In un saggio pubblicato sul «Giornale critico della filosofia
italiana» nel 1924, Bruno Nardi indicava agli studiosi la necessità
di intraprendere «una più ampia ricerca intorno all'influsso
neoplatonico su tutto il pensiero filosofico di Dante», insistendo
altresì sull'opportunità di abbandonare il cliché
dominante che dipinge il Sommo Poeta come un aristotelico pedissequamente
allineato alle dottrine tomistiche. In tempi più recenti Zigmunt
Baransky, ricollegandosi agli studi di Bruno Nardi, Cesare Vasoli,
e Maria Corti, ribadiva che il carattere pluralista del pensiero dantesco
rifulge nella sua capacità di far coesistere all'interno di
un medesimo quadro speculativo tesi di autori che spesso erano stati
in guerra fra di loro. Tommaso d'Aquino assieme a Sigieri di Brabante,
Bonaventura da Bagnoregio con Gioacchino da Fiore, Alberto Magno con
Avicenna. Al termine del suo excursus Baransky arriva a sostenere
che «fare di Dante un neoplatonico piuttosto che un aristotelico
significa andare contro la linea dominante degli ultimi due secoli
di dantismo». Forse non è il caso di arrivare a un rovesciamento
di questo genere, commettendo un errore di unilateralità speculare
a quello da cui ci si vorrebbe emendare. Ma è anche vero che
tra i tanti pregiudizi storiografici che si sono addensati nel corso
del tempo attorno alla sua opera, quello di un Dante che segue in
tutto e per tutto la lezione dell'aristotelismo è forse il
più tenace e inossidabile. Il quarto canto del Paradiso ci
offre un dimostrazione tra le più splendide circa gli influssi
che il platonismo ha esercitato in Dante, e ci mostra anche come questo
influsso non contraddica affatto, bensì integri e completi,
quanto di Aristotele confluisce nella Commedia attraverso i più
disparati canali filosofici.
Terminato l'incontro con Piccarda Donati nel
cielo della luna, oggetto del canto precedente, Dante è assalito
da due dubbi di forza eguale, e non sa quale esporre prima a Beatrice.
Egli ha già attraversato la sfera della Luna dove ha incontrato
le prime anime beate. Questo significa che è vero il mito platonico
secondo cui ogni anima dopo la morte torna alla stella da cui era
discesa? Si tratta di ciò che Platone dichiara nel Timeo,
un principio in conflitto con la dottrina cristiana secondo cui le
anime sono create singolarmente da Dio e non preesistono in alcun
modo all'atto creativo. Nel concilio di Costantinopoli
del 540, undici anni dopo la chiusura delle scuole filosofiche
ateniesi voluta da Giustiniano nella sua lotta contro il paganesimo,
la tesi di Platone sarà ufficialmente condannata dalla Chiesa
come eretica. La tesi della preesistenza dell'anima al corpo era stata
assimilata da alcuni Padri come Origene, alla scuola di Alessandria,
e venne combattuta dai Cappadoci nel IV secolo, in particolare dal
grande Gregorio di Nissa. Il dibattito
teologico di questo periodo contribuirà a determinare il profilo
di quell'ortodossia dottrinaria che in seguito al concilio di Costantinopoli
giungerà fino a Tommaso d'Aquino.
Il secondo dubbio di Dante riguarda la sorte
assegnata dalla Provvidenza a queste anime, che stando a quanto Beatrice
aveva spiegato nel canto precedente sono «qui rilegate per manco
di voto» (Par. III, 30), collocate in questo cielo inferiore
per non essere state in grado di adempiere ai voti fatti in terra.
Ma vi è anche un motivo di carattere astrologico, stante il
vecchio adagio per cui «astra inclinant, non necessitant»:
durante la loro vita terrena questi spiriti sono andati soggetti all'influenza
del primo cielo, da cui hanno ricevuto una naturale inclinazione alla
volubilità. Piccarda fu figlia di Simone Donati e sorella di
Forese, l'amico di gioventù con cui Dante aveva scambiato parte
del vivace rimario all'epoca delle 'petrose'. Piccarda entrò
giovinetta nel monastero di Santa Chiara in Firenze. Il fratello Corso
Donati, capo della parte nera dei guelfi di Firenze, l'aveva tratta
a forza dal monastero per darla in sposa a Rossellino Della Tosa,
noto per essere stato uno dei più violenti e facoltosi seguaci
del partito dei Neri. L'episodio avvenne tra il 1283 e il 1293, ed
è ricordato dai più antichi commentatori della Commedia.
