ma il mio sputo lo
centra con la precisione di sempre, andandosi a infilare nel cartone
schiacciato di un bicchiere di Coca del Mc Donald.
Non sia mai che mi metta a scaracchiare in terra, lo considero un
segnale di pessima educazione.
Per un attimo mi fermo all’incrocio tra due corridoi, poi sotto gli
illeggibili graffiti spray con i quali il solito testa di cazzo di
writer ha affrescato anche il cartello indicatore, riesco a distinguere
l’indicazione per Molino Dorino. Rapida conversione a destra,
tagliando la strada a un tizio con giacca, cravatta (allentata) e
ventiquattrore aziendale, che corre trafelato verso la scala del
marciapiede opposto.
Una volta anch’io andavo di fretta.
Tanto tempo fa, un’eternità, anche se da allora non sono passati più
di sei o sette
anni.
Ma non fu mica l’infarto al miocardio a farmi cambiare vita.
Ero seduto sulla tazza del cesso con i pantaloni a mezz’asta, quando
mi prese, e intanto spuntavo i tabulati venuti giù dall’Ufficio
Sviluppo per non ricordo più quale azione promozionale sul segmento dei
medici dentisti.
Ricordo che nonostante le fitte che mi martoriavano il petto e braccio
destro ci pensai per un po’ prima di chiamare aiuto col cellulare.
Perché la preoccupazione più grande non era mica il dolore, né la
paura di lasciarci la pelle, no, quello che mi angustiava di più era
che potesse cominciare a circolare in Direzione la notizia che a Remo
gli era venuto il coccolone proprio mentre stava cagando.
Mi sembrava già di vederli, in piedi intorno alla macchinetta del caffè,
il Responsabile Commerciale dai begli occhi a mandorla, attorniato dai
Coordinatori Vendite e dalla compagnia gracidante delle mignottelle
dell’Ufficio Segreteria, che si calavano quella sbobba schifosa dai
bicchierini di plastica marrone: allineati e coperti dietro parole di
solidarietà pelosa, coi pugni pudicamente chiusi a coprire le labbra, soffocando idioti risolini di scherno.
Credo di avere concesso a quelle allucinate fantasie non più di una
manciata di secondi, altrimenti, con ogni probabilità, non starei mica
qui a raccontarlo! Ciononostante la cosa che ricordo con maggior
nitidezza di quei momenti e di tutto il pieno che venne fuori dopo, è
l’indugio del polpastrello del mio indice destro qualche millimetro al
di sopra del simbolo col telefonino verde dell’ “invia”, il numero
memorizzato del mio compagno di stanza cristallizzato sul display,
vicino e irraggiungibile.
Però la frana che mi travolse, convincendomi a piantare tutto e a
mandare il mondo affanculo, cominciò a staccarsi dal monte qualche
tempo dopo, all’Istituto di rieducazione per cardiopatici dove mi spedì
il cardiologo, il Professor Bencivenga, che Dio l’abbia in gloria.
-
Ascolti il mio consiglio, se ne vada giù in Terronia, che lì almeno in
fatto di relax ne sanno molto più di noi poveri Asini Lombardi. Lì
troverà il dottor Guidi, un amico, e un vero asso a rimettere insieme i
pezzi dei cuori incidentati come il Suo. E poi se veramente vuole
cercare di mettere al sicuro gli ultimi trenta o quarant’anni che le
restano da campare, il consiglio che Le dà il sottoscritto è di
scappare lontano da quella gabbia di matti che è il Suo ufficio,
buttare nello scarico del water il cellulare e tirare un paio di volte
lo sciacquone.
Anche tre, se non basta. -
- Però se ce l’avessi gettato prima, nel cesso, non sarei
stato neanche in grado di chiamare
aiuto! -
- Ma non ne avrebbe neppure avuto bisogno, poco ma sicuro! -
Così
feci i bagagli e scesi laggiù, nel cuore verde dei Castelli Romani,
dov’era la clinica, abituandomi ben presto alle passeggiate con l’olther
appeso alla cintura
(al posto del telefonino, appunto!)
all’insipida pasta al pomodoro e al pollo arrosto con l’insalata
scondita.
Col tempo feci il callo anche ai pomeriggi interminabili trascorsi
passando dalla mia camera al bar, poi alla piccola biblioteca stipata
quasi esclusivamente di vecchie pubblicazioni scientifiche, e di lì
ancora in camera,
solo per cominciare un altro giro.
Mi costrinsi persino ad accettare con infinita pazienza e cristiana
rassegnazione la sfibrante monotonia delle serate sempre uguali
trascorse nella sala comune, seduto insieme agli altri davanti al
televisore, nel velleitario tentativo di sentirci meno soli.
E fu proprio durante la cronaca di una partita di Coppa Uefa che conobbi
Vittorio.
Quel mercoledì sera la Roma
(per la quale lui aveva già dato un paio di valvole cardiache,
stramazzando sul pavimento della Curva Sud al pareggio raggiunto
nell’ultimo minuto di un derby dagli odiati cugini Laziali)
le prese sonoramente da non ricordo più quale squadra tedesca, o forse
svedese, chi vuoi che se lo ricordi adesso, che la cacciò a calci in
culo fuori dagli ottavi di finale del torneo.
Gli luccicavano gli occhi, a quell’omone, anche se sono sicuro che ciò
per cui se la prendeva di più non era tanto la sconfitta appena subita
dalla squadra del cuore, quanto quella fetente malattia che gli impediva
persino di incazzarsi sul serio.
Ci ritrovammo in camera sua, a scolarci un paio delle birre che teneva
nascoste in fondo alla valigia, sotto camicie, magliette e mutande,
calde da fare schifo, ma sempre pronte per quelle che lui chiamava le
“ emergenze della vita”.
- E a parte la Lupa giallorossa, quali sono le altre “emergenze”?
–
gli domandai a un certo punto.
Ecco un esempio lampante di ciò che non si dovrebbe mai chiedere a un
uomo.
Lo vidi alzarsi con difficoltà, come se gli avessero caricato sulle
spalle un bilanciere da duecento chili, dirigersi verso il comodino,
frugare tra i medicinali, aprire una scatolina di Deltarinolo e tirarne
fuori
una Malboro e un Bic di plastica azzurra.
