Il capitolo dei rapporti tra Dante e Averroè è uno dei
più discussi e complessi che la dantistica di ogni tempo si
sia trovata ad affrontare. Ibn - Rushd, conosciuto nel Medioevo latino
col nome di Averroè, fu uno dei massimi intellettuali mediterranei
del XII secolo (1126 - 1198). Vissuto nell'Andalusia degli Almohavidi,
oltre che filosofo fu anche medico, astronomo, e giurista di grandissimo
livello. Il problema del rapporto tra Dante e Averroè si complica
ulteriormente se teniamo conto, più in generale, del legame
esistente tra la filosofia del Sommo Poeta e le propaggini storiche
dell'averroismo che prendono piede nella cultura europea a partire
dalla seconda metà del XIII secolo. In particolare per quanto
concerne la scuola dei cosiddetti "averroisti latini", i
cui esponenti più noti furono Sigieri di Brabante e Boezio
di Dacia. Tuttavia, nel contesto di questa particolare occasione,
lo scopo del mio intervento sarà quello di mettere in evidenza
la grande distanza che separa Dante da Petrarca in merito alle rispettive
valutazioni della figura di Averroè. Il Theologus e il Laureatus,
come entrambi vengono rispettivamente identificati da Benozzo Gozzoli
nelle didascalie del celebre ciclo di affreschi di Montefalco, si
collocano su prospettive diametralmente opposte. All'apertura di Dante,
che in ogni passo della sua opera esalta il filosofo arabo dimostrando
altresì una completa padronanza dei principi dell'averroismo,
fa riscontro l'atteggiamento di chiusura e di livore manifestato da
Petrarca soprattutto in un'opera latina di carattere polemico in cui
egli delinea la sua concezione dell'intellettuale umanista: il trattato
Invective contra medicum.
Ma partiamo innanzi tutto da Dante, e da un
esempio piuttosto noto. Nel IV canto dell'Inferno, Dante scende nel
Limbo, il primo cerchio del regno di Lucifero. Qui incontra le anime
dei non battezzati, che non poterono salvarsi in quanto vissero prima
o fuori del cristianesimo, ma che per la nobiltà della loro
condotta nel corso dell'esistenza terrena furono comunque esenti da
peccati specifici. La loro pena consiste quindi nell'impossibilità
di vedere Dio, nell'impossibilità di realizzare quel desiderio
che è connaturato in ogni animale razionale. Il Limbo è
il medesimo cerchio da cui proviene Virgilio, la dimora di coloro
che son sospesi: una folla di spiriti costituita da bambini, donne,
"gente di molto valore", statisti, eroi dell'antichità
classica, e infine, in una condizione di tutto privilegio, poeti,
filosofi e scienziati. Per questi ultimi Dante immagina una dimora
a se stante, il nobile castello “sette volte cerchiato d'alte
mura” al cui interno risiedono coloro che egli celebra come
“spiriti magni”. Che tra costoro vi siano anche dei musulmani
è cosa che non trova nessuna giustificazione dal punto di vista
della teologia cristiana, come già ebbero a osservare i più
antichi commentatori. Basti pensare alla figura del Saladino, già
celebrato nel IV libro del Convivio come esempio di liberalità.
Nella parte conclusiva del canto, dopo aver onorato “il maestro
di color che sanno” insieme a Socrate e Platone, ai filosofi
tragici (quei pensatori che ancor oggi vengono malamente definiti
“presocratici”), e a poeti mitologici come Orfeo, Dante
mette in risalto un gruppo di scienziati/filosofi nella terzina costituita
dai vv. 142/144:
Euclide geometra e Tolomeo,
Ipocrate, Avicenna e Galieno,
Averois, che 'l gran comento feo.
Sono gli ultimi
nobili ingegni ricordati nel IV canto, come al termine di un climax.
