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Le
spigolature di Roby San (robysan@aerre.it)
Da Roby San, segnalazioni di "piccole scoperte
librarie" in giro per le bancarelle
Non ho mai letto nulla di Curcio. Sono però
curiosissimo ti tutto ciò che ha, o ha avuto, a che fare con gli
sviluppi della vita di chi fu brigatista o che, semplicemente,
appartenne alla sinistra extraparlamentare negli anni settanta. Per
questa ragione il libretto di Curcio, dalla bancarella, mi è
saltato in tasca da solo. La "soglia" del titolo è, in
istanza, quella del portone del carcere che Curcio oltrepassò
per entrare nella semilibertà (o libertà vigilata) nel 1993. Nelle
meditazioni sugli stati d'animo, e nel ricordo degli stessi, la
"soglia" da oltrepassare diventa l'archetipo di ogni
importante cambiamento. Lo stile narrativo di Curcio indulge un po'
troppo, a mio avviso, al descrittivismo dei luoghi e delle
situazioni (la cella, le piante nel giardinetto, la lavanderia, la
partita a calcio, l'organizzazione delle minime cose della propria
giornata) ma credo che questo sia inevitabile per chi scrive
"dall'interno del carcere". Per ottenere esiti più alti occorre
forse essere Carlo Levi ("E' questo il carcer tetro?") e
occorre soprattutto non avere, nel profondo del proprio animo, quel
mesto senso di sconfitta che traspare da ogni rigo dello scritto di
Curcio. Egli non spende parola per accennare alla opportunità di ciò
che fu pensato, detto e fatto nell'ambito della lotta armata
nei '70/'80. Non la spende né per apologia né per condanna. Curcio
sembra ritenere vacuo il farlo e che, appunto in seguito ad una
sconfitta, egli pare ritenere la sua opinione non significativa per
la "comprensione". Eppure, io ne sono convinto, un sacco
di gente ha bisogno - magari senza esserne del tutto consapevole -
di "comprendere" come e perché avvenne ciò che avvenne.
Sembra che Curcio "tema" di esporsi e di ricevere, in
conseguenza, aggressioni verbali. Oppure che la sua opinione
venga utilizzata in modi ideologici e parziali. Per questo ogni cosa
di cui parla, e quale che sia l'argomento che affronta, è
preso con il massimo "sotto tono", quasi con mestizia.
Pare dirci: "se la vostra opinione consolidata è che io sia
uno sconfitto dalla Storia e un fallito, ebbene tenetevela. Non
cercherò di farvi cambiare idea. Nulla di ciò che posso dire può
raggiungere il vostro animo". E pare dirci anche che, se
qualcosa gli pesa, non può chiarire a noi come e quanto.
Far from the triumphing
court
lady if you so spite me
in darkness let me dwell
John
Dowland
In nessun caso Ceronetti mi lascia indifferente.
