L’oggetto perduto di Lamperù
1.
Passò
i dieci metri del vialetto di ingresso con la spazzatura in mano. Raccolse una
carta di caramella, fece uff con la bocca. Uscì dal cancello di legno che era
aperto, come al solito, attraversò la strada. Si fermò davanti al cassonetto
dei rifiuti, rovesciò dentro il sacco della spazzatura e la carta della
caramella. Non ci fece quasi caso, nel cassonetto c'era una cosa che luccicava,
una palla con due specie di occhietti gialli. Tornò indietro, guardò intorno
se c'era qualcuno, riaprì il cassonetto, spinse dentro il braccio. Chiuse il
cancello di legno, ripassò sul vialetto in mezzo alle rose
potate e zappate, salì in casa, posò per terra la cosa che aveva
trovato nella spazzatura. Disse alla moglie: “Ho trovato questa cosa qui”.
Aveva
una forma strana, sembrava una palla di latta con gli occhiali gialli e dei
bitorzoli che rientravano o sporgevano dalla superficie. Non si capiva proprio
cosa fosse o a cosa servisse.
“Forse
è una cosa di valore” disse alla moglie.
“Non
credo proprio, se era nella spazzatura”
“Forse
ce l'hanno messo i marziani”
“Forse
l'hanno buttato via perché è una cosa pericolosa”
“Forse
è una cosa rubata”
“Forse
potrebbe esplodere”
“Io
lo ributterei nella spazzatura”
“E
se esplode?”
“Non
può esplodere”
“E
chi te lo dice?”
“Facciamo
così” disse Fabrizio “lo porto dalla polizia e se la vedono loro”
“Così
ti metti nei guai” disse la moglie
L'oggetto
rimase lì, sul pavimento, fuori era scuro, la moglie di Fabrizio si mise a
sparecchiare, gli disse “Riportalo nella spazzatura”, Fabrizio fece cenno di
sì, si chinò sull'oggetto per guardare se c'era qualche apertura, “Sei un
incosciente” gli disse la moglie e poi suonarono al campanello. “Vedi?”
gli disse.
Fabrizio
andò ad aprire. C'era un uomo che abitava due villette più in là. “Mi scusi
se la disturbo, signor Volux, non è che ha trovato una cosa tonda nella
spazzatura” - mentre parlava l'uomo sforzava lo sguardo oltre le spalle di
Fabrizio – “sarebbe di mio figlio, l'ha buttata via per sbaglio e ora piange
che la rivuole indietro, sa come sono i bambini, signor Volux”.
Fabrizio
stava per dire “Si figuri signor Fixal non c'è problema” e stava già
movendo i muscoli della bocca e aveva già predisposto le gambe e la schiena a
voltarsi e andare a prendere l'oggetto, quando pensò che non gli andava per
niente di restituirlo e così invece di dire “Si figuri signor Fixal ecc.”
ordinò alla faccia di fare l'ignara e disse “Mi dispiace io non ho trovato
niente”. “Però” aggiunse “mi può spiegare bene com'è fatta questa
cosa che se la trovo gliela porto io a suo figlio?”
L'uomo
lo guardò con due occhi per niente convinti e però intanto si trovava
imbarazzato a spiegargli con le parole com'era fatta e soprattutto si trovò in
difficoltà quando Fabrizio con grande curiosità gli chiese “Ma che cosa è?”
e sembrava che non ne avesse idea.
Fabrizio
e la moglie lo guardarono dalla finestra, di spalle, mentre attraversava il
vialetto tra le luci che occhieggiavano tra le piante di rose ben potate.
“Hai
fatto male a dirgli così” gli disse la moglie.
“Ma
vedi che neanche lui sa cos'è?”
Fabrizio
prese in mano l'oggetto misterioso, lo guardava tenendolo distante dalla faccia.