Sì, s’era portato dietro anche le sigarette il bastardo.
- Mi fai aprire
un capitolo duro da digerire, amico.
- Allora fermati subito. In effetti mi rendo conto di averti posto una
domanda piuttosto stupida. -
- Troppo facile, caro mio! Sarebbe bello avere la possibilità di
tornare indietro bello asciutto e profumato, quando ti sei appena
tuffato in un pozzo nero. –
E attraverso la nuvola di fumo bianco che ci separava gli vidi spremere
un sorriso stirato, e compresi con assoluta certezza che nessuno al
mondo avrebbe potuto fermarlo una volta arrivato a quel punto.
- Mettiti comodo, Remo, e ascoltami senza interrompere. -
Una cosa che ricordo molto bene è che, prima che cominciasse a parlare,
gli presi la sigaretta dalle dita, e tirai, per la prima volta in vita
mia, una lunga e voluttuosissima boccata.
- Per oltre dieci anni il matrimonio con Rossella è stato un tranquillo
viaggio in Prima Classe: comode poltrone, compagni di scompartimento
simpatici e discreti, un buon servizio di ristorazione … e un placido
susseguirsi di campagna e campi coltivati che scorreva via al di là dei
finestrini, in una pianura senza fine. Ma nella vita quando cambia il
passaggio succede sempre all’improvviso, come fa il tempo a primavera,
ci hai mai fatto caso? -
No che non ci avevo mai fatto caso, almeno fino al momento in cui non mi
ero ritrovato anch’io sdraiato sul lettino dell’unità coronarica,
con un grande dolore al braccio, la flebo in vena e una miriade di
elettrodi sparsi sul torace.
Mi limitai ad assentire con un impercettibile movimento del capo, visto
che sapevo benissimo che Vittorio non aveva certo bisogno di una
risposta.
Non da me, non in quel momento, almeno.
- Perché quando meno te l’aspetti compare qualcosa … là fuori …
uno strano gioco di luce sui vetri, forse un raggio di sole andato a
male, forse solo un cortocircuito dei sensi, un inganno della mente. -
La cosa più impressionante era che non c’erano variazioni di tono
nella sua voce: parola dopo parola sulla stessa nota, come può parlare
soltanto chi racconta qualcosa a se stesso, e non per la prima volta.
- Stavo riversando in Word il resoconto di un incontro avuto con un
cliente al mattino, oppure scribacchiavo sulla mia agenda il programma
del giorno dopo, ti ho già detto che mi viene difficile essere preciso
in questi particolari, quando la vidi china sullo schedario appoggiato
alla parete dirimpetto alla mia scrivania. Quel giorno indossava una
gonna nera corta e attillata che le disegnava il sedere, e una camicetta
bianca coi laccetti annodati dietro la schiena in un fiocco malizioso,
fatto in modo da convincerti che sarebbe stato sufficiente tirarne un
capo per fare venire giù tutto lasciandola mezza nuda al tuo cospetto.
Sarà stato per quello, o forse per il profumo agro di Kenzo, che
così bene si amalgamava nell’odore naturale della sua pelle, fatto
sta che quella ragazza carina ma non bella davvero con cui ogni giorno
scambiavo sì e non quattro parole in croce, si trasformò
all’improvviso per me in un oggetto assoluto di desiderio, in quanto
di più attraente potesse esistere al mondo. -
Potrei sbagliare, è passato così tanto tempo da allora, ma per un
quasi impercettibile istante in fondo all’imbottitura di dolore,
morbida come ovatta ma urticante come una foglia d’ortica,
che soffocava l’anima e ottundeva lo sguardo del mio recente
amico, mi sembrò di riconoscere distintamente i bagliori di brace di un
desiderio spirituale e carnale allo stesso tempo assopito ma non morto
del tutto.
Sono tragitti brevissimi intervallati da lunghe soste, indispensabili
per recuperare quel minimo di energie utili ad affrontare la tappa
seguente.
Il più delle volte il piccione si alza in volo soltanto per pochi
metri, la distanza sufficiente a superare il traffico di una strada, da
un marciapiede all’altro.
Poi, una volta al di là, ricomincia a zampettare penosamente cercando
di non perdere l’orientamento e la direzione nell’intrico dei
palazzi.
- Furono i giorni del latte e del miele. -
proseguì Vittorio, ormai completamente perso e isolato al centro di
quella terra di nessuno sulla quale in ogni uomo pascolano beati e
nascosti al resto del mondo i ricordi più intimi, lieti o dolorosi che
siano.
- La mia ossessione amorosa era arrivata al punto che ogni volta che non
traevo un respiro dalle labbra di Martina mi sembrava di avere perso
qualcosa di essenziale. Senza alcun preavviso il mio tempo si era
letteralmente rovesciato: le pause del weekend, che fino a quel momento
avevano sempre rappresentato isole di serenità sulle quali trovare
ristoro dopo la traversata di una settimana d’affanni, si
trasformavano una dopo l’altra nelle celle anguste e soffocanti di una
prigione. Era il lunedì mattina, quando al bar sottostante
all’ufficio vedevo lei, che cominciavo davvero a vivere. Era come se
… -
Il respiro gli si era accorciato, diventando frenetico quanto il ritmo
del suo discorso, spezzato da un continuo intercalare, una gestualità
interiore che non poteva essere rivolta a nessun altro che a se stesso:
il movimento delle mani, impegnate a inseguire concetti nell’aria, le
malinconiche e
impotenti spallucce, il continuo aggrottarsi e distendersi delle
sopracciglia, minuscole onde di un mare in piena tempesta emotiva.
-
… era come se Martina si fosse trasformata in un solo colpo nel
pane, nell’aria, nel calore e in quant’altro di vitale il mio corpo
e la mia anima sembravano così disperatamente reclamare. -
- Perché dunque … ? -
non potei evitare di chiedergli.
Fu né più né meno lo avessi sferzato in pieno volto con un flessibile
ramo di ginestra. Mi guardò come se fosse quella la prima volta che lo
faceva in vita sua.
