L’oggetto perduto di Lamperù


1.

Passò i dieci metri del vialetto di ingresso con la spazzatura in mano. Raccolse una carta di caramella, fece uff con la bocca. Uscì dal cancello di legno che era aperto, come al solito, attraversò la strada. Si fermò davanti al cassonetto dei rifiuti, rovesciò dentro il sacco della spazzatura e la carta della caramella. Non ci fece quasi caso, nel cassonetto c'era una cosa che luccicava, una palla con due specie di occhietti gialli. Tornò indietro, guardò intorno se c'era qualcuno, riaprì il cassonetto, spinse dentro il braccio. Chiuse il cancello di legno, ripassò sul vialetto in mezzo alle rose  potate e zappate, salì in casa, posò per terra la cosa che aveva trovato nella spazzatura. Disse alla moglie: “Ho trovato questa cosa qui”.

Aveva una forma strana, sembrava una palla di latta con gli occhiali gialli e dei bitorzoli che rientravano o sporgevano dalla superficie. Non si capiva proprio cosa fosse o a cosa servisse.

“Forse è una cosa di valore” disse alla moglie.

“Non credo proprio, se era nella spazzatura”

“Forse ce l'hanno messo i marziani”

“Forse l'hanno buttato via perché è una cosa pericolosa”

“Forse è una cosa rubata”

“Forse potrebbe esplodere”

“Io lo ributterei nella spazzatura”

“E se esplode?”

“Non può esplodere”

“E chi te lo dice?”

“Facciamo così” disse Fabrizio “lo porto dalla polizia e se la vedono loro”

“Così ti metti nei guai” disse la moglie

L'oggetto rimase lì, sul pavimento, fuori era scuro, la moglie di Fabrizio si mise a sparecchiare, gli disse “Riportalo nella spazzatura”, Fabrizio fece cenno di sì, si chinò sull'oggetto per guardare se c'era qualche apertura, “Sei un incosciente” gli disse la moglie e poi suonarono al campanello. “Vedi?” gli disse.

Fabrizio andò ad aprire. C'era un uomo che abitava due villette più in là. “Mi scusi se la disturbo, signor Volux, non è che ha trovato una cosa tonda nella spazzatura” - mentre parlava l'uomo sforzava lo sguardo oltre le spalle di Fabrizio – “sarebbe di mio figlio, l'ha buttata via per sbaglio e ora piange che la rivuole indietro, sa come sono i bambini, signor Volux”.

Fabrizio stava per dire “Si figuri signor Fixal non c'è problema” e stava già movendo i muscoli della bocca e aveva già predisposto le gambe e la schiena a voltarsi e andare a prendere l'oggetto, quando pensò che non gli andava per niente di restituirlo e così invece di dire “Si figuri signor Fixal ecc.” ordinò alla faccia di fare l'ignara e disse “Mi dispiace io non ho trovato niente”. “Però” aggiunse “mi può spiegare bene com'è fatta questa cosa che se la trovo gliela porto io a suo figlio?”

L'uomo lo guardò con due occhi per niente convinti e però intanto si trovava imbarazzato a spiegargli con le parole com'era fatta e soprattutto si trovò in difficoltà quando Fabrizio con grande curiosità gli chiese “Ma che cosa è?” e sembrava che non ne avesse idea.

Fabrizio e la moglie lo guardarono dalla finestra, di spalle, mentre attraversava il vialetto tra le luci che occhieggiavano tra le piante di rose ben potate.

“Hai fatto male a dirgli così” gli disse la moglie.

“Ma vedi che neanche lui sa cos'è?”

Fabrizio prese in mano l'oggetto misterioso, lo guardava tenendolo distante dalla faccia.

“Va bene, lo riporto nei rifiuti, però prima voglio capire se vale qualcosa”

A notte fonda percorse ancora il vialetto, aprì il cancello, guardò tutt'intorno, prese per la pineta e quando trovò un punto sotto un abete che gli sembrava andasse bene, scavò un buco e tutto sudato ci infilò dentro il sacco della spazzatura che teneva in mano e che a sua volta conteneva molti fogli di giornale avvolti attorno alla cosa. Poi incise ben bene l'abete col temperino svizzero e tornò giù, tra le villette immerse nel silenzio. Sulla soglia di casa si fermò ancora a guardarsi attorno. Adesso era soddisfatto. L'oggetto era suo, nessuno glielo poteva togliere, e nascosto dentro quel buco non era più pericoloso.