“Va
bene, lo riporto nei rifiuti, però prima voglio capire se vale qualcosa”
A
notte fonda percorse ancora il vialetto, aprì il cancello, guardò
tutt'intorno, prese per la pineta e quando trovò un punto sotto un abete che
gli sembrava andasse bene, scavò un buco e tutto sudato ci infilò dentro il
sacco della spazzatura che teneva in mano e che a sua volta conteneva molti
fogli di giornale avvolti attorno alla cosa. Poi incise ben bene l'abete col
temperino svizzero e tornò giù, tra le villette immerse nel silenzio. Sulla
soglia di casa si fermò ancora a guardarsi attorno. Adesso era soddisfatto.
L'oggetto era suo, nessuno glielo poteva togliere, e nascosto dentro quel buco
non era più pericoloso.
La
mattina dopo suonarono alla porta. La signora Volux si sfilò il grembiule,
assestò i capelli con un movimento abile delle dita e andò ad aprire. Alla
porta c'era la signora Fixal in veste da casa, ma pettinata e truccata a dovere.
“La
disturbo per quella cosa che mio figlio ha buttato via” disse la signora Fixal.
“Non
ne so niente” rispose la signora Volux.
L’istante
successivo la signora Fixal si avventò contro la signora Volux urlandole Ladra!
e intanto le tirava i capelli con tutta la forza e l'altra con dei lacrimoni che
le rigavano la faccia singhiozzava “Non sono una ladra” e si sforzava di
piantare il più possibile le unghie affilate nel braccio della signora Fixal,
finché questa dovette mollare la presa e tutt'a un tratto scoppiò anche lei a
piangere - lei però senza lacrime - e tra un singhiozzo e l'altro diceva ancora
Ladra! e Puttana e poi se ne andò per il vialetto di ingresso contornato dalle
rose e a metà vialetto si voltò per dire Non finisce così, con il braccio
sano teso contro la signora Volux seduta a gambe larghe sul pianerottolo.
Quando
tornò il marito, alle tredici e dieci, come tutti i giorni, la signora Volux
non aveva preparato niente da mangiare, era seduta in poltrona con gli occhi
sbarrati e non appena lo vide gli urlò “Io non ne voglio più sapere di
questa storia, chiaro?” e lui con lo stomaco che gli gorgogliava dovette stare
per tutt'un'ora seduto sul bracciolo della poltrona a carezzarle i capelli.
Invece
in paese la signora Fixal raccontava che i Volux gli avevano portato via una
cosa molto preziosa che apparteneva al figlio, perché l'aveva trovata lui, una
cosa straordinaria che poteva farli ricchi, e molti già cominciavano a guardar
male i Volux e a non credergli quando dicevano di non saperne niente e tutti
fantasticavano attorno a questa cosa.
Finché
un giorno Fabrizio tornò trafelato dal sopralluogo nel nascondiglio segreto.
Svegliò la moglie, le disse “La cosa non c'è più”.
“Sono
stati i Fixal”, diceva la moglie. “Ti sei fatto seguire e hanno scoperto il
nascondiglio”. Però la notizia di quello strano oggetto si era sparsa: poteva
essere stato chiunque.
“Io
ho visto il figlio degli Apterix girare qui intorno con la bicicletta” diceva
la moglie.
Se
ne stava seduta sul letto con i ditoni dei piedi in mano. “Se l'hanno rubato
è una cosa di valore. Io dico che è pericoloso, è meglio lasciar perdere”.
Fabrizio
taceva, stava alla finestra con il gomito appoggiato sul davanzale, guardava
fuori le lucine accese nel prato: i Fixal, gli Apterix o chi?
Alle
sette del mattino in casa dei Fixal suonò il telefono. Andò a rispondere il
signor Fixal. All'altro capo del filo c'era Fabrizio. Diceva: Vorremmo
parlarvi di quell'oggetto.
Alle
sette e dieci i Volux, tutti e due, percorsero in uscita il vialetto della loro
villetta. Traversarono la strada, suonarono al cancello dei Fixal, percorsero in
entrata il vialetto bordeggiato da ortensie ben potate, si presentarono alla
porta dei Fixal. Il signor Fixal li vide comparire, convessi, nello spioncino.