- Perché finì? -
m’interrogò di rimando, fissandomi con gli occhi spenti di un morto
del giorno prima.
- Ti risulta forse che in questo mondo esista qualcosa che non sia
destinato ad avere un termine, prima o poi? -
- No. In effetti non c’è niente di simile. -
fui costretto ad ammettere.
-
Credo che la ragione autentica sia stato un divieto di
edificazione. -
- Cosa? Cosa? –
sbottai ancora mio malgrado, convinto ormai che fosse uscito
completamente di testa.
- E’ un concetto che evidentemente mi deve essere sempre appartenuto,
anche se non me ne rendevo conto: un uomo non potrà mai vivere felice
in una casa, sia pure la più sontuosa delle ville, se per costruirla
avrà conficcato le fondamenta proprio nelle macerie della sua dimora
precedente. -
Lo sforzo nervoso necessario per trovare a ogni costo una qualche
sistematizzazione di ciò che razionale non potrà mai essere in nessun
modo, prendeva visibilità e consistenza nell’indurirsi dei tendini
che gli gonfiavano il collo.
- Soprattutto se sarà stato lui a tirare giù quelle mura, a demolirle
una per una più per leggerezza che per reale volontà di distruzione,
senza che ce ne fossero davvero né i presupposti né un’effettiva
necessità. -
Non capivo dove Vittorio stesse andando, o comunque dove volesse
arrivare, sempre che il suo soliloquio avesse una direzione, ma neanche
m’importava farlo: viaggiavo seduto in quella piccola barca, in quel
guscio di noce abbandonato alla furia degli elementi, e l’unica cosa
che mi andava da fare, incurante anche di fronte alla prospettiva di un
eventuale naufragio, era ammirare la bellezza selvaggia del feroce
fortunale che sconvolgeva l’anima di chi con tanta passione mi stava
parlando.
- Così una mattina ero a colazione con Rossella, e lei mi chiese di
passargli la marmellata, o qualcos’altro del genere. Forse era la
Nutella, adesso che ci penso. Insomma, allungo la mano e nel porgerle il
barattolo di vetro le nostre dita si sfiorano. Mica era la prima volta,
per fare due figli abbiamo dovuto “sfiorarci” un casino di volte, e
per fortuna che dopo il secondo lei ha cominciato a prendere
regolarmente la pillola anticoncezionale, altrimenti chissà quando
l’avremmo smessa di sfornare marmocchi. Eppure quando le mie dita
toccano le sue, all’improvviso mi rendo conto che … -
Arrivato a questo punto s’interruppe: s’era preso le mani, e le
esplorava l’una con l’altra e le guardava come se fosse la prima
volta che le vedeva.
- Non credere però che la passione e il desiderio per Martina si
fossero acchetati, capito? Tutt’altro, anzi, alla smania febbrile ma
disordinata dei primi giorni, all’eccitazione attizzata dalla
curiosità frenetica di conoscere ed esplorare ogni angolo di quel nuovo
continente, si era sostituita col passare del tempo una consapevole
volontà di possesso carnale, al punto che il suo sesso era diventato
l’unico habitat che avvertissi come autenticamente naturale. Soltanto
in quel calore potevo nuotare, sentendomi perfettamente a mio agio. Al
di fuori invece c’era soltanto freddo, e noia. -
- Infatti non l’ ho creduto neppure per un istante. -
mentii spudoratamente.
- … eppure quando le mie dita toccano quelle di mia moglie … -
riprese, con la voce graffiata da un preannuncio di pianto.
- … avverto che per qualche incognito motivo, con un’attrazione
così forte da non potersi giustificare se non con una manifestazione di
qualche volontà divina, nonostante tutto e contro tutto, la mano che
sto sfiorando, quella … quella carne…nonostante
tutto è ancora la mia carne. -
La sua sofferenza era talmente evidente da solidificarsi davanti a me,
come alito caldo nel gelo di una sera di dicembre.
- Fu allora che presi la decisione. Compresi all’istante che non mi
restava altra soluzione che estrarre dal cuore il chiodo che ci aveva
sparato dentro il destino, pur sapendo bene che era del tipo di quelli
che si divaricano, una volta entrati ... e quando li strappi via
lasciano dentro crateri grandi così. -
Lì per la prima volta,
da quando aveva cominciato quel suo sofferto racconto,
gli vidi distendere i lineamenti del volto. Anche se a me più
che altro apparve come il languido decontrarsi dei muscoli facciali di
un cadavere.
- Un addio straziante, la triste liturgia dell’ultimo appuntamento
officiata ai tavolini all’aperto di un bar a Piazza di Trevi. Non
c’era traccia delle ottobrate romane nella tramontana che ci fischiava
intorno, e mentre vedevo l’amore di Martina trasformarsi velocemente
in disprezzo, non riuscivo a decidere se ci fosse più freddo fuori o
dentro di me. -
Doveva sentirli ancora quei brividi, dal momento che gli vidi
accapponare la pelle delle sue mani, mentre inconsapevolmente
abbracciava se stesso.
- Una storia comune e piuttosto banale, no? -
commentò sfinito, neanche fosse davvero l’ultimo respiro.
Piccole ossa decalcificate dal trascorrere degli anni attendevano, nel
calore umido e malsano di cui era intrisa la grande grotta.
Da un’apertura lassù, talmente angusta e talmente lontana da
trasformare in una flebile lucerna anche i raggi più gagliardi del sole
d’estate, filtravano gocce d’acqua e il tenue lucore della luce
malata della metropoli.
Frusciavano impalpabili piume volteggiando pigre nell’aria appena
mossa da chissà quale corrente sotterranea, mormoravano sfiorandosi tra
loro brandelli di pelle fragili e sottili come frammenti di secolare
carta pergamena.
- Una decisione coraggiosa e coerente, che ti fa onore. -
provai a consolarlo, cogliendo finalmente l’occasione probabilmente
irripetibile di inserirmi con un’osservazione personale nel suo lungo
monologo.
