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  1.3 Allegoria e anagogia in Dante
estratto della relazione tenuta al Convegno DANTE E L'ALLEGORIA - tavola rotonda tra filosofi e dantisti, a cura del Centro Lungianese di Studi Danteschi
21 febbraio 2004 Monastero del Corvo Ameglia (SP)
 
 

Più volte è stato detto che l’allegoria può essere considerata l’emblema dell’epoca Medioevale, non solo per il profondo influsso esercitato in teologia dalla mentalità allegorizzante dei primissimi Padri della Chiesa – Filone e Origene in particolare – ma anche per il carattere sistematico con cui il pensiero allegorico è stato applicato ai più disparati campi del sapere, prima dell’affermazione della mentalità scientifica nel mondo occidentale. Il Medioevo, quest’epoca multiforme, di assai lunga durata e dai confini temporali, quindi, difficili da delimitare, è permeato dalla convinzione che il creato sia come un immenso libro scritto a digito Dei, nella celebre formula di Riccardo da San Vittore. Ogni fenomeno di questo mondo richiede di essere interpretato come segno di una realtà che lo trascende, e la totalità della natura è ontologicamente costituita come una rete di allegorie. L'indubbia verità di queste affermazioni, non riesce tuttavia ad esaurire la ricchezza di prospettive attraverso cui l’uomo medievale guarda all’esistenza. Accanto alla prospettiva allegorica occorre affiancare la dimensione anagogica, che se non riveste un’importanza superiore alla prima ne costituisce per lo meno un indispensabile fattore complementare

La nozione di “anagogia” viene volgarizzata in età medievale con il celebre distico oggi attribuito ad Agostino di Dacia (precedentemente considerato opera di Nicholas de Lyra):

Littera gesta docet, quid credas allegoria
Moralis quid agas quo tendas anagogia.


Consideriamo innanzi tutto l’etimologia del termine.

Anagogia deriva dal greco "anagoghé", parola composta da "ana" (che significa "sopra", "in alto") e dal verbo "agein" ("condurre"). La parola anagogia non è una traduzione, bensì una traslitterazione modellata sulla desinenza in –ia che si trova negli altri sensi (historia, tropologia, allegoria). La traduzione latina più appropriata del greco anagogh è l’espressione sursumductio, rinvenibile in autori come Isidoro di Siviglia, Beda il Venerabile o Rabano Mauro. Ogniqualvolta ci troviamo di fronte alla descrizione dei quattro sensi delle scritture, l’anagogia occupa sempre l’ultimo posto. C’è una profonda ragione di ordine strutturale e qualitativo che determina tale assegnazione. L’anagogia costituisce l’ultimo dei quattro sensi delle scritture in quanto loro “telos”, ovvero causa finale nell’accezione aristotelica. L’anagogia appartiene allo strato di senso più profondo in quanto riassume e compendia in sé la verità ultima che i tre sensi – letterale, allegorico, e tropologico – adombrano come in figura. Possiamo trovare una conferma di ciò proprio attraverso la lettura del testo dantesco.

Nella celebre rassegna dei quattro sensi delle scritture esposta nel secondo libro del Convivio Dante chiama l’anagogia “sovrasenso” per sottolineare il significato spirituale profondo che contraddistingue questo livello di lettura del testo sacro, significato che ci permette di salire alle più elevate verità di fede illuminandoci altresì sulle cose future, in una prospettiva escatologica concernente la salvezza dell’anima.

Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso letterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria: si come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Che avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s’intende, cioè che ne l’uscita de l’anima dal peccato essa sia fatta santa e libera in sua protestate. E in dimostrar questo sempre lo litterale dee andare innanzi sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico.

(Convivio II, i, 6 – 8)

L’autore della Epistola XIII su questo punto si esprime in termini sostanzialmente analoghi: il senso anagogico è quello che considera exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem (Epistola XIII, 21).
Il senso anagogico, strettamente correlato alla virtù teologale della speranza, indirizza l’anima alla comprensione dei significati concernenti la salvezza dell’anima individuale – nella dimensione della cosiddetta escatologia intermedia – e la salvezza futura dell’umanità intera nella Gloria dell’ultimo giorno. Nell’anagogia si rivela pertanto il significato del transito dalla miseria terrena alla condizione futura verso la quale tende ogni credente animato dalla fede in Cristo. È la medesima accezione che il distico di Agostino di Dacia compendia in un solo emistichio (quo tendas anagogia). Tra i quattro, l’anagogico è il senso mistico per eccellenza.