Aprì.
I
due volux si trovarono davanti ai tre fixal. Il piccolo fixal stava in mezzo,
tozzo come un bulldog.
Fabrizio
stava per parlare, aveva già aperto la bocca quando il piccolo fixal, il
bull-fixal, gli si avventò addosso. “La telesfera è mia” gridò e intanto
gli mordeva la mano con cui Fabrizio cercava di tenerlo a bada. Se è tua perché
l'hai buttata via, stupido - pensava Fabrizio, ma non lo diceva - mentre
guardava i due fixal adulti come si farebbe con i padroni di un cane molesto: me
lo tirate via, questo botolo, o devo prenderlo a calci?
Alla
fine riuscirono a spiegarsi. I Fixal raccontarono che la strana cosa l'aveva
trovata il loro piccolo in un campo, l'aveva portata a casa ma loro l'avevano
convinto a buttarla via, perché poteva esplodere, non senza promettergli in
cambio la playstation 2, che però ancora non era arrivata, notò il piccolo, ma
quando per caso avevano visto dalla finestra il signor Volux che rientrava in
casa con quell'oggetto sottobraccio, si erano convinti che era una cosa di un
certo valore e avevano cercato di riaverla indietro, perché in fondo l'avevano
trovata loro, e la signora Fixal poi era andata fuori dai gangheri e se ne
scusava perché non era quello il suo modo solito di comportarsi, ma era solo
perché quelli non volevano ammetterlo, mentre loro lo sapevano benissimo che ce
l'avevano in casa, avevano visto per caso il signor Volux raccoglierla dalla
spazzatura e attraversare indietro il vialetto di casa sua.
I
Volux si scusarono con il cuore in mano, dissero che non gli era mai capitato di
vedere un oggetto come quello e dovevano avere un po' perso la testa, dissero
che comunque purtroppo non ce l'avevano più, l'avevano nascosta sotto un albero
eccetera, gli dispiaceva molto, anzi moltissimo, e però adesso volevano aiutare
i Fixal a ritrovarla e se l'avessero recuperata sarebbe stata loro, non c'era
dubbio, visto che l'avevano trovata per primi. E i Fixal si schermirono e
dissero Neanche per sogno, se la ritroviamo è vostra, noi l'abbiamo buttata via
e non ce la meritiamo eccetera.
Però
sta di fatto che la cosa non c'era più e se volevano stabilire di chi fosse,
dovevano prima ritrovarla. La signora Fixal ora guardava dalla finestra la
villetta bianca degli Apterix, all’angolo della strada: “Ho visto il figlio
degli Apterix che vi ronzava attorno”. “Ah, anche lei?” rispose la signora
Volux, e ammiccò al marito: vedi? I cinque rimasero in silenzio per un po’,
in piedi sul marmo lustro del salotto di casa Fixal. Ci fu un lieve moto di
intesa, tra tutti, un unanime sentimento di odio verso la villetta degli Apterix.
Il piccolo Fixal si alzò, disse “Ci penso io”, prese le scarpe e il
giubbotto e fece per uscire. Lo richiamò indietro la mamma: “Pan di Stelle[1]!”
“Che
c’è, mamma?”