 

La mattina dopo suonarono alla porta. La signora Volux si sfilò il grembiule, assestò i capelli con un movimento abile delle dita e andò ad aprire. Alla porta c'era la signora Fixal in veste da casa, ma pettinata e truccata a dovere.

“La disturbo per quella cosa che mio figlio ha buttato via” disse la signora Fixal.

“Non ne so niente” rispose la signora Volux.

L’istante successivo la signora Fixal si avventò contro la signora Volux urlandole Ladra! e intanto le tirava i capelli con tutta la forza e l'altra con dei lacrimoni che le rigavano la faccia singhiozzava “Non sono una ladra” e si sforzava di piantare il più possibile le unghie affilate nel braccio della signora Fixal, finché questa dovette mollare la presa e tutt'a un tratto scoppiò anche lei a piangere - lei però senza lacrime - e tra un singhiozzo e l'altro diceva ancora Ladra! e Puttana e poi se ne andò per il vialetto di ingresso contornato dalle rose e a metà vialetto si voltò per dire Non finisce così, con il braccio sano teso contro la signora Volux seduta a gambe larghe sul pianerottolo.

Quando tornò il marito, alle tredici e dieci, come tutti i giorni, la signora Volux non aveva preparato niente da mangiare, era seduta in poltrona con gli occhi sbarrati e non appena lo vide gli urlò “Io non ne voglio più sapere di questa storia, chiaro?” e lui con lo stomaco che gli gorgogliava dovette stare per tutt'un'ora seduto sul bracciolo della poltrona a carezzarle i capelli.

Invece in paese la signora Fixal raccontava che i Volux gli avevano portato via una cosa molto preziosa che apparteneva al figlio, perché l'aveva trovata lui, una cosa straordinaria che poteva farli ricchi, e molti già cominciavano a guardar male i Volux e a non credergli quando dicevano di non saperne niente e tutti fantasticavano attorno a questa cosa.

Finché un giorno Fabrizio tornò trafelato dal sopralluogo nel nascondiglio segreto. Svegliò la moglie, le disse “La cosa non c'è più”.

“Sono stati i Fixal”, diceva la moglie. “Ti sei fatto seguire e hanno scoperto il nascondiglio”. Però la notizia di quello strano oggetto si era sparsa: poteva essere stato chiunque.

“Io ho visto il figlio degli Apterix girare qui intorno con la bicicletta” diceva la moglie.

Se ne stava seduta sul letto con i ditoni dei piedi in mano. “Se l'hanno rubato è una cosa di valore. Io dico che è pericoloso, è meglio lasciar perdere”.

Fabrizio taceva, stava alla finestra con il gomito appoggiato sul davanzale, guardava fuori le lucine accese nel prato: i Fixal, gli Apterix o chi?

Alle sette del mattino in casa dei Fixal suonò il telefono. Andò a rispondere il  signor Fixal. All'altro capo del filo c'era Fabrizio. Diceva: Vorremmo parlarvi di quell'oggetto.

Alle sette e dieci i Volux, tutti e due, percorsero in uscita il vialetto della loro villetta. Traversarono la strada, suonarono al cancello dei Fixal, percorsero in entrata il vialetto bordeggiato da ortensie ben potate, si presentarono alla porta dei Fixal. Il signor Fixal li vide comparire, convessi, nello spioncino. Aprì.

I due volux si trovarono davanti ai tre fixal. Il piccolo fixal stava in mezzo, tozzo come un bulldog.

Fabrizio stava per parlare, aveva già aperto la bocca quando il piccolo fixal, il bull-fixal, gli si avventò addosso. “La telesfera è mia” gridò e intanto gli mordeva la mano con cui Fabrizio cercava di tenerlo a bada. Se è tua perché l'hai buttata via, stupido - pensava Fabrizio, ma non lo diceva - mentre guardava i due fixal adulti come si farebbe con i padroni di un cane molesto: me lo tirate via, questo botolo, o devo prenderlo a calci?

Alla fine riuscirono a spiegarsi. I Fixal raccontarono che la strana cosa l'aveva trovata il loro piccolo in un campo, l'aveva portata a casa ma loro l'avevano convinto a buttarla via, perché poteva esplodere, non senza promettergli in cambio la playstation 2, che però ancora non era arrivata, notò il piccolo, ma quando per caso avevano visto dalla finestra il signor Volux che rientrava in casa con quell'oggetto sottobraccio, si erano convinti che era una cosa di un certo valore e avevano cercato di riaverla indietro, perché in fondo l'avevano trovata loro, e la signora Fixal poi era andata fuori dai gangheri e se ne scusava perché non era quello il suo modo solito di comportarsi, ma era solo perché quelli non volevano ammetterlo, mentre loro lo sapevano benissimo che ce l'avevano in casa, avevano visto per caso il signor Volux raccoglierla dalla spazzatura e attraversare indietro il vialetto di casa sua.   