Sei nomi disposti in un ordine di due più quattro: due matematici
e quattro medici/filosofi, nel segno di una salda continuità
ideale tra l'episteme greca e la scienza araba. Occorre anche notare
che Ippocrate, il fondatore della medicina occidentale, autore del
celebre giuramento in cui vengono fissati i principi deontologici
cui deve ispirarsi chiunque eserciti la professione, è affiancato
da Avicenna, quell'Ibn - Sina, autore del Canone che rimase il testo
fondamentale di medicina in tutte le università europee fino,
addirittura, al XVI secolo. La seconda coppia è costituita
invece dall'erede di Ippocrate, ossia Galeno, vissuto nel II d.C.,
che a sua volta è affiancato da Averroè, il continuatore
della medicina avicennista. La disposizione dei quattro segue una
precisa regola analogica (proporzionale): anche dal punto di vista
storico è indiscutibile che Ippocrate stia ad Avicenna come
Galeno ad Averroè. Tutti parte integrante di un'unica grande
cultura, filosofica nel senso ampio del termine, che sta al di qua
di quella distinzione tra discipline umanistiche e scientifiche alla
quale ancora oggi siamo abituati. E a questo proposito è necessario
sottolineare che mentre oggi ci stupiremmo di incontrare riferimenti
medici, anatomici o fisiologici, in un trattato di filosofia o di
epistemologia, il sistema intellettuale del Medioevo è articolato
in maniera tale che spesso è quasi impossibile distinguere
tra il medico e il filosofo. Le due più grandi università
di medicina del Medioevo, Montpellier e Salerno, furono anche grandi
scuole filosofiche. La prima fu anche un importantissimo centro di
traduzione di opere scientifiche e filosofiche. E nessuna delle due
sarebbe sorta senza il contributo decisivo degli arabi. In questo
senso la terzina del IV canto dell'Inferno testimonia, come sempre
in Dante, la lucidità di una percezione esatta anche sotto
il profilo strettamente storico. [...]
Se lasciamo le
pagine dantesche e ci volgiamo al Petrarca troviamo un panorama completamente
diverso: un atteggiamento di dura condanna nei confronti del "barbaro"
Averroè, accusato non solo di aver corrotto il significato
autentico delle dottrine aristoteliche, ma addirittura di non averne
correttamente inteso neppure il senso letterale. Anche se siamo a
poco più di vent'anni dalla morte di Dante, ci troviamo già
in un contesto storico mutato. Ma ci troviamo anche nell'ambito di
una visione unilateralmente umanistica del sapere che Dante non avrebbe
mai condiviso. In un suo studio recente, Cesare Vasoli ha analizzato
la polemica del Petrarca in rapporto alle istanze dell’umanesimo
nascente. Vasoli ricorda che l'intento dei primi umanisti è
quello di porre fine a una lunga età di corruzione e imbarbarimento
della cultura per favorire una nuova nascita che restituisca al mondo
degli uomini la sua perfezione originaria. Per far questo occorre
tornare ai grandi exempla della classicità. I bersagli contro
i quali si indirizzano gli strali del Petrarca sono i dialettici delle
scuole (scoti e britanni) e soprattutto quei teologi che hanno dimenticato
l'insegnamento degli Apostoli e dei Padri per accettare le dottrine
dei moderni, prendendo il "maledetto" Averroè come
loro unica guida (Cesare Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, p.
122 e sgg.). Ma il segnale di maggior distanza tra Dante e Petrarca,
lo possiamo cogliere tenendo conto del fatto che il Laureatus indirizza
contro la cultura medica alcune delle sue pagine polemiche più
astiose, proprio in considerazione del legame molto stretto che esisteva
ancora a quel tempo tra cultura medica e averroismo. Benché
Petrarca sia personalmente amico di professionisti come ad es. Giovanni
Dondi, Tommaso del Garbo, o Francesco da Siena, in una delle sue opere
latine meno frequentate, le Invective in medicum (1352 - 53), lancia
un attacco durissimo contro la medicina a lui contemporanea, rimproverando
ai suoi adepti di non essersi mantenuti nei limiti propri di un'arte
meccanica - perché tale era ancora considerata secondo la classificazione
risalente a Ugo di San Vittore cui Petrarca si attiene -, ma di essersi
proposti come portatori di una visione generale del mondo, trasformando
la medicina in una forma di sapere totalizzante. Con la deprecabile
conseguenza di confondere una disciplina subalterna, che ha come scopo
la guarigione dei corpi, con la regina delle scienze, la filosofia,
che ha come fine precipuo la guarigione delle anime. Secondo Petrarca
questa degenerazione è dovuta in larga misura all'influsso
nefasto di Averroè, materialista eretico che dev'essere respinto
in quanto “nemico di Cristo”. In una tarda senile del
1373 all'agostiniano Luigi Marsili (XV, 6), Averroè viene descritto
come “un cane rabbioso che agitato da un furore indicibile latra
contro Cristo e contro la fede cattolica”, ricordando al destinatario:
vera autem sapientia Christus est - dove è facile riconoscere
il riferimento al Christus unus Magister di Bonaventura da Bagnoregio,
particolarmente appropriato trattandosi di un'epistola indirizzata
ad un agostiniano. Ma l'antitesi tra Cristo e Averroè, ricorre
già in diversi passi delle Invective. Nel primo libro Petrarca
stigmatizza il disprezzo della poesia, propria ed altrui, manifestato
dal medico contro cui si volge la polemica, ed aggiunge: Cur autem
indigner audere te aliquid adversum me, cum adversus Cristum, si impune
licet, sis ausurus, cui Averroim, tacito licet iudicio, pretulisti?