“Ma
diamine, hai dei capelli che sembri
un istrice”
Pan
di Stelle fece uff, con la bocca, si rassegnò a una vigorosa spazzolata (ahi,
ahi, ahiiii!), a un bacio stampato sulla guancia e finalmente uscì, seguito
dagli sguardi di tutti. Rimase ad aspettare al cancello di casa, gli altri lo
guardavano dalla finestra, non appena comparve il piccolo Apterix con lo zaino
della scuola in spalla gli andò incontro, dalla finestra li videro confabulare
per qualche secondo, poi il bull-fixal si buttò addosso all’apterino e in un
attimo rotolarono in mezzo alla strada. Papà e mamma fixal furono subito giù
anche loro, i Volux dietro, intanto era comparsa anche la signora Apterix con le
braccia al cielo, Fabrizio vide che aveva lasciato la porta aperta, diede
un’occhiata intorno e decise di approfittare della confusione, attraversò il
vialetto bordeggiato da striminziti cespugli appena in germoglio e svelto come
un gatto si intrufolò nella casa degli Apterix. Nessuno. Silenzio. Dalla strada
sentiva le urla degli altri. Cominciò a rovistare nel salotto, rivoltava i
cassetti, frugava negli armadi, in cucina fu preso da una specie di rabbia di
non aver più tra le mani la telesfera e di non riuscire a ritrovarla, spaccò
sul lavello una bottiglia con i fiori dipinti sopra, poi andò alla credenza,
tirò fuori tutto, scagliò contro il muro una tazza che invece di rompersi gli
rimbalzò in faccia, la fece in mille pezzi con un martello che aveva scovato
nel cassetto, si fermò un attimo a riprendere fiato, calma si disse, calma, gli
venne in mente di sopra, la camera del bambino, si avventò sui gradini. Si
arrestò di colpo: era faccia a faccia con la piccola Apterix. Percepì dei
lineamenti deformati a metà tra il sonno e il terrore. Sentì entrargli dentro
un grido disumano, così forte, così acuto che dovette tapparsi le orecchie e
chiudere gli occhi. E precipitò indietro giù dalle scale.
L’oggetto
ce l’aveva un povero diavolo che invece di tenerselo nascosto in casa, lo
portava in giro in bicicletta con un sorriso scemo, legato al portapacchi,
contento di farlo vedere a tutti. Lo avevano beccato un gruppo di ragazzotti. E
siccome non lo voleva mollare e se lo teneva stretto al petto con tutte le
forze, e più lo minacciavano più serrava le braccia, digrignando i denti,
gliene avevano suonate tante ma tante, che per miracolo era ancora vivo. Lo
avevano salvato due carabinieri: con un colpo di pistola al vento erano riusciti
a disperdere i marmocchi. Il poveretto pareva stecchito, se ne stava sanguinante
a terra rinserrato attorno alla cosa, riuscirono a levargliela solo
all’ospedale. Durante l’operazione i due carabinieri aspettarono pazienti
seduti appaiati nella saletta del pronto soccorso e a notte fonda, finalmente,
si videro consegnare l’oggetto in un sacchetto di cellophane dalle mani di
un’infermiera sfinita. Fecero così un trionfale ritorno in caserma, passarono
sul vialetto di ingresso immerso nei biancospini con l’oggetto nel sacchetto,
un manico a testa.
2.
Il
magnate della moda Dario Pecci Bum aveva, non a caso, il collo lungo e peloso e
i denti aguzzi. Per questo motivo gli amici, quando volevano alludere alla
figura non proprio bella ma elegante, lo chiamavano la Giraffa, o anche lo
Struzzo. Oppure lo chiamavano il Coccodrillo, o lo Squalo, quando volevano
alludere, non senza ammirazione, alla sua ferocia.
Il
Coccodrillo o Struzzo che sia era famoso per molte cose, non ultima una
raffinata collezione di oggetti kitsch del Novecento[2].
Ma era famoso anche per l’inguaribile insonnia, che combatteva nella sua
alcova a dosi di cocaina e di una soubrette dalle curve prosperose, che a notte
lo accoglieva tra le sue carni e riusciva almeno un po’ (un po’ lei, un
po’ la cocaina) a fargli sbollire il nervoso e a rendergli la notte
sopportabile.
Una
notte la soubrette, che era anche un’attricetta, gli stava seduta sulla
schiena e gli massaggiava la base del collo con i polpastrelli. Parlava di
regali e a un tratto aveva tirato fuori, chissà a che pro, l’oggetto di
Lamperù.
“Che
cosa?” chiese il Coccodrillo.
“L’oggetto
di Lamperù” Non aggiunse altro, perché - lo sapeva – lo Squalo non amava
le spiegazioni non richieste.