I Volux si scusarono con il cuore in mano, dissero che non gli era mai capitato di vedere un oggetto come quello e dovevano avere un po' perso la testa, dissero che comunque purtroppo non ce l'avevano più, l'avevano nascosta sotto un albero eccetera, gli dispiaceva molto, anzi moltissimo, e però adesso volevano aiutare i Fixal a ritrovarla e se l'avessero recuperata sarebbe stata loro, non c'era dubbio, visto che l'avevano trovata per primi. E i Fixal si schermirono e dissero Neanche per sogno, se la ritroviamo è vostra, noi l'abbiamo buttata via e non ce la meritiamo eccetera.

Però sta di fatto che la cosa non c'era più e se volevano stabilire di chi fosse, dovevano prima ritrovarla. La signora Fixal ora guardava dalla finestra la villetta bianca degli Apterix, all’angolo della strada: “Ho visto il figlio degli Apterix che vi ronzava attorno”. “Ah, anche lei?” rispose la signora Volux, e ammiccò al marito: vedi? I cinque rimasero in silenzio per un po’, in piedi sul marmo lustro del salotto di casa Fixal. Ci fu un lieve moto di intesa, tra tutti, un unanime sentimento di odio verso la villetta degli Apterix. Il piccolo Fixal si alzò, disse “Ci penso io”, prese le scarpe e il giubbotto e fece per uscire. Lo richiamò indietro la mamma: “Pan di Stelle[1]!”

“Che c’è, mamma?”

“Ma diamine, hai  dei capelli che sembri un istrice”

Pan di Stelle fece uff, con la bocca, si rassegnò a una vigorosa spazzolata (ahi, ahi, ahiiii!), a un bacio stampato sulla guancia e finalmente uscì, seguito dagli sguardi di tutti. Rimase ad aspettare al cancello di casa, gli altri lo guardavano dalla finestra, non appena comparve il piccolo Apterix con lo zaino della scuola in spalla gli andò incontro, dalla finestra li videro confabulare per qualche secondo, poi il bull-fixal si buttò addosso all’apterino e in un attimo rotolarono in mezzo alla strada. Papà e mamma fixal furono subito giù anche loro, i Volux dietro, intanto era comparsa anche la signora Apterix con le braccia al cielo, Fabrizio vide che aveva lasciato la porta aperta, diede un’occhiata intorno e decise di approfittare della confusione, attraversò il vialetto bordeggiato da striminziti cespugli appena in germoglio e svelto come un gatto si intrufolò nella casa degli Apterix. Nessuno. Silenzio. Dalla strada sentiva le urla degli altri. Cominciò a rovistare nel salotto, rivoltava i cassetti, frugava negli armadi, in cucina fu preso da una specie di rabbia di non aver più tra le mani la telesfera e di non riuscire a ritrovarla, spaccò sul lavello una bottiglia con i fiori dipinti sopra, poi andò alla credenza, tirò fuori tutto, scagliò contro il muro una tazza che invece di rompersi gli rimbalzò in faccia, la fece in mille pezzi con un martello che aveva scovato nel cassetto, si fermò un attimo a riprendere fiato, calma si disse, calma, gli venne in mente di sopra, la camera del bambino, si avventò sui gradini. Si arrestò di colpo: era faccia a faccia con la piccola Apterix. Percepì dei lineamenti deformati a metà tra il sonno e il terrore. Sentì entrargli dentro un grido disumano, così forte, così acuto che dovette tapparsi le orecchie e chiudere gli occhi. E precipitò indietro giù dalle scale.

