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Più
volte è stato detto che l’allegoria può essere considerata
l’emblema dell’epoca Medioevale, non solo per il profondo
influsso esercitato in teologia dalla mentalità allegorizzante
dei primissimi Padri della Chiesa – Filone e Origene in particolare
– ma anche per il carattere sistematico con cui il pensiero allegorico
è stato applicato ai più disparati campi del sapere, prima
dell’affermazione della mentalità scientifica nel mondo
occidentale. Il Medioevo, quest’epoca multiforme, di assai lunga
durata e dai confini temporali, quindi, difficili da delimitare, è
permeato dalla convinzione che il creato sia come un immenso libro scritto
a digito Dei, nella celebre formula di Riccardo
da San Vittore. Ogni fenomeno di questo mondo richiede di essere
interpretato come segno di una realtà che lo trascende, e la
totalità della natura è ontologicamente costituita come
una rete di allegorie. L'indubbia verità di queste affermazioni,
non riesce tuttavia ad esaurire la ricchezza di prospettive attraverso
cui l’uomo medievale guarda all’esistenza. Accanto alla
prospettiva allegorica occorre affiancare la dimensione anagogica, che
se non riveste un’importanza superiore alla prima ne costituisce
per lo meno un indispensabile fattore complementare
La
nozione di “anagogia” viene volgarizzata in età medievale
con il celebre distico oggi attribuito ad Agostino
di Dacia (precedentemente considerato opera di Nicholas
de Lyra):
Littera gesta docet, quid credas allegoria
Moralis quid agas quo tendas anagogia.
Consideriamo innanzi tutto l’etimologia del termine.
Anagogia
deriva dal greco "anagoghé", parola composta da "ana"
(che significa "sopra", "in alto") e dal verbo "agein"
("condurre"). La parola anagogia non è una traduzione,
bensì una traslitterazione modellata sulla desinenza in –ia
che si trova negli altri sensi (historia, tropologia, allegoria). La
traduzione latina più appropriata del greco anagogh è
l’espressione sursumductio, rinvenibile in autori come Isidoro
di Siviglia, Beda il Venerabile o
Rabano Mauro. Ogniqualvolta ci troviamo
di fronte alla descrizione dei quattro sensi delle scritture, l’anagogia
occupa sempre l’ultimo posto. C’è una profonda ragione
di ordine strutturale e qualitativo che determina tale assegnazione.
L’anagogia costituisce l’ultimo dei quattro sensi delle
scritture in quanto loro “telos”, ovvero causa finale nell’accezione
aristotelica. L’anagogia appartiene allo strato di senso più
profondo in quanto riassume e compendia in sé la verità
ultima che i tre sensi – letterale, allegorico, e tropologico
– adombrano come in figura. Possiamo trovare una conferma di ciò
proprio attraverso la lettura del testo dantesco.
Nella celebre
rassegna dei quattro sensi delle scritture esposta nel secondo libro
del Convivio Dante chiama l’anagogia “sovrasenso”
per sottolineare il significato spirituale profondo che contraddistingue
questo livello di lettura del testo sacro, significato che ci permette
di salire alle più elevate verità di fede illuminandoci
altresì sulle cose future, in una prospettiva escatologica concernente
la salvezza dell’anima.
Lo quarto
senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è
quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera]
eziandio nel senso letterale, per le cose significate significa de le
superne cose de l’etternal gloria: si come vedere si può
in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo
d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e libera.
Che avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è
vero quello che spiritualmente s’intende, cioè che ne l’uscita
de l’anima dal peccato essa sia fatta santa e libera in sua protestate.
E in dimostrar questo sempre lo litterale dee andare innanzi sì
come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale
sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente
a lo allegorico.
(Convivio II, i,
6 – 8)
L’autore
della Epistola XIII su questo punto si esprime in termini sostanzialmente
analoghi: il senso anagogico è quello che considera exitus
anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem
(Epistola XIII, 21).
Il senso anagogico, strettamente correlato alla virtù teologale
della speranza, indirizza l’anima alla comprensione dei significati
concernenti la salvezza dell’anima individuale – nella dimensione
della cosiddetta escatologia intermedia – e la salvezza futura
dell’umanità intera nella Gloria dell’ultimo giorno.
Nell’anagogia si rivela pertanto il significato del transito dalla
miseria terrena alla condizione futura verso la quale tende ogni credente
animato dalla fede in Cristo. È la medesima accezione che il
distico di Agostino di Dacia compendia in un solo emistichio (quo
tendas anagogia). Tra i quattro, l’anagogico è il
senso mistico per eccellenza.