Nel caso di Piccarda, quindi, è accertato che il mancato adempimento
dei voti fu dovuto a un atto di costrizione, a una violenza da lei
subita, che quindi non può essere imputata a un difetto di
volontà. Perché allora la giustizia divina la colloca
qui in basso? E se le anime del primo cielo fruiscono di un grado
di beatitudine inferiore rispetto a quelle dei cieli superiori, non
si ammette implicitamente che esse subiscono una sorta di punizione?
Si tratta di un dubbio che riguarda da un lato il problema della giustizia
divina, dall'altro il problema del libero arbitrio. Beatrice viene
incontro a Dante togliendolo dal suo stato di incertezza e iniziando
col risolvere il dubbio più grave, quello che riguarda la vera
sede dei beati. Occorre premettere che il problema discusso in questo
luogo cruciale del poema assume una triplice valenza. È soprattutto
una questione teologica attinente al tema della giustizia divina,
apparentemente incommensurabile con il concetto umano della giustizia.
Più in generale è una questione che investe il dissidio
tra ragione e fede, tema centrale in tutto il Medioevo, che dal punto
di vista gnoseologico mette in gioco la domanda su come possa la mente
umana, finita e mortale, elevarsi alla contemplazione della verità
ultima. Contemplazione della verità e salvezza, nel cristianesimo,
coincidono. La salvezza consiste infatti in quella visio Dei facialis
che è oggetto della promessa escatologica, insegna San Paolo
nella prima lettera ai Corinzi (13, 12): «nunc
videmus per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem».
Il terzo aspetto del problema, infine, è quello, potremmo dire,
metaletterario, e concerne la costruzione del Paradiso dantesco, come
diario di bordo di un pellegrino che ha avuto il privilegio straordinario
di visitare il regno dei cieli prima di morire.
Occorre osservare che nella risposta
al primo quesito Beatrice cita espressamente il Timeo di
Platone, che per molto tempo fu l'unico suo testo conosciuto nel Medioevo
attraverso la traduzione parziale di Calcidio affiancata da un ampio
commento. Il Timeo entrerà anche a far parte del patrimonio
iconografico della grande pittura rinascimentale come il testo che
compendia in sé tutto il pensiero platonico. Pensiamo alla
Scuola di Atene di Raffaello (1509), ma anche al dipinto collocato
nella chiesa di santa Caterina a Pisa che raffigura Tommaso d'Aquino
tra Platone e Aristotele nell'atto di ricevere il Timeo dall'uno
e l'Etica Nicomachea dall'altro. Un'immagine che il De Wulf
considerava un emblema di tutto il pensiero medievale. La prima citazione
del dialogo la si trova nel Convivio III, v, 6, all'interno di un
ulteriore rimando al De Coelo aristotelico. Questa del IV canto è
la seconda e ultima ricorrenza presente in tutto il corpus dantesco.
È noto altresì che la lettura del Timeo si
diffuse a partire dal XII secolo per merito degli esponenti della
scuola di Chartres, uno dei centri intellettuali più vivaci
in questo periodo così ricco di fermenti innovativi. Autori
come Guglielmo di Conches, Teodorico
di Chartres, Bernardo Silvestre,
ma anche Alano di Lilla, che gli studi
di Ernst Robert Curtius hanno dimostrato essere punti di riferimento
obbligati per la comprensione della Commedia, diedero anche un importante
contributo al rinnovamento del genere letterario degli Exameron, proponendo
un raffronto sistematico tra il testo di Platone e il racconto biblico
dei sei giorni della creazione. Siamo nel periodo storico in cui l'Occidente
latino cominciava da poco a impadronirsi della fisica di Aristotele
grazie alle traduzioni dall'arabo redatte a Toledo proprio in quel
periodo cruciale, sul finire del XII secolo. A Chartres commentare
il racconto dei sei giorni della creazione secundum physicam significava
darne una spiegazione articolata sulla base del testo platonico, nel
tentativo di scorgere, al di là della lettera, un significato
scientifico e razionale. Nel Timeo Platone espone il mito dell'Artifex
mundi, l'essere divino che ha plasmato la materia primordiale traendola
dal caos per conferirle un ordine intelligibile. Per far ciò
egli ha tenuto presente dinanzi agli occhi il modello di perfezione
assoluta costituito dal mondo delle Idee, oggetto di quella stessa
visione intellettuale che la filosofia aspira a conseguire. Egli pertanto
si limitò a conferire ordine a un materiale eterno preesistente,
quasi come un vasaio aggiunge Platone, a differenza, quindi, del Dio
della tradizione monoteista che ha creato il mondo ex nihilo. Per
mantenere saldo l'ordine immanente alla materia, il Demiurgo conferì
inoltre al corpo del mondo un'anima diffusa ovunque. È il grande
tema pagano dell'anima del mondo che ritorna anche nel VI libro dell'Eneide,
in un passo che un autore come Macrobio,
il grande neoplatonico pagano di qualche decennio posteriore a Calcidio,
sarà tra i primi a interpretare come un segno della sapienza
filosofica di Virgilio. In questa visione pampsichistica di matrice
empedoclea, l'anima del mondo è la medesima da cui derivano
le singole anime di tutti gli esseri viventi, compresi animali e piante,
secondo gradi di perfezione decrescenti man mano che si procede dalle
forme superiori, dotate di ragione, alle inferiori che ne sono prive.