(Invectivae in medicum, Liber primus, ed. critica a cura di A. Bufano,
Torino, Utet, p. 843). L'ottica all'interno della quale si muove Petrarca
è quella di un autentico scontro di civiltà: Cristo
contro Averroè, la tradizione latina occidentale di matrice
agostiniana contro l'aristotelismo della cultura greco - araba. Da
cui consegue il ripudio del sapere naturalistico e l'affermazione
di un soggettivismo introspettivo fedele a una versione assai riduttiva
del concetto agostiniano di verità in interiore homine. Occorre
altresì osservare che la stessa battaglia di Tommaso d'Aquino
contro Averroè non si colloca sul piano della contrapposizione
tra fedi diverse. Tommaso si era opposto all'averroismo in quanto
interpretazione razionalistica della filosofia di Aristotele destinata
a entrare in conflitto con qualsiasi religione monoteistica, anzi,
in conflitto con la stessa forma mentis della fede intesa come accettazione
di principi ricevuti immediate a Deo per revelationem. In altri termini,
Tommaso vede in Averroè l'interprete di un aristotelismo laico
che si oppone alla fede cristiana non più di quanto si opponga
all'ortodossia islamica. Il bersaglio polemico del tomismo non è
nemmeno tanto quella dottrina che si è voluto in malo modo
definire della “doppia verità”, quanto quel ghibellinismo
laico e spregiudicato di cui l'imperatore Federico II è stato
la massima incarnazione. Tutt'altra prospettiva, appunto, da quella
del Petrarca, che in un altro passo delle Invective scrive: hunc [scilicet:
Averroim] vos colitis, hunc amatis, hunc sectamini, non aliam ob causam
nisi quia Christum, veritatem vivam, adversamini et odistis. […]
At tu, miser, erroneus post idolum tuum confragosis anfractibus delectare,
venturus ad finem impietati debitum, ad quem tuus venit Averrois.
[…] O infelix! Vilem tibi metam, dialecticam, statuisti, […]
(Invective in medicum, cit. pp. 878 - 880). Petrarca conclude questa
sezione ribadendo che la filosofia non ha nulla a che fare con la
dialettica, arte del trivio subalterna e fuorviante coltivata da medici
ciarlatani incapaci di guarire alcunché. E citando il Didascalicon
di Ugo di San Vittore sentenzia che la filosofia correttamente (cioè
cristianamente) intesa è cogitatio mortis. La forte matrice
agostiniana che sta alla base del progetto umanistico del Laureatus
sortisce così un effetto paradossale: un atteggiamento antiscientifico
e retrivo che getta non poche ombre sul presunto scopritore della
“coscienza moderna” – mi riferisco all’interpretazione
del Petrarca esposta nell’omonimo saggio di Ugo Dotti. E se
volgiamo l’attenzione a un altro testo polemico, intitolato
De sui ipsius et multorum ignorantia (1367), il contrasto appare ancora
più stridente. Al sapere naturalistico degli aristotelici viene
contrapposto il soggettivismo introspettivo, accumulando rimandi ad
Agostino alternati ad altrettanti rimbrotti verso i seguaci di Averroè.
Dopo aver stigmatizzato gli errori più gravi imputabili ad
Aristotele, ossia la dottrina dell’eternità del mondo
e quella della “doppia verità”, Petrarca tesse
le lodi di quelli che a suo parere vanno considerati come veri filosofi:
Platone, Cicerone, Paolo e Agostino, coloro che hanno guidato l’umanità
alla conoscenza della più sicura e più felice delle
scienze, la fede. Inebriato da una sorta di furore mistico –
umanistico, il Laureatus si spinge fino al punto di sostenere che
essere aristotelici equivale ad essere anticristiani.
Voglio chiudere il mio intervento citando una nota di Ernst Cassirer
tratta dalla sua celebre opera “Individuo e cosmo nella filosofia
italiana del Rinascimento” (1935): “La ricerca petrarchesca
non è, come l’averroistica, cosmologica, ma è
orientata in senso puramente psicologico […] Si comprende da
ciò come il Petrarca, nella sua lotta contro l’averroismo,
ponga continuamente in rilievo la sua fede; come egli si possa sentire,
in questo, cristiano e ortodosso, egli che difende l’ingenuità
della fede contro le usurpazioni della ragione umana” (p. 206).
Si comprende anche di segno sia la svolta rispetto alla prospettiva
dantesca, capace di integrare cosmologia e interiorità in una
concezione unitaria ma polifonica al tempo stesso.