Sono arrivato a odiarlo ed a scrivere lettere di insulti, mai
speditegli. Perché, nonostante i "potenti mezzi" che ha a
propria disposizione, alle volte cade in semplificazioni fuori luogo
e in sviolinate all'esoterico decisamente sproporzionate. La cosa
gli accade più frequentemente negli articoli giornalistici che non
nei libri. Questo "Viaggia viaggia, Rimbaud!" è una
sceneggiatura per uno spettacolo delle marionette "ideofore"
del "Teatro dei Sensibili". L'ideofora è una cosa più
semplice e più complessa, ad un tempo, di una convenzionale
marionetta. Un solo filo la regge per il capo e non è possibile, a
meno di possedere una smisurata abilità nel maneggiarla, farle
assumere gli atteggiamenti della marionetta classica. Questa peculiarità
pervade di sé il teatro che Ceronetti mette in atto. Non si
cerca il virtuosismo: l'attitudine più densa dell'ideofora è
quella della marionetta rilasciata. Pare che a distinguere la
marionetta viva da quella morta sia solamente la tensione dell'unico
filo. "Dare gioia è un mestiere duro" è il motto
dei Sensibili, ma estrarre e gustare il distillato di gioia che
può essere ricavato da questa serie di brevi episodi teatrali (non
sono sicuro che "teatrali" sia il termine giusto, ma me lo
si conceda lo stesso!) è quasi altrettanto duro. Alle volte il
sorriso arriva fuori tempo perché hai dovuto abbattere un muro
per lasciare che la leggera corrente raggiungesse il tuo intimo più
profondo. Ceronetti lamenta, tra le tante cose di cui si lamenta in
continuazione, che il mondo "moderno" ottunde la
sensibilità dell'animo umano, anzi che dis-anima l'uomo. Non
sono completamente d'accordo, né completamente in disaccordo. Non
sono ancora riuscito a decidere se amo o se odio Ceronetti. Intanto
mi accingo a rileggerlo, a continuare a leggere i suoi articoli
e a scrivere lettere d'insulti. Che non spedirò.
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O il sommo piacere e la gran goduria di
leggersi il Nori in questo breve e pirotecnico resoconto di una
giornata d'un giovane scrittore. Scrittore per ipotizzata vocazione.
Learco Ferrari ("nome desueto e cognome consueto")
crede infatti di essere chiamato alla scrittura, ma una fortuita
visita lo convince della sua vera natura: quella di diavolo. Il
nostro, colto così, un po' alla sprovvista, va in cerca delle
informazioni necessarie a dar pieno sviluppo alle sue intime e testé
svelate attitudini su dizionari ed enciclopedie, in un accesso di
nominalismo. L'accesso di nominalismo è sbertucciato, una riga dopo
l'altra, dallo stile del Nori il quale finge di prendere sul serio
le parole per spiegare le cose (che, peraltro, non sono cose!). In
alcuni momenti raggiunge un livello da maestro di umorismo
(l'etimologia di "esorcista", le poesie da inventare per
compiacere una donna, le sarcastiche e "finto-ingenue"
valutazioni degli scrittori contemporanei famosi, l'uso a cascata di
termini e nomi commerciali deprivati del loro "copyright"
per mezzo dell'abolizione dell'iniziale maiuscola o della
storpiatura, la descrizione di telefonate reali o ipotetiche,
l'incontro finale con i diavoli ecc.). Non vorrei sembrare
irriverente ma vi intravedo un omaggio, non so quanto consapevole,
allo stile di Frederic Dard, l'autore delle notissime e
criticatissime "Avventure del Commissario Sanantonio".
Parlare di dissacrazione, nello stile di Nori, è fuori luogo. Così
come lo sarebbe parlare di acredine nei confronti degli scrittori,
contemporanei e famosi, che cita (più volte, e val la pena di
andare a vedere come!): il suo gioco è troppo ben condotto, senza
un istante di cedimento, per essere nutrito da così bassi
alimenti. Se ti riesce, leggilo con un lieve accento emiliano in
testa: io ci ho provato e mi sono divertito moltissimo. Da far
crepare d'invidia Bergonzoni. Dimenticavo: il Nori è riuscito
persino a concentrare una "morale della storia" in un
fulminante finale (l'incontro con i diavoli) che pare non lasciare
adito alla speranza che l'occasione più importante della nostra
vita possa ripetersi.Torna a inizio pagina
Yambo - L'allevatore
di dinosauri - Edizioni Stampa alternativa - Fiabesca 30
E' chiaro che questo libretto, il suo stile
e la scelta dell'argomento, sono ampiamente fuori moda.