Henri De Lubac nella sua fondamentale Exégèse Médièvale fa osservare che tra gli autori che hanno maggiormente sottolineato l’importanza del senso anagogico bisogna annoverare in primo luogo lo Pseudo – Dionigi Areopagita, un nome che ha un peso considerevole in tutta la filosofia dantesca, dalle riflessioni del Convivio fino all’angelologia della terza cantica. Nel Medioevo egli veniva identificato con quel Dionigi, giudice dell’Areopago ateniese, che fu convertito al cristianesimo dalla predicazione di San Paolo, secondo quanto attestano gli Atti degli apostoli; in realtà si tratta di un teologo siriano vissuto attorno al V secolo e imbevuto del neoplatonismo di Proclo. Dionigi affronta il tema dell’anagogia soprattutto nel De coelesti hierarchia, il trattato che sta alla base della concezione dantesca delle gerarchie angeliche esposta nel canto XXVIII del Paradiso. Ricordiamo altresì che nel X del Paradiso Dionigi è collocato nell’ambito della “quarta famiglia”, ovvero tra i beati del cielo del Sole descritti da Tommaso d’Aquino (“appresso vedi il lume di quel cero/ che giù, in carne, più a dentro vide/ l’angelica natura e’l ministero”, versi 115 – 117). È proprio nel De coelesti hierarchia che Dionigi espone diffusamente la dottrina del senso anagogico e simbolico delle Scritture, mostrando quasi di intendere i termini “simbolo” e “anagogia” come sinonimi.

Nel primo capitolo egli dichiara che attraverso l’illuminazione di Cristo ognuno di noi diventa capace di fissare lo sguardo alle gerarchie delle intelligenze celesti secondo quanto ci manifesta la scrittura “simbolicamente e anagogicamente”. Nel secondo capitolo l’autore spiega il nesso che lega il senso anagogico della scrittura alla dimensione speculativa propria della teologia apofatica, la teologia altrimenti detta “negativa” in quanto non presume di poter affermare alcunché di semanticamente positivo riguardo all’Ineffabile Divinità trascendente. Dionigi dichiara, da un lato, che “il metodo di descrivere per mezzo di cose dissimili le realtà invisibili è quello più appropriato”. Nella Bibbia noi troviamo espressioni che si adattano a celebrare la Divinità (il sole, la luce, la stella del mattino). Altre volte troviamo delle immagini di Dio tratte dalle realtà più basse, come quando Egli ci viene descritto come leopardo, come pantera, come orsa inferocita o addirittura come verme (nel Salmo 22, 7: “io sono un verme e non un uomo”, passo comunemente interpretato in riferimento a Gesù sofferente). Attraverso l’oscuro simbolismo di queste “similitudini dissimili”, le Scritture ci abituano a salire dalle cose visibili alle altezze sovramondane, iniziandoci così alla contemplazione dei più riposti arcana Dei. La teologia apofatica insegna che tutte le volte che attribuiamo al Creatore un qualsiasi predicato desunto dalla natura delle cose create, corriamo il rischio dell’idolatria. In questo modo, Dionigi traccia una netta linea di demarcazione tra similitudine allegorica e simbolo anagogico. Le similitudini propriamente dette sono “allegorie” in quanto fondate sul principio della proporzionalità e della convenientia tra significante e significato; l’allegoria consiste in una sequenza di metafore dove il segno posto in figura è perfettamente commisurato alla realtà di cui è segno, giusto l’insegnamento di Aristotele secondo cui ogni metafora è costruita sulla base di una “analogia” – ovvero di un rapporto di proporzione tra il concetto espresso dal significante e la realtà del significato latente. Per contro, l’anagogia sembra rinviare al dominio del difforme e del “mostruoso”, del non proporzionale, del “sublime” – nell’accezione dello Pseudo – Longino. L’ammaestramento che ci viene impartito dalle Scritture attraverso i sovrasensi anagogici consiste proprio nell’abisso che si viene a spalancare tra i segni e i significati soprasensibili cui essi rinviano. I segni di cui disponiamo per significare l’Invisibile resteranno sempre disperatamente insufficienti nei confronti di quella Realtà ultima che si sottrae ad ogni significazione, in quanto inoggettivabile e irriducibile alla presa del logos semantikos. Il senso anagogico delimita la soglia che separa linguaggio e silenzio, al confine tra l’intenzione di significato del nostro sermo e l’insondabile profondità dei silentia Dei. L’insieme di queste considerazioni ci permette di gettare luce anche sul perché il senso anagogico venga sempre per “ultimo”, e sia considerato tale secondo il suo concetto, non sulla base di una convenienza di ordine retorico. Da questo punto di vista, se la dimensione allegorica si inquadra nella concezione aristotelica del segno, l’anagogia corrisponde a un tratto tipico del neoplatonismo, l’apofatismo della Patrologia orientale di cui lo Pseudo – Dionigi costituisce l’esponente di maggior rilievo.