 

L’oggetto ce l’aveva un povero diavolo che invece di tenerselo nascosto in casa, lo portava in giro in bicicletta con un sorriso scemo, legato al portapacchi, contento di farlo vedere a tutti. Lo avevano beccato un gruppo di ragazzotti. E siccome non lo voleva mollare e se lo teneva stretto al petto con tutte le forze, e più lo minacciavano più serrava le braccia, digrignando i denti, gliene avevano suonate tante ma tante, che per miracolo era ancora vivo. Lo avevano salvato due carabinieri: con un colpo di pistola al vento erano riusciti a disperdere i marmocchi. Il poveretto pareva stecchito, se ne stava sanguinante a terra rinserrato attorno alla cosa, riuscirono a levargliela solo all’ospedale. Durante l’operazione i due carabinieri aspettarono pazienti seduti appaiati nella saletta del pronto soccorso e a notte fonda, finalmente, si videro consegnare l’oggetto in un sacchetto di cellophane dalle mani di un’infermiera sfinita. Fecero così un trionfale ritorno in caserma, passarono sul vialetto di ingresso immerso nei biancospini con l’oggetto nel sacchetto, un manico a testa.

 

 

 

2.

Il magnate della moda Dario Pecci Bum aveva, non a caso, il collo lungo e peloso e i denti aguzzi. Per questo motivo gli amici, quando volevano alludere alla figura non proprio bella ma elegante, lo chiamavano la Giraffa, o anche lo Struzzo. Oppure lo chiamavano il Coccodrillo, o lo Squalo, quando volevano alludere, non senza ammirazione, alla sua ferocia.

Il Coccodrillo o Struzzo che sia era famoso per molte cose, non ultima una raffinata collezione di oggetti kitsch del Novecento[2]. Ma era famoso anche per l’inguaribile insonnia, che combatteva nella sua alcova a dosi di cocaina e di una soubrette dalle curve prosperose, che a notte lo accoglieva tra le sue carni e riusciva almeno un po’ (un po’ lei, un po’ la cocaina) a fargli sbollire il nervoso e a rendergli la notte sopportabile.

Una notte la soubrette, che era anche un’attricetta, gli stava seduta sulla schiena e gli massaggiava la base del collo con i polpastrelli. Parlava di regali e a un tratto aveva tirato fuori, chissà a che pro, l’oggetto di Lamperù.

“Che cosa?” chiese il Coccodrillo.

“L’oggetto di Lamperù” Non aggiunse altro, perché - lo sapeva – lo Squalo non amava le spiegazioni non richieste.

Il Coccodrillo mugugnò qualcosa.

Allora l’attricetta proseguì: “E’ una cosa che hanno trovato a Lamperù, il bello è che nessuno sa cos’è però tutti la vogliono, hanno litigato e ci sono dei processi e anche un morto, credo. Sai è una cosa molto bella, una sfera magica grande così con delle luci gialle.”

“Massaggia, per favore”

“Sì. Dicevo che è una cosa molto misteriosa e si dice che l’ha messa lì il diavolo o i marziani”

Alla Giraffa cominciava a ronzare nella testa qualcosa di indistinto, ancora non sapeva dire cosa, ma era certo: qualcosa si preparava: sentiva il cuore che pompava il sangue su per il collo, gli occhi appannati, e le parole dell’attricetta gli arrivavano staccate e lontane, la Giraffa lo sentiva, un’idea, una grande idea stava per traversare lo spazio siderale per presentarsi a lui, nell’alcova segreta del suo appartamento, la sentiva adesso era già lì, nell’aria, doveva solo stare calmo, zitto e fermo come quando il gambero entra nel retino e zac!, torse il suo lungo collo e con un soffio leggero disse all’attricetta: “Massaggia con i piedi” e come sentì la pressione degli alluci sulla cervicale, calò le palpebre e vide la sua bella sfera ruotare nello spazio buio in mezzo alle stelle, e lui era lì a fare lo slalom tra i pianetini, pronto a stringerla tra le mani, ecco la stava già agguantando, era sua. In quel momento l’attricetta, che era anche mannequin per taglie forti, a tempo perso, arrestò gli alluci e il Coccodrillo si ritrovò bocconi sul letto senza sfera e senza idea, col culo della mannequin sulla schiena.

Grugnì di rabbia.

“C’è una zanzara” disse la mannequin alzando per aria il nasino alla francese. “Una zanzara di questa stagione, che mondo pazzo”

“Di chi è adesso?”

“Quella cosa? E chi lo sa? Alla fine hanno fatto una lotteria. Chi sa chi ce l’ha adesso”

La mannequin e lo Struzzo si trovarono viso a viso, alito contro alito, gli occhi tondi dello Struzzo contro gli occhi spalancati azzurri della soubrette, le mani della soubrette sulla pelle dello Struzzo. In un sibilo lieve come un bacio gli sussurrò nel buco dell’orecchio quello che aveva in testa: “Perché non la compri tu?”