- Aspetta di conoscere la fine della storia, prima di esprimere un
giudizio. -
- Quindi c’è ancora un seguito. -
- Sì che c’è. C’è
sempre almeno un tempo supplementare, nelle vicende della vita, anche
quando credi di averla vinta per quattro a zero, e stai scendendo nello
spogliatoio già pronto a farti la doccia. -
- Ma di cosa stai parlando?La vita non è mica una partita di football!
-
- Sì che lo è. Molte volte lo è. Comunque ora che mi ci fai pensare,
nel mio caso più che di un tempo supplementare si potrebbe parlare di
partita persa ai rigori … come quel Roma / Liverpool di tanti anni fa,
te la ricordi? La finale della Coppa dei Campioni all’Olimpico, quando
eravamo tutti pronti per andare a festeggiare l’immancabile vittoria
al Circo Massimo e ubriacarci della voce di Antonello Venditti… Quando
Falcao si rifiutò di tirare il suo penalty … -
Adesso erano due i dolori che stava provando, che si intrecciavano sul
suo viso come una coppia di aspidi, esili quanto può esserlo un giunco,
ma mortalmente velenose: la delusione sportiva più grande, qualcosa di
lacerante per un tifoso qual è Vittorio
(anche se non è facile capirlo per chi, come me, non reputa neppure
pensabile lasciarsi coinvolgere a tal punto nei capricci del Dio
Pallone)
e un altro dramma di cui per il momento, evidentemente avevo visto
soltanto la parte affiorante, ma non il colosso di ghiaccio al di sotto
del livello del mare.
Un mostruoso iceberg non segnalato dai bollettini nautici contro il
quale, con ogni evidenza, doveva essere andata a infrangersi
irrimediabilmente la vita dell’uomo che mi stava davanti.
- Credevo che fosse tornata anche per me un po’ di pace. Dopo avere
tanto sofferto ci vuole poco a un uomo per illudersi, ci hai mai fatto
caso? -
Anche se apparentemente indirizzata a me, una di quelle domande che non
aspettano risposta: poco da fare, la confessione, quella specie di
autodistruttiva confessione era ricominciata, e sarebbe andata avanti
fino alla fine questa volta.
- Eravamo seduti in sala davanti alla televisione, con un Campari Soda
nel bicchiere e la ciotolina dei salatini sul cuscino del divano tra di
noi, in attesa che cominciasse il primo dei telegiornali della sera, su
una delle reti di Berlusconi. Dopo tanta agitazione, e tanta guerra
interiore, galleggiavo su una soffice nuvola di serenità, assaporando
fino in fondo il calore della casa, della compagnia di mia moglie, e
della coscienza rigenerata. -
Un’immagine di tranquilla routine familiare che però subito mi fece
pensare piuttosto alla bellezza del cielo e alla tranquillità del vento
che precedono gli uragani più devastanti.
- Lei mi dice a un tratto: “ E’ finita la panna della cucina, e ho
anche bisogno di saccheggiare una merceria se voglio almeno provare a
portare a termine qualcuno dei lavoretti che sono a dormire nella cesta
”. Vuota d’un fiato quel po’ di aperitivo che le restava da bere e
prima che io abbia il tempo di dire bà si è già infilata
l’impermeabile bianco, ha raccattato la borsetta di tutti i giorni,
quella che resta sempre appesa all’attaccapanni del corridoio, e
aperto la porta di casa. “
I negozi sono aperti fino alle sette e mezza, faccio una volata. Intanto
tu goditi il tuo Emilio Fede!“, mi manda un bacio in punta di dita, e
sento il rumore dei tacchi che l’accompagna giù dalle scale. -
Tace.
Credo di non avere mai avvertito, né prima né dopo quel giorno un
silenzio così incontrovertibile, totale, definitivo.
Eppure, intanto che lui esita, cercando la forza e il coraggio per
ricominciare a narrare, posso sentire,
Dio mi fulmini se non è vero, posso sentire realmente lo schiocco di
quel bacio frettoloso, il ticchettio dei passi della moglie che scendono
veloci verso pianterreno
- Non è più tornata a casa, non è vero? -
azzardo compunto, immaginando il prevedibile epilogo di un incidente
stradale, un malore fatale …
- Certo che è tornata. -
è la risposta che sorprende e ribalta la mia commozione d’accatto.
- E’ rientrata poco prima delle nove, con il cartoccio della panna e
la busta di carta con le spagnolette di filo da cucire. Bianco, rosso e
blu, me lo ricordo ora come se fosse allora. Si toglie l’impermeabile,
lo appoggia sullo schienale della mia poltrona, si china a darmi un
bacio, poi si dirige verso la cucina. -
E arrivato a questo punto si abbassa, accosciandosi sul pavimento:
guardandolo mi viene in mente quel documentario dove facevano vedere il
parto delle squaw nella prateria. Solo che Vittorio è un maschio nella
piena maturità, un omone grande e grosso che sotto i miei occhi
comincia a singhiozzare senza alcun ritegno.
- E’ stato allora che mi sono accorto del buco della calza a rete,
appena sopra il polpaccio destro. -
Non capisco ancora, so soltanto che quell’uomo è un amico, ora più
di prima, e che devo fare qualcosa per alleviare il dolore atroce che lo
tormenta.
Mi avvicino, gli prendo la testa tra le mani, come se fosse un bambino.
Come facevo con mia figlia, quando era triste per un giocattolo rotto,
un bisticcio con l’amichetta preferita, un brutto voto a scuola.
Lui mi si aggrappa addosso, stringendomi a sua volta le braccia così
forte da farmi male.
Piange talmente tanto che mi sento inzuppare la camicia.
- Ma quando era uscita … quella smagliatura era su quella di sinistra!
-
grida, prima di lasciarsi andare, steso a faccia in giù sulle
piastrelle.
La sente finalmente.
Nell’aria fetida della città per chissà quale prodigio è riuscito a
non perdere la pista, restando appeso alla misteriosa scia lasciata nel
corso degli anni da migliaia di piccioni prima di lui.
E c’è la meta, la più definitiva delle destinazioni, lì a pochi
metri di distanza: una specie di spaccatura al centro di uno sterrato,
una crepa appena più larga delle altre che innervano il terreno
ghiacciato.