Le anime degli uomini, sostiene il Timeo, sono dotate di un 'carro
aereo', una sorta di veicolo cosmico costituito da un materiale leggerissimo
e luminoso che permette loro di attraversare le sfere celesti: «E
quando l'intera macchina dell'universo fu composta, il Demiurgo scelse
delle anime in numero uguale a quello delle stelle, e mise un anima
su ogni stella […] e a quelle che avessero dominato le loro
passioni sarebbe stata aperta la via del ritorno alla sede della loro
stella, e avrebbero vissuto da quel momento una vita giusta e felice».
È l'idea che a Dante viene in mente appena incontra le prime
anime nel cielo della Luna. Prima di nascere, secondo Platone, esse
risiedono negli astri. Al termine della loro vicenda terrena tornano
alla patria, chiamate da una nostalgia irriducibile. Quello che Dante
ha visto nel cielo della Luna incontrando Piccarda sembra confermare
la tesi di Platone che la Chiesa ha invece condannato come eretica.
Qual è allora la verità? Beatrice risponde che le anime
dei beati hanno la loro vera sede nell'Empireo, il cielo divino che
avvolge come un mantello di luce tutte le sfere celesti, e tuttavia
si mostrano a Dante distribuite nei diversi cieli per adeguarsi alle
capacità di comprensione del suo intelletto mortale. Quello
che Dante vede è quindi una sorta di illusione ottica necessaria
per consentirgli di salire di cielo in cielo fino alla visione del
volto di Dio, che avverrà al termine del viaggio per intercessione
della Vergine invocata da San Bernardo nel XXXIII canto. Difficile,
comunque, comprendere esattamente cosa voglia dire «essere nell'Empireo».
L'Empireo non è un luogo nel senso aristotelico, non è
una parte del cosmo, è non è un cielo al modo degli
altri cieli. Dante ha già discusso questo problema nel secondo
libro del Convivio. I cieli sono 'luoghi' in quanto sfere disposte
in ordine concentrico, ma l'Empireo è al di là delle
sfere, un luogo senza un 'dove' che le include e le trascende al tempo
stesso. Forse può essere assimilato all'iperuranio di Platone,
o forse ancora è un luogo interiore, la trascendenza delle
anime che fruiscono della visio Dei. Ricorda quel paradossale Nirgends
ohne Nicht di cui parla il grande poeta mistico novecentesco Rainer
Maria Rilke nelle Elegie Duinesi. Si tratta senz'altro di un concetto
che ci sospinge al limite del pensabile lasciandoci con questo paradosso:
i cieli sono dei 'luoghi', eppure sedi apparenti delle anime. L'Empireo
non è un «luogo», e tuttavia è la sede reale
delle anime.
Beatrice spiega
perché le anime si mostrino a Dante come se fossero distribuite
in cieli diversi. Si è detto che questo è un espediente
necessario per adeguarsi alla sua capacità di comprensione.
Dante infatti è ancora un uomo fatto di anima e corpo, tutto
ciò che egli comprende deve passare attraverso il filtro dei
suoi sensi, pur potenziati a livello di sensi spirituali, come è
stato illustrato nel primo canto. Noi sappiamo che l'intelletto umano
«solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d'intelletto
degno» (vv. 41-42). Per formare il concetto astratto la mente
umana ha bisogno di partire dalle immagini concrete offerte dagli
oggetti empirici singolari. L'immagine è sempre l'inizio della
conoscenza umana, in questa vita. Essa procede dal concreto all'astratto,
dal sensibile all'intelligibile, per sensibilia et phantasmata. I
versi 41-42 del canto traducono il celeberrimo teorema scolastico
«nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu».