Il Coccodrillo respirò. L’idea non era perduta, tornava docile ai suoi piedi, l’oggetto misterioso planava dallo spazio profondo, si stampava su tutte le t-shirt, gli chapeaux, le mutande, le camicie le giacche le palandrane e i tabarri delle sue collezioni. Sui calzini e sui fazzoletti. Sulle ceramiche gli smalti le carte igieniche le maioliche le piastrelle. Sui Bum-bidoni per il riciclaggio della spazzatura. Su tutto. E gli slogan, gli slogan gli venivano su come bollicine mentre i dentini della mannequin gli mordicchiavano i lobi. Unidentified flying object? Unidentified DRESSING Object.

Respirò ancora. Prese una decisione: “Domani andiamo.”

“Con la Multipla o la Cadillac?” chiese la mannequin, e con la lingua prese a ispezionargli il padiglione auricolare.

 

 

La Cadillac nera dello Squalo si fermò, in divieto di sosta, davanti al Municipio di una Lamperù deserta. Scese un uomo in abito grigio, percorse a passi frettolosi i pochi metri che lo separavano dall’ingresso, rimase a studiare a naso in su i cartelli appesi al muro. Entrò.

Tornò fuori ventitre minuti dopo. Aprì lo sportello e si sedé sul sedile anteriore della Cadillac.

“Hanno fatto una lotteria. Ce l’ha un tizio qui vicino” disse voltandosi verso il Coccodrillo. “Dicono di fare attenzione, c’è la guerra per quella cosa. Ora lo chiamo”. L’uomo in grigio, che era il segretario di Pecci Bum, e anche il consigliere, e spesso autista (questa volta però no, guidava la mannequin) uscì ancora dalla macchina perché il telefonino non prendeva, fece strani giri intorno con il display sotto il naso per trovare una buona zona di ricezione, finalmente portò il telefonino all’orecchio e parlò con il signor Tripodis. Poi tornò dentro e la Cadillac partì.

Lo Struzzo drizzava il collo, nervoso. “Quanto ci vorrà?”

“Qualche milione, è un brav’uomo”

“Mi raccomando: non facciamoci riconoscere”

La mannequin parcheggiò davanti a una palazzina in cemento. L’uomo in grigio scese. Da dietro i vetri oscurati tre coppie di occhi lo videro sparire dentro il portoncino d’ingresso. Gli stessi occhi si accorsero di altri occhi che spiavano dai buchi di una tapparella semichiusa.

“I Tripodis” disse la mannequin con il dito.

Sulla facciata rattoppata del palazzo si schiusero altre tapparelle. Dentro la Cadillac c’era un silenzio nervoso. Il fidato gorilla di Pecci Bum portò la mano sotto la giacca.  All’orologio di Pecci Bum erano passati trentacinque minuti, la strada era vuota, gli occhi dei tre non si staccavano dal portoncino a vetri dall’altra parte della via. Cominciò a cadere una pioggia sottile, faceva tic-tic sul tetto della Cadillac. Erano passati cinquantadue minuti quando il segretario-autista tornò. Gli occhi del Coccodrillo gli si piantarono addosso. L’uomo si abbandonò al sedile. “E’ un figlio di puttana” disse “Non lo molla”

“A quanto sei arrivato?”

L’uomo mostrò la mano aperta con tutte e cinque le dita distese: intendeva cinquanta milioni. Disse: “Ha paura a venderla. Dice che perderla porta iella, dice che quello che ce l’aveva prima è caduto dalle scale, è su una sedia a rotelle”

Il Coccodrillo sorrise, mostrò i denti aguzzi.

“Moltiplica per dieci, facciamola finita”

Lo disse spalancando appena le fauci, in una specie di sbadiglio.

L’uomo in grigio riattraversò la strada, con un braccio sulla testa per parare la pioggia. Il gorilla di Pecci Bum abbozzò un suo sorriso interiore. Era un ventriloquo del sorriso e del pianto: sorrideva e piangeva in silenzio solo con lo stomaco, così nessuno se ne accorgeva.

Questa volta i sei occhi videro ricomparire l’uomo in grigio dopo pochi minuti, aveva la faccia bianca bagnata non si poteva dire se di pioggia o di lacrime.

Aprì la portiera, sprofondò nel sedile, stette per pochi istanti immobile con la testa riversa e l’acqua che faceva macchia sulla pelle dello schienale. Lo scricchiolio dei denti del Coccodrillo lo convinse a parlare: “Vuole cinquemila”

“Cinquemila cosa?”