E’ arrivato, l’apertura è davvero angusta anche per un piccolo
pennuto malato e denutrito, allora ci si infila col becco, facendo
passare la testa per prima, il collo, contorcendo istintivamente il
resto del corpo, incollando penne e piume alla pelle nell’intento di
offrire meno resistenza al passaggio.
Il tepore accogliente, l’odore dolciastro di guano e decomposizione lo
attirano sempre più dentro, inebriandolo, stordendolo, finché, non
trovando più resistenza, semplicemente precipita in basso verso i
cumuli indistinti che lo aspettano in fondo.
Al termine della discesa l’inevitabile caduta appena attutita dal
materasso organico che l’attende sul fondo, gli ultimi stimoli
sensoriali che si scaricano come l’elettricità residua di una pila
esaurita, e infine, in un’ultima convulsione riflessa dei nervi, la
misericordia della morte.
“ Anche la merda può tornare utile, purché non sia troppa, e la si
sappia utilizzare per concimare i campi. “
diceva mio padre, che sarà anche stato il campione europeo dei figli di
bagascia, ma sapeva fare andare gli ingranaggi del cervello,
quando arrivava il momento.
Così anche la non lieta circostanza che dall’ultima volta che ho
fatto la doccia al Diurno della Centrale a oggi sia passato un
imprecisato numero di settimane, quando prendo un mezzo pubblico, sia di
superficie che sotterraneo, per quanto affollato esso sia, fa in modo
che appena salgo mi si crei intorno una confortevole “fascia di
rispetto”.
D’altra parte non mi sento certo di contestare che la miscela di unto,
vino, sudore e piscio che rappresentano gli ingredienti di base
dell’esclusiva acqua di colonia che porto costantemente addosso,
costituisca un blended che non tutti riescono ad apprezzare.
Poi c’è sempre il furbo di turno, per esempio quel tizio col trench e
la ventiquattrore appesa alle dita, che quando mi ci sono seduto accanto
si è subito alzato in piedi, aggrappandosi alla sbarra verticale di
metallo con la valigetta sul pavimento del vagone in mezzo alle gambe,
tale e quale a una ballerina di lap dance all’inizio del suo
numero: eccolo lì, che si fruga in tasca con la mano libera, ne cava
fuori l’accendino e le Marlboro, si caccia una sigaretta in bocca, fa
scattare lo Zippo, con l’evidente intento di confondere la mia puzza
con quella forse meno sgradevole, ma di certo ben più dannosa, di
tabacco e catrame bruciati.
Poi però, prima ancora di accendere si ricorda che qua sotto è vietato
fumare per tutti, quindi anche per lui.
Alla Triennale scendono parecchi viaggiatori: adesso nel vagone c’è
molto spazio vuoto, e non soltanto intorno a me.
Passa la fermata di Conciliazione, passano Pagano, Buonarroti, Amendola
Fiera… poi smetto di
guardare fuori dai finestrini incrostati di polvere. La denutrizione,
l’inedia e la noia di vivere hanno ancora una volta facilmente la
meglio sulla mia poco convinta resistenza, e dopo avere letto da cima a
fondo una pubblicità di Figurella incassata nella bacheca metallica a
parete, mi
si abbassano le palpebre, la testa si appesantisce e arrendendosi
alla forza di gravità reclina sul petto.
“ Tanto a Molino Dorino mi sveglierà l’altoparlante che annuncia la
fine corsa. “
è il mio ultimo pensiero.
“ E’ lì che dobbiamo incontrarci con Tonio. “
E mi assopisco
.
Quanto dura realmente un sogno?
Che rapporto c’è davvero tra il rarefatto fluire del tempo nelle
visioni oniriche e l’inesorabile scandire dei secondi e dei minuti
della vita reale?
E’ qualcosa che mi sono chiesto fin da ragazzo, e che mi chiedo
ancora, come miliardi di altre persone nella storia e nel mondo, senza
riuscire mai a darmi una risposta plausibile.
Come miliardi di persone nella storia e nel mondo, appunto.
Il fatto è che all’improvviso non sono più seduto sulla plastica blu
del mio sedile, a bordo di un convoglio che corre nell’intestino di
Milano, ma altrove.
All’inizio non so neppure io dove, né quando.
La sensazione che riconosco per prima è l’arsura atroce che mi
attanaglia la gola, la difficoltà nella respirazione causata
dall’accelerare delle funzioni di allerta indotte dalle sempre più frequenti e copiose
scariche di adrenalina.
Una sintesi in differita di tensione, sgomento e pura essenza di
disperazione, ecco cos’è.
Solo quando mi rendo conto di essere inginocchiato sull’asfalto di una
strada di città, e vedo chi c’è disteso sotto di me, comincio a
capire.
Le sue piccole mani gelate, e così insopportabilmente bianche nel buio
incombente della sera, e i capelli ricci a lordarsi in quella orribile
pozza di sangue che si va allargando sotto di lei.
Il viso di Laura, ancora incredibilmente bello, al di là e al di sopra
della morte stessa.
Gli occhi aperti sul mistero del niente che mi fissano, persi e presi
come nei momenti più esaltanti della nostra passione.
Stupido, romantico Icaro al femminile, dolce angelo senza ali, tuffata a
volo di sasso dal sesto piano di un palazzo popolare di Via Lorenteggio,
appena due ore dopo averle comunicato che tutto era finito tra noi.
Ironico anche se asimmetrico parallelismo: io come Vittorio, Laura come
Martina.
Come poteva saperlo il mio povero amico?
E come avrebbe potuto solo immaginare , mentre mi faceva il racconto
accorato delle sue sventure, che il destino stava cucinando anche per me
la stessa squisita pietanza che aveva servito al suo tavolo?
Tutto finito, sì, si fa presto a dirlo.
Dopo che se ne è andata in
quel modo assurdo la mia amante è rimasta con me più ancora di prima:
ho diviso con lei l’acqua e il pane a pranzo, cena e colazione, è
stata la silenziosa inflessibile compagna di ognuna delle ore insonni
che hanno scandito le mie notti.
Resa sicura dall’irrevocabile impunibilità assegnatale dal trapasso,
ha continuato imperterrita per anni a rubare pensieri, desiderio e baci
alla mia legittima compagna.