Il
Coccodrillo mugugnò qualcosa.
Allora
l’attricetta proseguì: “E’ una cosa che hanno trovato a Lamperù, il
bello è che nessuno sa cos’è però tutti la vogliono, hanno litigato e ci
sono dei processi e anche un morto, credo. Sai è una cosa molto bella, una
sfera magica grande così con delle luci gialle.”
“Massaggia,
per favore”
“Sì.
Dicevo che è una cosa molto misteriosa e si dice che l’ha messa lì il
diavolo o i marziani”
Alla
Giraffa cominciava a ronzare nella testa qualcosa di indistinto, ancora non
sapeva dire cosa, ma era certo: qualcosa si preparava: sentiva il cuore che
pompava il sangue su per il collo, gli occhi appannati, e le parole
dell’attricetta gli arrivavano staccate e lontane, la Giraffa lo sentiva,
un’idea, una grande idea stava per traversare lo spazio siderale per
presentarsi a lui, nell’alcova segreta del suo appartamento, la sentiva adesso
era già lì, nell’aria, doveva solo stare calmo, zitto e fermo come quando il
gambero entra nel retino e zac!, torse il suo lungo collo e con un soffio
leggero disse all’attricetta: “Massaggia con i piedi” e come sentì la
pressione degli alluci sulla cervicale, calò le palpebre e vide la sua bella
sfera ruotare nello spazio buio in mezzo alle stelle, e lui era lì a fare lo
slalom tra i pianetini, pronto a stringerla tra le mani, ecco la stava già
agguantando, era sua. In quel momento l’attricetta, che era anche mannequin
per taglie forti, a tempo perso, arrestò gli alluci e il Coccodrillo si ritrovò
bocconi sul letto senza sfera e senza idea, col culo della mannequin sulla
schiena.
Grugnì
di rabbia.
“C’è
una zanzara” disse la mannequin alzando per aria il nasino alla francese.
“Una zanzara di questa stagione, che mondo pazzo”
“Di
chi è adesso?”
“Quella
cosa? E chi lo sa? Alla fine hanno fatto una lotteria. Chi sa chi ce l’ha
adesso”
La
mannequin e lo Struzzo si trovarono viso a viso, alito contro alito, gli occhi
tondi dello Struzzo contro gli occhi spalancati azzurri della soubrette, le mani
della soubrette sulla pelle dello Struzzo. In un sibilo lieve come un bacio gli
sussurrò nel buco dell’orecchio quello che aveva in testa: “Perché non la
compri tu?”
Il
Coccodrillo respirò. L’idea non era perduta, tornava docile ai suoi piedi,
l’oggetto misterioso planava dallo spazio profondo, si stampava su tutte le
t-shirt, gli chapeaux, le mutande, le camicie le giacche le palandrane e i
tabarri delle sue collezioni. Sui calzini e sui fazzoletti. Sulle ceramiche gli
smalti le carte igieniche le maioliche le piastrelle. Sui Bum-bidoni per il
riciclaggio della spazzatura. Su tutto. E gli slogan, gli slogan gli venivano su come bollicine mentre
i dentini della mannequin gli mordicchiavano i lobi. Unidentified flying object? Unidentified DRESSING Object.
Respirò
ancora. Prese una decisione: “Domani andiamo.”
“Con
la Multipla o la Cadillac?” chiese la mannequin, e con la lingua prese a
ispezionargli il padiglione auricolare.
La
Cadillac nera dello Squalo si fermò, in divieto di sosta, davanti al Municipio
di una Lamperù deserta. Scese un uomo in abito grigio, percorse a passi
frettolosi i pochi metri che lo separavano dall’ingresso, rimase a studiare a
naso in su i cartelli appesi al muro. Entrò.
Tornò
fuori ventitre minuti dopo. Aprì lo sportello e si sedé sul sedile anteriore
della Cadillac.