Che l'esercizio della conoscenza sia una pratica che va dal sensibile
all'intelligibile grazie a un termine medio, il cosiddetto 'phantasma'
della immaginazione, è una concezione che sarà oggetto
di infinite variazioni nel Medioevo. La troviamo in Avicenna, in Alberto
Magno, in Bonaventura da Bagnoregio, in Sigieri di Brabante, Boezio
di Dacia, e infine anche in Tommaso d'Aquino. Al contrario di quanto
ancora si legge in molte chiose alla Commedia, quel teorema è
un topos, un locus communis che circola trasversalmente alle scuole
costituendo un elemento tra i più diffusi della koinè
filosofico-linguistica della scolastica, al di là di ogni divisione
tra platonici e aristotelici. L'immagine è il luogo in cui
l'Invisibile si rende visibile allo sguardo del mistico lungo un percorso
che solo una parola fratturata e balbuziente può registrare,
e soltanto un canto di lode ricordare nel dominio di un immaginario
sottratto alle misure del mondo sublunare. Quello che a noi ora interessa
rilevare, comunque, è il fatto che nel IV canto Dante trae
da questo presupposto epistemologico due conseguenze: la prima di
carattere esegetico, rinviante al problema dell'allegoresi dei testi
sacri; la seconda, strettamente connessa a questa prima, di carattere
costruttivo, afferente alla struttura narrativa del 'sacrato poema'.
Beatrice prosegue nella sua spiegazione: l'apparizione delle anime
nei diversi cieli è un processo analogo a quello per cui le
Sacre Scritture si adeguano alla capacità di comprensione della
mente umana, anche della più 'grossa', attribuendo mani e piedi
a Dio, per intendere altro da ciò che la lettera esprime. Aliud
dicitur aliud demonstratur, come suona la formula classica con
cui nel Medioevo si definiva l'allegoria. Anche le Scritture adottano
immagini concrete, corpulente a volte, per innalzare l'intelletto
umano alla conoscenza delle verità spirituali. Sant'Agostino
ci ha insegnato, già nel De doctrina christiana, che si deve
sempre ricorrere alla lettura allegorica dei testi sacri quando un
cieco assenso al significato letterale del testo porterebbe a trarre
conclusioni assurde sul piano della ragione e incompatibili con i
dettami della fede. La lettera uccide, lo spirito vivifica. Dante
quindi ci sta dicendo, attraverso Beatrice, che la struttura allegorica
del Paradiso è fatta a immagine e somiglianza della Sacra Scrittura.
Ma lo stesso criterio dev'essere esteso anche alla lettura di Platone,
come afferma Beatrice in modo sorprendente a corollario della sua
disquisizione. Quando nel Timeo egli scrive che dopo la morte
le anime tornano alla loro stella d'origine, «forse sua sentenza
è d'altra guisa / che la voce non suona, ed esser puote / con
intenzione da non esser derisa» (vv. 55-57). La credenza di
Platone non è del tutto fallace, e contiene un seme di verità.
Si tratta solo di interpretarla in senso allegorico. Il 'ritorno'
delle anime alle stelle non riguarderebbe il loro destino individuale,
bensì quell'insieme di influenze astrali che contribuiscono
a creare il 'profilo psicologico' del singolo, secondo una dottrina
condivisa dallo stesso Alberto Magno. Platone non voleva affermare
che le anime sono eterne e risiedono nei pianeti prima di incarnarsi,
ma ha adottato una veste mitica per esprimere quella dottrina degli
influssi celesti che era assai comune tra i pagani. Ecco quindi che
il testo di Platone, le Sacre Scritture, e la Commedia vengono a costituire
una costellazione di 'poemi' allegorici tali da configurare una sorta
di patrimonio universale comune all'umanità pagana e cristiana.
E questo è soltanto un suggerimento per studi che dovranno
essere oggetto di ulteriori approfondimenti.