Henri De
Lubac nella sua fondamentale Exégèse Médièvale
fa osservare che tra gli autori che hanno maggiormente sottolineato
l’importanza del senso anagogico bisogna annoverare in primo luogo
lo Pseudo – Dionigi Areopagita, un
nome che ha un peso considerevole in tutta la filosofia dantesca, dalle
riflessioni del Convivio fino all’angelologia della terza
cantica. Nel Medioevo egli veniva identificato con quel Dionigi, giudice
dell’Areopago ateniese, che fu convertito al cristianesimo dalla
predicazione di San Paolo, secondo quanto attestano gli Atti degli apostoli;
in realtà si tratta di un teologo siriano vissuto attorno al
V secolo e imbevuto del neoplatonismo di Proclo.
Dionigi affronta il tema dell’anagogia soprattutto nel De
coelesti hierarchia, il trattato che sta alla base della concezione
dantesca delle gerarchie angeliche esposta nel canto XXVIII del Paradiso.
Ricordiamo altresì che nel X del Paradiso Dionigi è
collocato nell’ambito della “quarta famiglia”, ovvero
tra i beati del cielo del Sole descritti da Tommaso
d’Aquino (“appresso vedi il lume di quel cero/ che
giù, in carne, più a dentro vide/ l’angelica natura
e’l ministero”, versi 115 – 117). È proprio
nel De coelesti hierarchia che Dionigi espone diffusamente
la dottrina del senso anagogico e simbolico delle Scritture, mostrando
quasi di intendere i termini “simbolo” e “anagogia”
come sinonimi.
Nel primo capitolo egli dichiara che attraverso l’illuminazione
di Cristo ognuno di noi diventa capace di fissare lo sguardo alle gerarchie
delle intelligenze celesti secondo quanto ci manifesta la scrittura
“simbolicamente e anagogicamente”. Nel secondo capitolo
l’autore spiega il nesso che lega il senso anagogico della scrittura
alla dimensione speculativa propria della teologia apofatica, la teologia
altrimenti detta “negativa” in quanto non presume di poter
affermare alcunché di semanticamente positivo riguardo all’Ineffabile
Divinità trascendente. Dionigi dichiara, da un lato, che “il
metodo di descrivere per mezzo di cose dissimili le realtà invisibili
è quello più appropriato”. Nella Bibbia noi troviamo
espressioni che si adattano a celebrare la Divinità (il sole,
la luce, la stella del mattino). Altre volte troviamo delle immagini
di Dio tratte dalle realtà più basse, come quando Egli
ci viene descritto come leopardo, come pantera, come orsa inferocita
o addirittura come verme (nel Salmo 22, 7: “io sono un
verme e non un uomo”, passo comunemente interpretato in riferimento
a Gesù sofferente). Attraverso l’oscuro simbolismo di queste
“similitudini dissimili”, le Scritture ci abituano a salire
dalle cose visibili alle altezze sovramondane, iniziandoci così
alla contemplazione dei più riposti arcana Dei. La teologia apofatica
insegna che tutte le volte che attribuiamo al Creatore un qualsiasi
predicato desunto dalla natura delle cose create, corriamo il rischio
dell’idolatria. In questo modo, Dionigi traccia una netta linea
di demarcazione tra similitudine allegorica e simbolo anagogico. Le
similitudini propriamente dette sono “allegorie” in quanto
fondate sul principio della proporzionalità e della convenientia
tra significante e significato; l’allegoria consiste in una sequenza
di metafore dove il segno posto in figura è perfettamente commisurato
alla realtà di cui è segno, giusto l’insegnamento
di Aristotele secondo cui ogni metafora è costruita sulla base
di una “analogia” – ovvero di un rapporto di proporzione
tra il concetto espresso dal significante e la realtà del significato
latente. Per contro, l’anagogia sembra rinviare al dominio del
difforme e del “mostruoso”, del non proporzionale, del “sublime”
– nell’accezione dello Pseudo – Longino. L’ammaestramento
che ci viene impartito dalle Scritture attraverso i sovrasensi anagogici
consiste proprio nell’abisso che si viene a spalancare tra i segni
e i significati soprasensibili cui essi rinviano. I segni di cui disponiamo
per significare l’Invisibile resteranno sempre disperatamente
insufficienti nei confronti di quella Realtà ultima che si sottrae
ad ogni significazione, in quanto inoggettivabile e irriducibile alla
presa del logos semantikos. Il senso anagogico delimita la
soglia che separa linguaggio e silenzio, al confine tra l’intenzione
di significato del nostro sermo e l’insondabile profondità
dei silentia Dei. L’insieme di queste considerazioni ci permette
di gettare luce anche sul perché il senso anagogico venga sempre
per “ultimo”, e sia considerato tale secondo il suo concetto,
non sulla base di una convenienza di ordine retorico. Da questo punto
di vista, se la dimensione allegorica si inquadra nella concezione aristotelica
del segno, l’anagogia corrisponde a un tratto tipico del neoplatonismo,
l’apofatismo della Patrologia orientale di cui lo Pseudo –
Dionigi costituisce l’esponente di maggior rilievo.