In realtà, mi sono ripetuto mille e più volte, decidendo di uccidersi
schiantandosi su quel maledetto marciapiede, Laura non fece che piantare
ancora più in profondità il chiodo uncinato che già mi aveva infisso
nel cuore.
Intanto che la melassa insidiosa dei ricordi confonde ancora di più i
miei pensieri addormentati, ecco che il corpo esanime disteso
sull’asfalto si trasforma repentinamente. Si rimpiccolisce,
riducendosi a quello di una fanciulla di sette anni in piena
trasformazione e fioritura, mentre i capelli si allungano e si stirano,
e la pozza di sangue si ritira, mentre sulla fronte perlacea della
bambina germoglia un enorme
ematoma bluastro.
E c’è odore di pneumatici arroventati dalla violenza di una frenata
disperata, e il muso di un’auto con il paraurti spezzato e una crepa
sul parabrezza, a meno di un metro da noi.
Un capannello di gente, intorno e al di sopra di me, volti anonimi,
tristi, indignati, curiosi, o soltanto annoiati.
Mormorii.
Bisbigli.
Imprecazioni soffocate che si mescolano agli spezzoni sconnessi di
preghiera sbiascicati da
un vecchio alle mie spalle, frammentarie reminiscenze ripescate da un
catechismo ormai troppo lontano.
Il mondo sembra fermo, quasi un’eternità, troppo a lungo comunque
prima che io riesca ad avvertire l’ululato ancora troppo lontano della
sirena di un’autoambulanza in arrivo.
E’ l’abbassamento della temperatura, e la sensazione improvvisa
d’essere solo, che si fanno carico di svegliarmi, sottraendomi
all’incubo.
In effetti il vagone è completamente vuoto, ora.
Il treno corre veloce, fin troppo, inghiottendo vorace la rotaia,
perforando con la velocità di un proiettile gallerie oscure, ignorando
una dopo l’altra stazioni dai nomi insoliti e sconosciuti.
Stige.
Torquemada.
Cipressi.
“ Ma quanto cazzo l’
hanno allungata ‘sta Metropolitana? “
mi chiedo rabbioso, facendo forza sulle ginocchia arrugginite e violenza
alla mia lombaggine cronica per rialzarmi finalmente in piedi.
“ Dovrò prendere il treno che va nella direzione opposta e tornare
indietro … speriamo che il Tonio non si rompa i coglioni di aspettarmi
e non decida per questa sera di sbronzarsi da solo! “
impreco, condendo il tutto con due bestemmie di quelle sane.
“ Sempre che decida di arrestare prima o poi il treno, maledetto
minchione di un conducente! Perché non ci ho tempo, sennò giuro che
appena sceso al capolinea gli andavo a fare un culo così. “
E mentre lo dico, ecco che il convoglio finalmente rallenta.
faccio in tempo a leggere
Vallecupa Terminal
prima che il consueto soffio preannunci l’imminente apertura
pneumatica delle porte.
- Fine della corsa. I Signori passeggeri sono pregati di abbandonare il
treno. -
annuncia l’altoparlante.
Peccato che i “Signori passeggeri” siamo soltanto io e altri cinque
straccioni malmessi almeno quanto me, tre uomini e due donne dall’età
indefinibile, che escono alla spicciolata dagli altri vagoni del treno.
Ci guardiamo intorno, esplorando con gli sguardi l’ambiente che ci
circonda.
Una stazione come le altre, solo più nuova, e più pulita.
Non ci sono cartacce sul pavimento lucido come se qualcuno ci avesse
appena passato lo straccio, anche i cestini delle immondizie sono vuoti,
e soprattutto non c’è nessuno in giro oltre noi.
Piuttosto sono un po’ strani i manifesti pubblicitari incollati ai
tabelloni murali.
Alcuni a colori, ma molti altri in bianco e nero.
Facce comuni, più da foto tessera che da spot.
“ O da pagina dei necrologi. “
non posso fare a meno di pensare.
Comunque piuttosto malmesse, direi.
E gli slogan, e le marche dei prodotti reclamizzati …mai sentiti
prima, anzi, poco più che geroglifici del tutto inintelligibili.
Cirrosino Rosso Frizzante DOCG
un vino da … “ Attrazione fatale “
mi sembra di decifrare per un attimo su un manifesto.
Se vuoi che il dolore scompaia
PER
SEMPRE
c’è solo Analgesico Viaticum Plus
ma naturalmente tutto ciò non ha senso.
- Vallecupa Terminal. -
bofonchio tra me e me.
Un capolinea aperto da pochissimi giorni, evidentemente: Milano che
continua la sua espansione verso …
Già, verso dove?
Anche se da qualche mese a questa parte il mio contatto con la carta dei
quotidiani è strettamente circoscritto all’uso che ne faccio nelle
notti più fredde, quando me li avvolgo intorno al corpo in qualità di
improvvisate lenzuola, non riesco a convincermi di non averne saputo
niente.
“ E poi, cazzo!, l’ ho presa soltanto pochi giorni questa linea
della metro e non ricordo
… “
Mi attardo, confuso, cercando di rimettere un minimo
d’ordine nella confusione assoluta dei pensieri; guardo, senza vedere
davvero, gli altri che si avviano in direzione del cartello luminoso con
la scritta “uscita”, mentre i fanali rossi di coda del treno che ci
ha portato sin qui rimpiccoliscono fino a scomparire nel buio assoluto
della galleria di servizio.
- Massì, che vadano tutti a farsi fottere! -
impreco furente, costretto a sedermi su una delle panchine che
costeggiano il binario, visto che il respiro già incrinato da un
fischio enfisematico cronico, s’è
fatto abbastanza affannoso da troncarmi il fiato.
E’ proprio quando sono più debole, quando tolgo il dito dal buco che
insidia la
diga nella quale si stipano mugghianti e fetide le angosce
accumulate nel corso di una
vita, che succede il peggio.
E’ allora che vengono fuori famelici i ricordi peggiori, mi saltano in
testa, sulle spalle, mi mordono coi loro denti aguzzi la mente, con gli
artigli affilati mi lacerano l’anima.
E’ così che rivedo Simona.