L'operazione dantesca riconosce importanti precedenti. Guglielmo
di Conches, uno dei maestri della scuola di Chartres del XII
secolo, aveva già studiato il problema dell'allegoria nei testi
platonici elaborando le nozioni di involucrum e integumentum. In un
passo delle sue Glosae al Timeo leggiamo: «se uno riesce a comprendere
non solo le parole, ma il significato delle affermazioni di Platone,
non soltanto non vi troverà dottrine eretiche, ma vi scoprirà
una profondissima filosofia, nascosta sotto il velo delle parole (integumentis
verborum tectam)». Al solito, non siamo sicuri del fatto che
Dante abbia letto Guglielmo, ma quanto Beatrice afferma in questo
canto corrisponde esattamente al senso delle tesi formulate dal grande
platonico di Chartres. Nelle sue opere principali, Philosophia mundi
e Dragmaticon philosophiae, egli torna spesso ad analizzare i possibili
significati allegorici degli insegnamenti platonici espressi sotto
il velame dei miti, così come sotto il velame 'delli versi
strani' sono espressi i concetti della Commedia. Nella cultura classica,
del resto, il mito ha avuto lo stesso ruolo che l'allegoria ha per
i medievali. Ma un altro precedente su cui vorrei portare l'attenzione
si ritrova in Pietro Abelardo, il dialettico
del XII secolo che leggeva in Platone addirittura delle prefigurazioni
del dogma trinitario avvolte nell'involucro del mito. Abelardo sosteneva
che la filosofia evita di esporre i propri arcana in parole esplicite,
nudis verbis, e si è sempre riservata il diritto di parlare
per fabulosa involucra. A proposito del Timeo Abelardo sostenne che
l'anima del mondo, intesa dai platonici come un'entità intermediaria
tra intelligibile e sensibile, andasse interpretata allegoricamente
e letta come una prefigurazione dello Spirito Santo. Come Guglielmo
di Conches, anche Abelardo negava che la dottrina della preesistenza
delle anime nel Timeo dovesse essere intesa alla lettera.
L'aspetto che emerge con forza nel IV canto, è l'idea per cui
sia le Scritture sia i testi platonici, al di là delle distinzione
tra allegoria dei poeti e dei teologi che veniva proposta nel Convivio,
ci impegnano in una analogo sforzo di lettura allegorica, necessario
per sfuggire alle insidie dell'eresia. Dante non teme di dichiarare
espressamente per mezzo di Beatrice che le difficoltà presenti
nel Timeo in relazione alla dottrina delle anime sono le medesime
che incontreremmo in molti passi biblici, qualora volessimo prendere
alla lettera le diffuse rappresentazioni antropomorfiche che gli agiografi
hanno profuso nel descrivere la natura divina. Ma c'è un altro
elemento da tenere in considerazione. Attraverso la risposta di Beatrice
ai dubbi di Dante agens, Dante Auctor ci mette a conoscenza del fatto
che l'architettura allegorica del Paradiso, dove le anime si presentano
ripartite nei diversi cieli pur avendo la loro sede effettiva nell'Empireo,
è un retaggio del Timeo. L'insieme dei dispositivi retorico
- allegorici che mettono in relazione i gradi di beatitudine, i meriti
delle singole anime, le loro caratteristiche psicologiche in vita,
e le sfere celesti con le influenze che esse esercitano nel mondo
sublunare, è quindi il risultato di una complessa costruzione
filosofico - letteraria che trae origine proprio dalla grande opera
cosmologica di Platone che tanta influenza ebbe sulla scuola di Chartres
e che fa parte di un complesso dottrinale precedente l'ingresso di
Aristotele nell'Occidente latino. Ecco quindi che la dissertazione
dottrinale di Beatrice si risolve in un appello metanarrativo al lettore
offrendogli una chiave di lettura e insistendo ancora una volta sulla
necessità dell'allegoria.
Dopo questo grande tributo reso a Platone, Dante si volge ad Aristotele
per rendergli omaggio nella risposta al secondo dubbio che lo tormentava
al termine dell'incontro con Piccarda. La risposta alla seconda questione
è fondata sui concetti filosofici sviluppati nel terzo libro
dell'Ethica Nicomachea. La giustizia divina può essere difficilmente
riconoscibile agli occhi dei mortali, del resto gli abissi della Mente
Infinita sono insondabili anche per il più ardente dei serafini.
Tuttavia, prosegue Beatrice, riguardo al problema del minor grado
di beatitudine concesso alle anime che hanno ceduto alla violenza
venendo meno ai voti, l'umano «accorgimento» può
penetrare la verità. Si ha vera violenza soltanto quando chi
la patisce non dà alcun contributo all'azione di chi la compie.