Niente di meglio per me che con il fuori moda ci vado a
nozze. Yambo è pseudonimo di Enrico Novelli (1874-1943)
toscano, giornalista, marionettista e scrittore per
ragazzi (cioè scrittore, punto e basta). Questo
racconto, con il titolo "L'uovo di
pterodactilo" venne pubblicato nel '26, a puntate,
su "Il giornale illustrato dei viaggi e delle
avventure di terra e di mare" di Sonzogno. Lo
stile è leggero e ironico, la lingua bella (forse un po'
troppo toscaneggiante, ma non è un gran difetto) e la
storia potrebbe essere usata, oggi, per farci una
sceneggiatura cinematografica ottenendo un film di
avventura sommamente brillante. Poiché nelle mire
dell'ironia c'era pure un certo Cavalier Mussolini (il
quale entra di persona nel racconto), allora il racconto
non ebbe molto seguito e fu ripubblicato solo nel '47.
Un tranquillo sindaco di un tranquillo paese
toscano, con la passione della biologia, riceve la visita
inaspettata di un vecchio amico viaggiatore (una specie
di Indiana Jones, ma meno timido) di ritorno dall'Africa.
L'amico porta, come dono, un uovo di dinosauro
trovato in una grotta in cui... La serie di eventi che si
scatena dopo la decisione, del sindaco, di incubare
l'uovo è davvero pirotecnica. E potrebbe servire da
banco di prova per molti sceneggiatori.Torna a inizio pagina
Miguel De Unamuno -
Come si fa un romanzo -Ibis -L'Ippogrifo-ISBN
88-7164-039-X
Non è che dopo avere letto questo breve
saggio del De Unamuno, uno possa mettersi alla scrivania
e produrre il capolavoro della propria vita. Anzi, se hai
un po' di timori circa la forza e la consistenza delle
tue motivazioni, potresti decidere che non scriverai mai
più una riga. Perché è proprio questo che il De
Unamuno sottolinea con la matitona rossa: o hai una vita
da mettere nel tuo romanzo o non c'è arte letteraria che
tenga. E non c'è motivo di scrivere un romanzo. Non
è necessario che tu abbia da metterci la vita di
Napoleone o quella di Giulio Cesare. La vita dello
spazzino che tutte le mattine vedi all'angolo della
strada va benissimo. Deve essere che senza quella vita e
senza il suo romanzo, il mondo ha qualcosa di meno.
Allora c'è il motivo di mettere quella vita in un
romanzo. Sfortunatamente, aggiungo io, non c'è alcun
modo di sapere se val la pena di scrivere un romanzo,
prima di averlo scritto. Perciò bisognerà scriverlo,
facendo sì che quello sia il romanzo in cui c'è
la ragione della vita di chi scrive. E dopo
bisognerà accettarne le conseguenze, e la valutazione,
sulla base di quanta vita c'è (di quanto di autentico
c'è) in quel romanzo. Qualcuno ha detto che per
fare un film bisogna avere una storia da raccontare. Per
fare un romanzo è più o meno lo stesso. Se non si ha
una vita a disposizione, bisognerà cercarla da qualche
parte. Con tutte le forze. Se no, il romanzo non
viene. Torna a inizio pagina
Franco Ruffini -
Analisi armoniche - Einaudi La ricerca letteraria, serie
italiana
Si sarebbe tentati di parlare di
sperimentalismo ma farlo sarebbe perlomeno limitativo.
Ruffini tenta una strutturazione tipografica del
racconto. Il problema è che non vi è racconto nel senso
convenzionale del termine. Non chiamerei racconto,
appunto, l'elencazione dei gesti che un tizio fa, seduto
e addormentato al sole pomeridiano. Ma l'esperimento ha
un suo fascino. Le note in postfazione, a firma di Gian
Carlo Roscioni, ci avvertono che "Il tecnicismo
con cui in queste pagine sono sottolineati, anche
graficamente, i diversi livelli e procedimenti della
scrittura non deve trarre in inganno: l'operazione
sottesa è fondamentalmente essoterica e mira a
persuadere il lettore e laico che il discorso,
soprattutto il discorso letterario, è necessariamente
ipotetico" e che "... gli anelli che
formano la catena del discorso sono legati da vincoli
congetturali e provvisori: tra un membro di periodo e
l'altro, anzi tra una parola e l'altra, si possono
inserire apposizioni, incisi, divagazioni e sviluppi
illimitati". E così infatti il Ruffini fà.