“Hanno
fatto una lotteria. Ce l’ha un tizio qui vicino” disse voltandosi verso il
Coccodrillo. “Dicono di fare attenzione, c’è la guerra per quella cosa. Ora
lo chiamo”. L’uomo in grigio, che era il segretario di Pecci Bum, e anche il
consigliere, e spesso autista (questa volta però no, guidava la mannequin) uscì
ancora dalla macchina perché il telefonino non prendeva, fece strani giri
intorno con il display sotto il naso per trovare una buona zona di ricezione,
finalmente portò il telefonino all’orecchio e parlò con il signor Tripodis.
Poi tornò dentro e la Cadillac partì.
Lo
Struzzo drizzava il collo, nervoso. “Quanto ci vorrà?”
“Qualche
milione, è un brav’uomo”
“Mi
raccomando: non facciamoci riconoscere”
La
mannequin parcheggiò davanti a una palazzina in cemento. L’uomo in grigio
scese. Da dietro i vetri oscurati tre coppie di occhi lo videro sparire dentro
il portoncino d’ingresso. Gli stessi occhi si accorsero di altri occhi che
spiavano dai buchi di una tapparella semichiusa.
“I
Tripodis” disse la mannequin con il dito.
Sulla
facciata rattoppata del palazzo si schiusero altre tapparelle. Dentro la
Cadillac c’era un silenzio nervoso. Il fidato gorilla di Pecci Bum portò la
mano sotto la giacca. All’orologio
di Pecci Bum erano passati trentacinque minuti, la strada era vuota, gli occhi
dei tre non si staccavano dal portoncino a vetri dall’altra parte della via.
Cominciò a cadere una pioggia sottile, faceva tic-tic sul tetto della Cadillac.
Erano passati cinquantadue minuti quando il segretario-autista tornò. Gli occhi
del Coccodrillo gli si piantarono addosso. L’uomo si abbandonò al sedile.
“E’ un figlio di puttana” disse “Non lo molla”
“A
quanto sei arrivato?”
L’uomo
mostrò la mano aperta con tutte e cinque le dita distese: intendeva cinquanta
milioni. Disse: “Ha paura a venderla. Dice che perderla porta iella, dice che
quello che ce l’aveva prima è caduto dalle scale, è su una sedia a
rotelle”
Il
Coccodrillo sorrise, mostrò i denti aguzzi.
“Moltiplica
per dieci, facciamola finita”
Lo
disse spalancando appena le fauci, in una specie di sbadiglio.
L’uomo
in grigio riattraversò la strada, con un braccio sulla testa per parare la
pioggia. Il gorilla di Pecci Bum abbozzò un suo sorriso interiore. Era un
ventriloquo del sorriso e del pianto: sorrideva e piangeva in silenzio solo con
lo stomaco, così nessuno se ne accorgeva.
Questa
volta i sei occhi videro ricomparire l’uomo in grigio dopo pochi minuti, aveva
la faccia bianca bagnata non si poteva dire se di pioggia o di lacrime.
Aprì
la portiera, sprofondò nel sedile, stette per pochi istanti immobile con la
testa riversa e l’acqua che faceva macchia sulla pelle dello schienale. Lo
scricchiolio dei denti del Coccodrillo lo convinse a parlare: “Vuole
cinquemila”
“Cinquemila
cosa?”
“Cinquemila
milioni[3]”
Il
Coccodrillo stette immobile. Sbatté due volte le palpebre, poi disse:
“Andiamocene”.
Un
attimo dopo cambiò idea. “Voglio almeno vederla”, disse.
La
Cadillac fece manovra nella strada stretta, strusciò le gomme contro il
marciapiedi. L’uomo in grigio scese sotto la pioggia, la portiera fece un
morbido tonfo. Saltellando tra le pozzanghere raggiunse ancora il citofono. I
tre della macchina videro il portoncino richiudersi alle sue spalle. La pioggia
picchiettava sul tettuccio.