“Cinquemila milioni[3]

Il Coccodrillo stette immobile. Sbatté due volte le palpebre, poi disse: “Andiamocene”.

Un attimo dopo cambiò idea. “Voglio almeno vederla”, disse.

La Cadillac fece manovra nella strada stretta, strusciò le gomme contro il marciapiedi. L’uomo in grigio scese sotto la pioggia, la portiera fece un morbido tonfo. Saltellando tra le pozzanghere raggiunse ancora il citofono. I tre della macchina videro il portoncino richiudersi alle sue spalle. La pioggia picchiettava sul tettuccio.

Al portoncino del palazzo si presentò un uomo in ciabatte. Teneva le braccia tese in avanti, stringeva nelle mani la stessa sfera, un po’ più ammaccata, che Fabrizio aveva raccolto dal cassonetto dell’immondizia. Fissava l’enorme scarafaggio della Cadillac con gli occhi strizzati. Dietro i vetri scuri della Cadillac, il Coccodrillo teneva la lingua tra i denti: lo squadrò in silenzio, notò la camicia sbottonata e l’altra sfera del ventre, i piedi grossi nelle ciabatte e la barba trascurata. Sbatté di nuovo le palpebre, valutò la possibilità di un colpo di mano.

La mannequin e il gorilla invece stavano guardando alla finestra dei Tripodis, ora tutta spalancata, la faccia più pallida che mai dell’uomo in grigio. Anche gli occhi dell’uomo erano puntati su di loro, sembrava che li scongiurasse di far presto.

Il Coccodrillo tirò dentro la lingua, alla fine, il gorilla fece un segno all’esterno, stizzito, Tripodis, se era lui, terminò l’ostensione e poco dopo ricomparve l’uomo in grigio.

“Villani bastardi, quel cianfero non vale un soldo” gli scappò detto, mentre srotolava dai piedi le calze bagnate. Il motore della Cadillac frusciava sotto la pioggia, i denti del Coccodrillo facevano scriiiiic.

 

Dieci giorni dopo la Giraffa stava contemplando l’oggetto di Lamperù tra le sete della sua alcova. Guardava quella palla di latta e cercava di concentrarsi sulla sua grande abilità e di dimenticare la cifra piena di zeri che aveva sborsato. Quando ci pensava e rivedeva il buzzo dell’uomo con le ciabatte provava una specie di strizza al fegato.

“Massaggia”

Sentiva le fette della mannequin percorrergli i muscoli del collo, questo aiutava il sangue a compiere il lungo percorso per arrivargli al cervello, lo faceva sentire in forma. L’oggetto ignoto era lì, tondo, su un cuscinetto di velluto. Si ripeté che aveva fatto un grande colpo, aveva in camera l’oggetto più misterioso e inutile della terra, anche l’attricetta glielo stava ripetendo “Sei grande, Bummi”. Pecci Bum sentiva le parole incapsulate in quella vocetta da bambina, pensava a che incredibili corde vocali doveva avere, gli sarebbe piaciuto farci un giretto dentro, e intanto, forse la stanchezza, forse la dolcezza del massaggio, cominciò a sognare che la gente, tutta la gente del mondo, ma proprio tutti: gli aborigeni dell’Australia e gli eschimesi della Groenlandia, i russi gli americani i turchi tutte le razze di occhi a mandorla e tutte le possibili variazioni di negri con le narici larghe facevano la fila davanti ai Bum Magazines per una t-shirt o uno strangolino con l’oggetto non identificato.

L’attricetta si stupì nel vedere le narici della Giraffa gonfiarsi e sgonfiarsi ritmicamente. Incredibile ma stava dormendo. Con la punta delle unghie gli fece un tenero contropelo sul collo. Guardò anche lei l’oggetto sul piedistallo e ripeté a voce alta la battutaccia di un vecchio film: “Un giorno tutto questo sarà mio, Bummi.”



[1] Pan di Stelle è un marchio registrato del Mulino Bianco.

[2] Conteneva, tra l’altro, il più alto numero di occhiali di Elton John presenti in un’unica collezione.

[3] Siamo nel 2000, era pre-euro. Per un riferimento, con mille milioni di Lire, cioè un miliardo, si può comprare: un bilocale piccolo a Santa Margherita Ligure, oppure uno stinco senza carne di Zinedine Zidane oppure quattrocentomila barattoli di Pringles.

 

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