Chiunque avesse, per qualche anno, passato parte del
proprio tempo a scrivere programmi in linguaggio PASCAL,
o in Modula 2, non farebbe la minima fatica ad andare
dietro alle "apposizioni e divagazioni" di
Ruffini. Il testo è proprio scritto con lo stesso stile
con il quale, nei primi anni '80, prese piede la
cosiddetta "programmazione strutturata". C'è
naturalmente una differenza radicale che và ben al di
là dell'aspetto di strutturazione tipografica che
l'insieme ha. Chi scrive un programma per computer lo
fà, generalmente, volgendosi a un obiettivo esterno
rispetto alla macchina che gestisce le procedure (il
computer) e usa la macchina e un linguaggio strutturato
allo scopo di costruire enunciazioni che non effettuano,
nel modo più assoluto, analisi introspettiva. Una
"routine" non scava nella materia che la
costituisce. Le analisi armoniche di Ruffini,
all'opposto, fanno proprio questo. Il trucco tipografico
di scrivere chiose o apposizioni a un membro di periodo
principale per mezzo del rientro di un paragrafo,
permette al lettore di leggere su tutti i livelli
possibili e di decidere fino a quale livello di
"scavo" ci si vuole spingere. Se si legge come
se tutto fosse scritto sullo stesso livello
si rimane storditi. Se si legge seguendo il
"profiling", cioè tutti i capoversi che
appartengono allo stessso livello, si banalizza
l'argomento del narrare. Si scopre che non si stà,
appunto, narrando nulla di più che una serie di eventi
naturali (il raggio di sole che scalda la mano la quale,
non sorretta, è ricaduta di fianco. La barba non rasata
che rompe alcuni esilissimi fili del colletto consunto
della camicia, ecc.) ai quali non si presta,
ordinariamente, la benché minima attenzione. Perché
non significano nulla di più che il fatto che il
tempo trascorre e gli eventi possibili, prima o poi,
accadono, e che quelli che possiamo osservare sono solo i
più probabili. Non fanno parte di alcun disegno legato
ai nostri desideri. Ciò che giustifica il
"rientro" è proprio la volontà di
scavare nella materia del narrare. Perché?
Perché si vuol sapere se sotto l'evidenza c'è qualcosa
di più di quel che appare a una osservazione
superficiale. Si vuol sapere se il meccanismo narrativo
può trovare una totale giustificazione in sé. Si vuol
scoprire se le idee narrative nascono dalla materia
stessa dello scrivere. E' uno sforzo titanico. Che è
destinato a non darci risposte. Scavare nella materia
dello scrivere, con questi intenti e in modo così
autoreferenziale, non può sortire altro effetto che
quello di distruggere la narrazione stessa. E' come se un
chirurgo cominciasse ad aprirsi la pancia con le sue
proprie mani e dati alcuni tagli netti ai principali
organi viscerali, li allineasse sul tavolo e proseguisse
a sezionarli allo scopo di preparare vetrini per
microscopio e saggi per il laboratorio di analisi. Dopo
aver fatto questo, non dovrebbe stupirsi troppo di
morire. Non credo Ruffini così sprovveduto da non
sapere questo molto bene. Nonostante ciò, la curiosità
di indagare nella materia che si ha di fronte - usandola
e torcendola contro sé stessa con l'impiego di mezzi che
non le sono peculiari - è irresistibile. E,
probabilmente, sarebbe vile resistere. Nessuno oggi
scriverebbe utilizzando questi mezzi ma nessuno
scrittore, o aspirante tale, dovrebbe sottrarsi a
interrogativi ed esperimenti del
genere. Torna a inizio pagina
Giacomo Guilizzoni -
Accadde a Roraro - MobyDick
- I libri dello Zelig - 41
C'era una volta il '68 e c'era tutto ciò
che lo ha generato. Guilizzoni è un insegnante che nel
'68 era poco più che quarantenne. Stava dunque dalla
parte del vecchio. Sarebbe facile tacciare di intenti
velatamente reazionari la sua ironia e il suo umorismo.