Al
portoncino del palazzo si presentò un uomo in ciabatte. Teneva le braccia tese
in avanti, stringeva nelle mani la stessa sfera, un po’ più ammaccata, che
Fabrizio aveva raccolto dal cassonetto dell’immondizia. Fissava l’enorme
scarafaggio della Cadillac con gli occhi strizzati. Dietro i vetri scuri della
Cadillac, il Coccodrillo teneva la lingua tra i denti: lo squadrò in silenzio,
notò la camicia sbottonata e l’altra sfera del ventre, i piedi grossi nelle
ciabatte e la barba trascurata. Sbatté di nuovo le palpebre, valutò la
possibilità di un colpo di mano.
La
mannequin e il gorilla invece stavano guardando alla finestra dei Tripodis, ora
tutta spalancata, la faccia più pallida che mai dell’uomo in grigio. Anche
gli occhi dell’uomo erano puntati su di loro, sembrava che li scongiurasse di
far presto.
Il
Coccodrillo tirò dentro la lingua, alla fine, il gorilla fece un segno
all’esterno, stizzito, Tripodis, se era lui, terminò l’ostensione e poco
dopo ricomparve l’uomo in grigio.
“Villani
bastardi, quel cianfero non vale un soldo” gli scappò detto, mentre srotolava
dai piedi le calze bagnate. Il motore della Cadillac frusciava sotto la pioggia,
i denti del Coccodrillo facevano scriiiiic.
Dieci
giorni dopo la Giraffa stava contemplando l’oggetto di Lamperù tra le sete
della sua alcova. Guardava quella palla di latta e cercava di concentrarsi sulla
sua grande abilità e di dimenticare la cifra piena di zeri che aveva sborsato.
Quando ci pensava e rivedeva il buzzo dell’uomo con le ciabatte provava una
specie di strizza al fegato.
“Massaggia”
Sentiva
le fette della mannequin percorrergli i muscoli del collo, questo aiutava il
sangue a compiere il lungo percorso per arrivargli al cervello, lo faceva
sentire in forma. L’oggetto ignoto era lì, tondo, su un cuscinetto di
velluto. Si ripeté che aveva fatto un grande colpo, aveva in camera l’oggetto
più misterioso e inutile della terra, anche l’attricetta glielo stava
ripetendo “Sei grande, Bummi”. Pecci Bum sentiva le parole incapsulate in
quella vocetta da bambina, pensava a che incredibili corde vocali doveva avere,
gli sarebbe piaciuto farci un giretto dentro, e intanto, forse la stanchezza,
forse la dolcezza del massaggio, cominciò a sognare che la gente, tutta la
gente del mondo, ma proprio tutti: gli aborigeni dell’Australia e gli
eschimesi della Groenlandia, i russi gli americani i turchi tutte le razze di
occhi a mandorla e tutte le possibili variazioni di negri con le narici larghe
facevano la fila davanti ai Bum Magazines per una t-shirt o uno strangolino con
l’oggetto non identificato.
L’attricetta
si stupì nel vedere le narici della Giraffa gonfiarsi e sgonfiarsi ritmicamente.
Incredibile ma stava dormendo. Con la punta delle unghie gli fece un tenero
contropelo sul collo. Guardò anche lei l’oggetto sul piedistallo e ripeté a
voce alta la battutaccia di un vecchio film: “Un giorno tutto questo sarà
mio, Bummi.”
[1] Pan di Stelle è un marchio registrato del Mulino Bianco.
[2] Conteneva, tra l’altro, il più alto numero di occhiali di Elton John presenti in un’unica collezione.
[3] Siamo nel 2000, era pre-euro. Per un riferimento, con mille milioni di Lire, cioè un miliardo, si può comprare: un bilocale piccolo a Santa Margherita Ligure, oppure uno stinco senza carne di Zinedine Zidane oppure quattrocentomila barattoli di Pringles.
| Home Page | Racconti Vecchi | Racconti Brevi | Racconti Nuovi | Racconti di altri | Il libro degli Haiku | La pagina dei Link | Archivio |