Per dirla
in una formula: l’allegoria sta all’anagogia come Aristotele
sta a Platone.
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Se
il linguaggio allegorico parla all’immaginazione, assumendo in
tal modo una evidente funzione didascalica che nell’economia della
Commedia si compendia nella figura di Virgilio, il linguaggio dell’anagogia
parla invece all’intelletto ormai affrancato dai lacci dell’immaginazione.
Pensiamo, ad esempio, al rimprovero che Beatrice rivolge a Dante nel
primo canto del Paradiso allorché egli si interroga sulle ragioni
della “novità del sono” prodotto dal moto delle sfere
celesti e del “grande lume” da cui è abbagliato all’improvviso.
L’amorosa guida del pellegrino comincia: “Tu stesso ti fai
grosso/ col falso imaginar, sì che non vedi/ ciò che vedresti
se l’avessi scosso” (versi 88 – 90). L’intero
itinerario gnoseologico di Dante in Paradiso è scandito da un
continuo affrancarsi della mente dalle false immagini che ancora le
impediscono di riverberare, come in uno specchio, il fulgore della Luce
divina, rispetto alla quale Beatrice assume la funzione di intercessore
supremo. Quelle immagini, che nel linguaggio tecnico della tradizione
aristotelica vengono chiamate “fantasmi” sono un ostacolo
che rende la mente “grossa” e tarda. E allo stesso modo
per cui Beatrice deve subentrare a Virgilio, nel guidare il pellegrino
verso le ultime stazioni del viaggio escatologico per le quali sono
richiesti ausili che la ragione naturale umana non può offrire,
analogamente il linguaggio immaginifico dell’allegoria deve lasciare
il passo al nuovo registro della parola anagogica. Alla luce di queste
considerazioni possiamo comprendere ancor meglio le dichiarazioni di
Virgilio in Purgatorio XXVII quando annuncia: “Il temporal
foco e l’etterno/ veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte/
dov’io per me più oltre non discerno” (versi 127
– 129).
Virgilio sta a Beatrice come l’intelletto affiancato dagli ausili
dell’immaginazione – secondo la concezione aristotelica
compendiata dalla gnoseologia di Tommaso d’Aquino – sta
all’intelletto affrancato dalle immagini che essa gli offre: quei
fantasmi che sono sì necessari per estrinsecare le procedure
valide per la conoscenza dei due regni “inferiori”, Inferno
e Purgatorio (costruiti a misura del mondo sublunare), ma che ormai
diventano solo degli ingombri quando si tratta di disporre l’intelletto
all’illuminazione divina concernente le realtà mistiche
del Paradiso. Il transito da Virgilio a Beatrice, dal viaggio attraverso
il temporal foco e l’etterno alla “festa di Paradiso”
della Gerusalemme ultraterrena corrisponde puntualmente al passaggio
dal registro allegorico (aristotelico) delle prime due cantiche al registro
anagogico (platonico) della terza. Non crediamo affatto di esagerare
affermando che questa chiave di lettura, qui soltanto abbozzata, può
essere foriera di sviluppi esegetici inattesi. Si è spesso osservato
che Dante non parla mai esplicitamente, in maniera tematica, della natura
specifica dell’anagogia. Questo è vero, com’è
vero del resto che nel Paradiso l’anagogia diventa pratica di
scrittura. È nell’ultima cantica che il linguaggio poetico
si spinge verso i limiti estremi, attraverso complessi e vertiginosi
intrecci di “similitudini dissimili”, attraverso continue
denunce – i famosi “appelli al lettore” – del
carattere disperatamente inadeguato dei segni con cui noi tentiamo l’impossibile
impresa di rappresentare l’Irrappresentabile, di dire l’Indicibile.
L’umbratile traccia di ciò che in questa vita e in questo
linguaggio possiamo afferrare soltanto per speculum in aenigmate è
nulla rispetto alla visione facie ad faciem che conseguiremo nella vita
futura (Prima lettera ai Corinzi 13, 12). Perché se il Cristianesimo
è compimento, nel mistero dell’Incarnazione del Figlio,
esso rimane anche e soprattutto promessa che edifica la speranza della
Gloria futura: le superne cose de l’etternal gloria evocate nel
passo del Convivio precedentemente citato.
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