Queste anime non possono ritenersi giustificate in nome di una violenza
siffatta, perché in qualche modo assecondarono l'opera dei
malvagi, non avendo il coraggio di tornare al chiostro da cui erano
state rapite. La violenza è quindi un fatto esteriore che di
per sé non tocca la volontà libera: la volontà
può essere piegata solo quando è l'individuo stesso
a permetterlo per mancanza di fermezza. In questo, Dante sottoscrive
la convinzione di Aristotele dimostrandone la totale compatibilità
con la dottrina cristiana del libero arbitrio. In maniera del tutto
conseguente, Dante passa quindi in rassegna alcuni esempi di virtù
scelti dalla tradizione dei martiri cristiani, come san Lorenzo, accostandoli
ai grandi pagani tramandati da Livio, quali Muzio Scevola e Attilio
Regolo. Piccarda Donati e Costanza d'Altavilla non ebbero invece un
«volere intero», ed è per questo motivo che la
giustizia divina le ha relegate nel cielo della luna «per manco
di voto».
Come ha sottolineato Peter Dronke nella sua importante monografia
sulle fonti latine del pensiero dantesco, esiste un legame stretto
tra le due obiezioni discusse nel canto: entrambe riguardano il problema
della libertà e del determinismo. Se il mito platonico del
ritorno delle anime è funzionale alla discussione del problema
a livello del macrocosmo, l'analisi di Aristotele intorno alla volontà
umana sposta l'attenzione sul piano del microcosmo. Ecco ripresentarsi
uniti «il nostro Platone» e «il mio Aristotele»,
secondo le formule che Boezio fissava nella Philosophiae Consolatio,
realizzando un progetto concordistico che Dante ebbe modo di meditare
lungo tutto il suo itinerario intellettuale.
Vi è un ultimo punto da segnalare, che riguarda la sezione
conclusiva del canto. Per Dante «fede è sostanza di cose
sperate / e argomento de le non parventi» (Par. XXIV vv. 34-65)
così egli affermerà nel corso del suo esame sulle tre
virtù teologali quando sarà al cospetto di San Pietro,
nel cielo delle stelle fisse. Questa formula, come noto, è
una palese traduzione di San Paolo (Lettera agli Ebrei 11, 1). Tuttavia
ciò non vuol dire affatto che la fede sia coscienza pacificata,
accettazione passiva del dogma, indottrinamento. Come tutto il Paradiso
dimostra, e in particolare la chiusa del IV canto, la fede in Dante
non è mai disgiunta dal dubbio, dal desiderio e dal continuo
interrogare. La fede si alimenta dello stesso desiderio di conoscenza
che è connaturato nell'uomo, come si legge nelle prime righe
del Convivio in ripresa dell'ideale aristotelico, ma anche platonico.
L'intelletto umano è insaziabile, e può trovare pace
al tormento divorante che lo agita solo quando arriva a riposare nel
seno di quella Luce al di fuori della quale non può darsi altra
verità. Sotto i versi conclusivi del IV canto pulsa il ricordo
di quell'inquietudine descritta da Sant'Agostino nelle Confessioni:
«inquietum cor nostrum donec requiescat in te». Il canto
si congeda dal lettore con una nuova domanda, a cui Beatrice darà
risposta nel successivo. Dante chiede se l'uomo possa compensare dinanzi
a Dio i voti non adempiuti commutandone l'oggetto con altre opere
meritorie. Beatrice risponderà in maniera negativa: ciò
che Dio apprezza maggiormente è il libero arbitrio di cui furono
dotate tutte le creature intelligenti, angeli e uomini, all'atto della
loro creazione. Se l'uomo ha rinunciato all'esercizio del suo libero
arbitrio non c'è modo di compensarlo altrimenti, benché
la Chiesa in materia di voti possa concedere delle dispense. Anche
in questo continuo rilancio della domanda, che nasce da quell'autentico
desiderio di conoscenza che fa dell'uomo l'essere creato 'a immagine
e somiglianza' del Padre, si rintraccia un elemento platonico troppo
spesso trascurato dalla critica. Ciò che fa della Commedia
un'opera profondamente permeata dallo spirito platonico è il
suo carattere di dialogo itinerante, che fonde insieme l'esigenza
razionale e la dottrina teologica con una forza di sintesi che nella
storia della poesia occidentale non conosce termini di paragone.