“ Aiutami, mi fa tanto male, papà. “
mi implora, e io non posso che guardarla impotente.
“ Si è rotta la Barbie? “
mi chiede, con gli occhi che ora quasi le si rovesciano all’indietro.
Non so risponderle, perché sì, si è spezzata anche quella, non so
risponderle niente finché non arrivano gli uomini col camice bianco e
mi portano via, la portano via, mentre tiro un pugno all’imbecille che
l’ ha investita proprio sotto i miei occhi, per un attimo che le avevo
lasciato la mano.
- Mi scusi, non potevo prevedere che … -
E’ una soddisfazione amara quanto sterile, colpire in faccia con tutta
la forza e la rabbia di cui dispongo il grandissimo furbo che ha avuto
l’idea brillante di superare
a destra un tram alla fermata, senza aspettare che i passeggeri
attraversassero la strada.
Poi la corsa disperata verso l’ospedale, sono il primo ad arrivare,
mia moglie Margherita ancora non ne sa nulla.
- C’è bisogno di sangue, molto, e subito. –
mi informa un medico
- Prendete il mio, cosa state aspettando? -
Ed è quello che fanno, mentre io prego, e prego, e prego.
Poi ritornano, sempre lo stesso dottore.
Sono ancora steso sul lettino, completamente esausto, in pieno stato
confusionale. Devo fare pietà, questo è poco ma sicuro, ma lui mi
guarda addirittura come se fossi io il moribondo.
- C’è qualche problema per la trasfusione, dobbiamo cercare un altro
donatore, ma non è facile con il Gruppo Zero Universale. Qualcuno ha
già avvisato la mamma? –
Gli leggo un dubbio indigesto sul viso, mentre lo dice.
- Lo faccio subito io. –
rispondo in fretta.
E intanto che sgancio il cellulare dalla cintura, all’improvviso ogni
cosa m’è chiara.
Dall’infarto ne ero venuto fuori.
Ma da questa cosa qui non ci sono mica riuscito.
Simona si è salvata, anche se dall’incidente in poi non è stata più
in grado di prendere l’autobus.
Non da sola almeno.
Checché ne dicano di abbattere le barriere architettoniche e stronzate
del genere è ancora molto difficile per un handicappato in carrozzella
salire i gradini di un pullman.
Non è mia figlia, quelli che erano già molto più che sospetti lì
nell’anticamera del Pronto Soccorso hanno trovato agevole
conferma soltanto pochi giorni dopo l’investimento: mi è bastato dare
una sbirciatina alla cartella clinica abbandonata su una poltrona da un
“aiuto” distratto, leggendo di un RH assolutamente incompatibile col
mio.
Ma questi non sono che dettagli, volgari quisquilie biologiche, che non
attenuano minimamente il tormento suscitato dall’irreversibile
menomazione patita dalla persona che mi è stata e per sempre mi sarà
più cara.
Margherita non sa che io ho saputo.
Mi ha visto affogare nell’alcool, lentamente ma inesorabilmente.
Mi ha visto perdere il lavoro, e il rispetto di me stesso.
Ha sempre creduto che fosse soltanto il rimorso per essermi lasciata
sfuggire la mano di Simona a trascinarmi a fondo.
Ha cercato di aiutarmi, a modo suo, per un po’, finché non ha capito
che poteva uscire dalla partita senza caricarsi di ulteriori rimorsi.
E io ho preferito che mia figlia scaricasse su di me ogni suo rancore,
su quel padre straccione e ubriacone, talmente distratto e incosciente
da permettere che qualcuno potesse farle questo.
Quante volte m’è tornata in mente la storia che Vittorio fece appena
in tempo a raccontarmi prima di morire.
Sì, perché anche per lui l’emozione fu troppa, quel giorno, e dal
pavimento della “Clinica dei Terroni”
non si rialzò mai più.
Mai più.
Ma basta!
Mi tiro su in piedi, anche se vorrei potere restare qui in eterno.
C’è la madre di tutte le cantine che mi aspetta.
Il fegato spappolato dalla cirrosi reclama a gran voce ancora
veleno
“ Dolce vino, guida fatale verso la dimensione agognata dell’oblio
“
direbbe il Poeta.
Prossimo treno per Sesto F.S.
tra 168 h
mi sembra di leggere sul segnalatore al centro del marciapiede, ma è
un’altra visione annebbiata, e mi è subito chiaro che si tratta di
allucinazioni provocate dal febbrone che mi sento addosso.
Seguendo le frecce mi inoltro in un dedalo di corridoi sui muri dei
quali, angolo dopo angolo, vanno moltiplicandosi i messaggi di writers
dal cervello irrimediabilmente bruciato di acido o di crack.
Chemical resurrection in the bottom of the Sky
è tra tutte quelle che ormai arabescano completamente pareti e
soffitti la scritta che mi colpisce di più.
Convinto d’essermi perso sto per tornare indietro
- Che ore sono? –
mi chiedo, ma al polso mi è rimasto soltanto uno di quei braccialetti
di corda intrecciata che in ogni angolo della città i Vucumprà cercano
di rifilare a tutti, giovani e vecchi.
- Gombra, gombra, porta fortuna! -
Sì, lo vedi quanta.
Forse sarà perché non gliel’ ho pagato, al negro; preferii tenere i
soldi per un panino colla Bologna, e quell’arnese si trasformò nel
più fenomenale dei portasfiga.
Quanto all’orologio, non c’è più da un pezzo.
Credo di averlo dato via per mezzo litro di Dolcetto, se non ricordo
male, quando come quel
bravo figliolo che sono mi decisi a seguire i saggi insegnamenti del mio
defunto genitore.
- Una profonda inquietudine si è impossessata di me. -
direbbe il Remo in pantaloni grigi con le pences e il blazer blu di una
volta.
- Mi sto cagando sotto dalla
paura. -
soffia il Remo cencioso di adesso, ma il concetto in fondo è lo
stesso.
Per la prima volta da quando sono arrivato qui sotto realizzo che
l’unica cosa che voglio è uscire fuori al più presto da questa
stramaledetta stazione, tornare a vedere quelle poche gracili stelle che
riescono a bucare il chiarore artificiale della metropoli, a inalare
golose boccate di smog.