Ma sarebbe sbagliato. Guilizzoni stigmatizza
perfettamente lo spirito che, in quegli anni, andava per
la maggiore. Il fatto di definire "rivoluzione
blablale" e "scuotimento dei discenti" il
movimento studentesco, la dice lunga su che cosa lui
pensa sia rimasto degli "ideali" sessantottini.
E purtroppo ha ragione lui. Il libro è scritto con mano
lievissima e con vero umorismo e potrebbe forse fare
incavolare un Mario Capanna, ma non è il caso di
prendersela per questo. Anche alcuni ciellini di vecchia
data potrebbero sentirsi sfottuti: era certo ciò che
Guilizzoni voleva. I fatti, che a Roraro e dintorni si
svolgono, sono conditi da premesse chiare e da una solida
caratterizzazione dei personaggi. La narrazione è
brillante e a tratti addirittura esplosiva. Il libro ha
vinto un premio Navile per la letteratura
satirica. Guilizzoni minimizza dicendo che lo ha
scritto per divertire i figli ed esorcizzare alcuni rospi
che dovette ingoiare a suo tempo (e non dubito
che li ingoiò: io stesso ricordo certi
atteggiamenti nei confronti di taluni insegnanti, in
quegli anni. E il ricordo mi da fastidio,
trenta anni dopo). Non cercherò di esemplificare lo
stile del racconto, bisogna leggerselo. E' scritto
benissimo ed è autenticamente piacevole. Non male
davvero, per un professore di chimica. C'è pure una
prefazione di Patrizio Roversi nella quale si dice che il
racconto non ha contorni precisi: è evidente che anche
Patrizio voleva fare dell'ironia.
Torna a inizio pagina
Valerie
Solanas - Manifesto per l'eliminazione dei maschi - ES
Ars Amandi - 9
Fare analisi è
fuori delle mie capacità. Il libretto vale la spesa dei
pochi Euro e il paio d'ore di lettura, non foss'altro che
per avere un'idea di quali fossero le posizioni, diciamo
così, del femminismo più radicale in USA sul finir
degli anno'60. Valerie Solanas è un tipo che, nel '68,
sparò ad Andy Warhol. Fu attrice in un film dello
stesso Warhol (prima di sparargli, è ovvio). Mi son
divertito a leggere questo "Manifesto", pieno
di ingenuità senza fondo miscelate a una rabbia solo in
parte autentica, e a farlo leggere a un certo numero di
donne (senza dir loro che stavo facendo un esperimento):
moglie, amiche, amiche della moglie, amiche degli amici
ecc. Beh, credici o meno, alla fine il meno colpito,
dalle uscite della Solanas, ero proprio io. Perché
proprio non mi è riuscito di prenderla sul serio.
Comunque, se ti capita, leggilo. Potresti rivalutare te
stesso (e magari pure tuo padre!) alla luce delle
considerazioni "solanesiane". Torna a inizio pagina
Aldo Palazzeschi - Due
imperi mancati - Linea d'ombra - Aperture ISBN
88-09-15003-1
Questo qui è un "pamphlet" cioè, in italiano,
un libello. E' un libello assai bello. Per l'argomento,
la grande guerra, la lingua, un bell'italiano
toscaneggiante e la veemenza anti-bellica e
anti-imperialistica espressa con modi e toni da grande
libertario e da grande umanista. Se ti mancano le parole
per parlare contro la guerra ebbene, prendile di
qui. Lo stesso prendi di qui le parole, o
almeno il modo, per parlare di sdegno per la
violenza, di attiva opposizione alla violenza stessa e di
fratellanza (sì,lo so, ho scritto una parola fuori moda.