Per dirla in una formula: l’allegoria sta all’anagogia come Aristotele sta a Platone.

 

Se il linguaggio allegorico parla all’immaginazione, assumendo in tal modo una evidente funzione didascalica che nell’economia della Commedia si compendia nella figura di Virgilio, il linguaggio dell’anagogia parla invece all’intelletto ormai affrancato dai lacci dell’immaginazione. Pensiamo, ad esempio, al rimprovero che Beatrice rivolge a Dante nel primo canto del Paradiso allorché egli si interroga sulle ragioni della “novità del sono” prodotto dal moto delle sfere celesti e del “grande lume” da cui è abbagliato all’improvviso. L’amorosa guida del pellegrino comincia: “Tu stesso ti fai grosso/ col falso imaginar, sì che non vedi/ ciò che vedresti se l’avessi scosso” (versi 88 – 90). L’intero itinerario gnoseologico di Dante in Paradiso è scandito da un continuo affrancarsi della mente dalle false immagini che ancora le impediscono di riverberare, come in uno specchio, il fulgore della Luce divina, rispetto alla quale Beatrice assume la funzione di intercessore supremo. Quelle immagini, che nel linguaggio tecnico della tradizione aristotelica vengono chiamate “fantasmi” sono un ostacolo che rende la mente “grossa” e tarda. E allo stesso modo per cui Beatrice deve subentrare a Virgilio, nel guidare il pellegrino verso le ultime stazioni del viaggio escatologico per le quali sono richiesti ausili che la ragione naturale umana non può offrire, analogamente il linguaggio immaginifico dell’allegoria deve lasciare il passo al nuovo registro della parola anagogica. Alla luce di queste considerazioni possiamo comprendere ancor meglio le dichiarazioni di Virgilio in Purgatorio XXVII quando annuncia: “Il temporal foco e l’etterno/ veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte/ dov’io per me più oltre non discerno” (versi 127 – 129).

Virgilio sta a Beatrice come l’intelletto affiancato dagli ausili dell’immaginazione – secondo la concezione aristotelica compendiata dalla gnoseologia di Tommaso d’Aquino – sta all’intelletto affrancato dalle immagini che essa gli offre: quei fantasmi che sono sì necessari per estrinsecare le procedure valide per la conoscenza dei due regni “inferiori”, Inferno e Purgatorio (costruiti a misura del mondo sublunare), ma che ormai diventano solo degli ingombri quando si tratta di disporre l’intelletto all’illuminazione divina concernente le realtà mistiche del Paradiso. Il transito da Virgilio a Beatrice, dal viaggio attraverso il temporal foco e l’etterno alla “festa di Paradiso” della Gerusalemme ultraterrena corrisponde puntualmente al passaggio dal registro allegorico (aristotelico) delle prime due cantiche al registro anagogico (platonico) della terza. Non crediamo affatto di esagerare affermando che questa chiave di lettura, qui soltanto abbozzata, può essere foriera di sviluppi esegetici inattesi. Si è spesso osservato che Dante non parla mai esplicitamente, in maniera tematica, della natura specifica dell’anagogia. Questo è vero, com’è vero del resto che nel Paradiso l’anagogia diventa pratica di scrittura. È nell’ultima cantica che il linguaggio poetico si spinge verso i limiti estremi, attraverso complessi e vertiginosi intrecci di “similitudini dissimili”, attraverso continue denunce – i famosi “appelli al lettore” – del carattere disperatamente inadeguato dei segni con cui noi tentiamo l’impossibile impresa di rappresentare l’Irrappresentabile, di dire l’Indicibile. L’umbratile traccia di ciò che in questa vita e in questo linguaggio possiamo afferrare soltanto per speculum in aenigmate è nulla rispetto alla visione facie ad faciem che conseguiremo nella vita futura (Prima lettera ai Corinzi 13, 12). Perché se il Cristianesimo è compimento, nel mistero dell’Incarnazione del Figlio, esso rimane anche e soprattutto promessa che edifica la speranza della Gloria futura: le superne cose de l’etternal gloria evocate nel passo del Convivio precedentemente citato.


 

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