Appunto: dalla mia personalissima Enciclopedia Medica mancava solo la
claustrofobia. Ecco un’altra lacuna colmata.
Voglio andarmene!
E che le sue bottiglie, una dopo l’altra,
Vittorio se le ficchi pure nel culo.
Così, quando sento l’inconfondibile ronzio del nastro di
trascinamento, e girato l’ennesimo angolo mi trovo di fronte
all’imbocco di una scala mobile, caccio un involontario ma sentito
sospiro di sollievo.
Sono già sui gradini di metallo, con la mano che serra il nastro
corrimano quel tanto che è sufficiente a tenermi in piedi, quando mi
accorgo che invece di salire … sto velocemente scendendo.
“ Troverò un impiegato dell’ATM laggiù, un macchinista, un
operaio, un coglione qualsiasi che scenderà dal prossimo convoglio …
Insomma porca troia qualcuno che mi indichi dov’è l’uscita di
questo cazzo di stazione. “
continuo a ripetermi, resistendo al panico che monta dentro di me come
latte nel bollitore.
Intanto scendo più giù, sempre più in basso.
Mi volto verso sopra, da dove sono venuto, ma basta uno sguardo per
realizzare che ormai sono troppo lontano, e che nelle mie condizioni
attuali non potrei farcela
mai a risalire la scala in senso contrario alla marcia.
Anche perché, soltanto per averla formulata come ipotesi,
sembra che il nastro acceleri ancora con uno strappo violento, in
modo di dissuadermi
(se ancora ce ne fosse bisogno)
da ogni progetto del genere.
Così mi rassegno, con ogni cautela mi accuccio, sedendomi sugli scalini
più in alto, mi raggomitolo su me stesso prendendo il viso tra le
braccia, chiudo gli occhi e aspetto.
Alla fine si ferma se Dio vuole.
Tutto finisce in questa vita.
“ Anche la vita stessa. “
sussurra una vocina molesta, e sono proprio parole che non vorrei mai
avere sentito.
E lo spettacolo è cambiato, quaggiù.
Naturalmente in peggio, come sempre accade in casi del genere.
Dall’asfittico mezzanino in cui sono stato trasportato dal nastro si
diparte soltanto un corridoio non più largo di un metro, illuminato
fiocamente da quelle lampade in gabbia che
capita di vedere solo al cinema, nei vecchi films, nelle stive
lerce di malconce carrette del mare o appese alle travi che fungono da
precario soffitto alle gallerie di miniera.
Non ho molta scelta, comunque: è per forza lì che devo andare.
Mi incammino sul pavimento sconnesso, mattonelle scalzate e sabbia che
sembrano vecchie di secoli, mentre un vento caldo, umido e odoroso di
muffa mi alita adagio sul viso.
La strada è lunga, e le gambe sono quelle che sono, quindi purtroppo mi
resta tutto il tempo del mondo per passare in rassegna una serie
completa di congetture riguardo a ciò che troverò alla fine della
passeggiata.
“ Dì pure del tuo viaggio … “
insiste la vocina di prima, ma quasi non la sento, perché ho un paio di
cose più urgenti da fare.
La prima è tenere sotto controllo quel filo di respiro che mi resta, e
i battiti impazziti del cuore malandato.
La seconda è farmi sottile più che posso, visto che il passaggio si è
ristretto, non più di settanta centimetri a questo punto, cosa mica da
ridere per chi come me si ritrova da tempo il ventre gonfio come un
otre, e non certo per eccessi da gourmet.
- Tu guarda in che letamaio sei andato a cacciarti, pezzo di stronzo!
–
grido con la voce roca venata ormai di follia.
E vado avanti chissà per quanto ancora
ansimando, tossendo, con la sensazione spiacevole di sputare
fuori brandelli di polmoni o di bronchi.
O di tutti e due, magari.
Poi quello che ormai s’è trasformato in un angusto budello torna ad
allargarsi, un po’.
Mi accorgo che sono sparite le lampade da miniera, ma la luminosità
aumenta, una luce malata e intermittente che sembra promanare
direttamente dalle pareti del
corridoio.
Intermittenze, pallidi lampi che accompagnano un mormorio indistinto, un
coro sommesso e triste che mi chiama ad inoltrarmi sempre di più in
quel liquido tepore.
Sono sdraiato nel buio più assoluto.
Anche un fuoco fatuo andrebbe bene per illuminare questi ultimi momenti.
Però devo ammettere che è del tutto rilassante, e comodo, stare
disteso quaggiù.
Questa è la seconda e ultima caverna in cui mi sono imbattuto stasera.
Quando ho attraversato la prima, camminando lungo uno stretto sentiero
fiancheggiato da cumuli
enormi di carogne pennute, ho finalmente capito dove vanno a morire i
piccioni.
Ecco perché, con le miriadi che ce ne sono a Milano, non ti riesce
quasi mai di vederne uno stecchito, a parte i casi di morte violenta o
di malattia troppo improvvisa.
E’ qui che vengono a tirare le cuoia, se appena appena ne trovano il
tempo.
Interessante davvero.
Si potrebbe definire una specie di conoscenza diffusa nella specie, uno
straordinario impulso ancestrale le cui origini si perdono nella notte
dei tempi e nel mistero: chissà quanti cimiteri come questo ci saranno
nei grandi agglomerati urbani …
Chissà dove, quando non sono disponibili e utilizzabili le accoglienti
cavità della metropolitana …
Penso a Venezia, tanto per dirne una, e ai grassi pennuti di Piazza S.
Marco. O di Piazza della Signoria a Firenze.
Mi accomodo meglio sul cadavere mummificato che funge da comodo
materasso.
Davvero una fortuna che al momento di venire ‘sto poveraccio qui
indossasse un morbido giaccone imbottito, per rattoppato che sia …
Un pezzente, come me, come tutti quelli che mi fanno compagnia
nell’ultimo sonno, insieme a coloro che mi sono stati
compagni di viaggio nella corsa speciale della Linea Rossa.
Che ho ritrovato qui, naturalmente …
Perché, alla fine, ho capito anche dove vanno a morire i barboni.
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