L'ennesima). Da evitare se sei un fanatico dannunziano.
Sì, ho scritto proprio "fanatico". Torna a inizio pagina
Yukio Mishima - Lezioni
spirituali per giovani samurai - SE - Saggi e
documenti... ISBN 88-7710-116-4
Bisogna leggere quest'uomo con un certo distacco.
Talvolta l'impulso è di catalogarlo tra gli
irrimediabili fanatici e nostalgici del bel tempo in cui
Berta filava, i treni arrivavano in orario e gli anziani
erano più rispettati. In realtà Mishima è ossessionato
da sé stesso: in questo mondo in cui si può
sopravvivere senza assumersi tremende responsabilità lui
è, appunto, uno di quelli che tremende responsabilità
non ne ha. Ma una vita deresponsabilizzata non è una
vita adulta. La vita non può essere, ci dice
esplicitamente Mishima, al pari dell'arte. L'arte
consente la mancanza di responsabilità, anzi ne
fiorisce. La vita no. Allora la vita di un artista assume
l'aspetto di una lacerante dicotomia tra la
necessità di essere liberamente
"irresponsabili" per poter essere artisti ed
essere gravemente responsabili per poter essere
"uomini". I tempi, osserva Mishima, spingono in
direzione di una crescente e generalizzata
deresponsabilizzazione. Se vi sono agitazioni è solo per
una recita di fronte a sé stessi (vedi tutte le
citazioni del movimento studentesco di Tokyo). Insomma:
Mishima si è suicidato. La sua visione del mondo
non lascia spazio a sogni. Solo un impegno smodato e, al
limite, doloroso può condurre allo scopo di essere
padroni di sé e responsabili verso il proprio mondo. Non
c'è riconciliazione tra l'arte e la vita. L'artista -
irresponsabile verso il suo prossimo - dovrebbe anche
prestare una specie di servizio militare permanente così
da rendersi conto delle difficoltà del reale e
impegnarvisi. Potrebbe colpire molto - affascinare,
addirittura - coloro che, molto giovani, fossero un poco
sprovveduti. Che fortuna, per me, aver conosciuto
Kurosawa. Prima di Mishima. Torna a inizio pagina
L'arte di petare
ovvero: Il manuale del subdolo artigliere - ES - Ars
amandi - 6
E' singolare che questo indispensabile manualetto - tanto
utile per affinare l'arte liberatoria del peto (o loffa,
che dir si voglia) - sia catalogato nella serie Ars
Amandi da quei giocherelloni della ES. Davvero, sarò
limitato a crederlo, ma nella flatulenza non vi è
ombra di valenza erotica. Ma a scopo blandamente
provocatorio e per sottolineare una mia solidarietà e
simpatia nei confronti di Daniele Luttazzi, te lo
segnalo. Che c'entra Luttazzi? Niente. Non direttamente
per lo meno. Il manuale è più che altro classificativo
e nomenclatorio (o classificatorio e nomenclativo, boh)
ed è utile, più che altro, come Manuale di
Armonia. L'idea di base è che, essendo l'attività
in oggetto del tutto connaturata con l'essere umano, non
si debbano insegnare tecniche nel dettaglio ma,
piuttosto, elencare e descrivere modi e illustrare
l'opportunità di usarne uno o un altro a seconda delle
occasioni. L'esperienza e il talento,
ammaestrati nella capacità di riconoscere gli
elementi della forma, faranno il resto. Niente
insegnamenti dottrinari, dunque, ma una piana e ben
esposta fenomenologia. Della scoreggia, naturalmente.
Torna a inizio pagina
Un saluto
Roby San
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