COMPLICANZE
METABOLICHE
Esistono delle complicanze della trasfusione difficili da
valutare, sia per il peso reale, sia per l'incidenza, dato che per
la maggior parte si verificano in corso di trasfusioni massive e,
quindi, in pazienti già gravemente compromessi e con sintomatologia
che può mascherare la reazione stessa.
Tali reazioni non sono
riconducibili né ad una causa immunologica né infettiva e, per tale motivo, sono
definite da alcuni autori fisico-chimiche o metaboliche; esse sono spesso la
conseguenza del tipo di conservante usato, delle modalità di conservazione,
dell'uso di volumi eccessivi di sangue, delle modalità e dei tempi di
somministrazione.
Pazienti sottoposti a
trasfusioni massive possono sviluppare alterazioni metaboliche,
sanguinamenti o aritmie cardiache a causa del combinarsi di ipotermia,
ipocalcemia (tossicità da citrato), iperkaliemia, acidosi o
emodiluizione.
Tossicità da citrato e da potassio
Dal momento che il sangue viene raccolto in eccesso di
citrato, la rapida infusione di grandi quantità (>1 unità/5 minuti/70 Kg) può
elevare la concentrazione di citrato tanto da provocare il manifestarsi di segni
di tossicità dovuti alla diminuzione del calcio plasmatico (tremori muscolari,
parestesie, aritmie cardiache), in particolare in pazienti con insufficienza
epatica o dopo somministrazione di plasma (anche durante procedure aferetiche).
L'effetto può essere neutralizzato dall'infusione
di calcio cloruro (2,5 mL/litro di sangue trasfuso).
A tassi di infusione
di 500 mL/minuto è indicata la somministrazione profilattica di calcio.
La fuoriuscita di potassio
dagli eritrociti durante la loro conservazione ammonta a circa 1 mEq/L/die, per
cui l'infusione di discrete quantità di sangue conservato può determinare un
aumento del potassio tale da provocare disfunzioni cardiache.
L'intossicazione da potassio
accompagna, aggravandola, quella da citrato ed è più probabile in pazienti con
insufficienza renale ed epatica.
Acidosi
Il deficit di basi è più
contenuto da quando il sangue viene conservato in CPD.
Negli emocomponenti (PFC e
concentrati piastrinici da aferesi) conservati in ACD vi è un deficit di basi
che tende ad aumentare per la produzione di
lattato e
che può esacerbare un'acidosi
metabolica. Nei pazienti con
insufficienza renale che abbiano bisogno di trasfusioni multiple può essere
presa in considerazione una correzione del pH con alcalinizzanti.
Ipotermia
In condizioni di trasfusione massiva bisogna tener presente
che l'infusione di larghe quantità di sangue freddo può produrre ipotermia che,
potenziando l'azione tossica del citrato, può provocare aritmie ventricolari e
arresto cardiaco.
Alterazioni emostatiche
In corso di trasfusione massiva
possono comparire alterazioni della coagulazione e riduzioni del numero delle
piastrine, talora evento iniziale di una sindrome emorragica post-trasfusionale,
accompagnata da una CID.
In corso di trasfusioni massiva
è quindi opportuno monitorare la conta piastrinica, così come gli altri
parametri coagulativi
SOVRACCARICO CIRCOLATORIO
Anche se ogni ricevente può, in generale, risentire di trasfusioni
troppo abbondanti o di una velocità di infusione troppo elevata, un
sovraccarico circolatorio è un inconveniente che colpisce in
particolare i soggetti in precario stato di equilibrio emodinamico,
quindi quando la funzionalità e la riserva cardiaca del paziente
sono compromesse o per alterazioni cardiache (es. cardiopatici in
compenso labile) o per grave anemia, dato che l'anemico grave deve
incrementare la portata cardiaca e quindi il lavoro del cuore.
Un sovraccarico di liquidi può dare, oltre certi livelli, edema
polmonare acuto con successiva insufficienza respiratoria, preceduto in genere
da un segno molto caratteristico e che deve essere colto prontamente in tutta la
sua importanza, vale a dire il turgore delle giugulari (da aumentata pressione
venosa centrale). Il corteo sintomatologico è dominato da cefalea, agitazione,
tosse secca, dispnea e cianosi, tachicardia, incremento della pressione
arteriosa di 50 mm di Hg, senso di oppressione toracica ed, infine, edema
polmonare.
Questo tipo di evento sfavorevole può presentarsi più di frequente
nelle trasfusioni di sangue autologo, (in genere sangue intero non
deplasmatizzato) che viene impiegato con minor accortezza per un falso senso di
sicurezza che ispira negli operatori sanitari.
Sintomatologia
|
Dispnea, cianosi, tosse, affanno
respiratorio |
Conseguenze |
Di solito non drammatiche, se
vengono intrapresi adeguati provvedimenti. potenzialemente
pericoloso per la vita qualora non riconosciuto. |
Laboratorio |
Nessun segno di incompatibilità
sierologica. |
Terapia |
-
Ai primi segni, posizionare il paziente in posizione
seduta ed arrestare la trasfusione.
-
Se
la sintomatologia progredisce, considerare un trattamento
con diuretici, ossigeno e gli altri presidi utili
nell'edema polmonare acuto.
-
Se
la sintomatologia si aggrava, considerare la possibilità
di eseguire un salasso per ridurre il volume ematico.
|
Prevenzione |
Identificare i pazienti a rischio
prima di iniziare una trasfusione e trasfondere lentamente,
eventualmente facendo allestire frazioni di unità nei casi più
critici. Evitare di mantenere aperta la via di infuzione con
soluzione fisiologica.
Monitorare attentamente i pazienti
durante la trasfusione. |
SOVRACCARICO DI FERRO
La somministrazione
prolungata di emazie concentrate può determinare con il tempo un accumulo di
ferro soprattutto nel fegato, nel pancreas, nelle ghiandole endocrine e a
livello cardiaco, con segni progressivi ed ingravescenti di patologie d'organo
(insufficienza epato-pancreatica, disendocrinie, diabete, insufficienza
cardiaca).
Poiché ogni unità di sangue
trasfuso apporta 200 mg di ferro, mentre l'escrezione giornaliera è di 1-2 mg,
l'accumulo di ferro nei tessuti interesserà soprattutto i pazienti che vengono
sottoposti a ripetute trasfusioni quali talassemici, aplastici, anemici
sideroblastici, che rappresentano quindi i pazienti che vanno incontro
maggiormente ad accumulo di ferro se non si instaura un'adeguata terapia.
Sintomatologia
|
L’emosiderosi di origine trasfusionale (per accumulo di ferro
nei tessuti) può decorrere in modo silente sino allo stadio
avanzato |
Conseguenze |
Possono
intervenire disfunzioni epatiche e delle ghiandole endocrine; la
più grave complicanza è la cardiotossicità, che causa aritmie,
scompenso cardiaco congestizio e morte |
Laboratorio |
un sistematico monitoraggio della ferritina risulta utile nella
determinazione del carico totale di Fe |
Terapia |
La terapia si
basa sull’ impiego di agenti ferro-chelanti, quali la
desferrosamina per via parenterale, impiego che deve iniziare
precocemente nel corso di un trattamento trasfusionale cronico,
quando il livello di ferritina raggiunge 1.000/2.000
m l/L. Il
mantenimento del livello di ferritina al di sotto di 2.500 m l/L
assicura una più lunga sopravvivenza del ricevente
|
Prevenzione |
L’emosiderosi
può essere prevenuta nei pazienti che necessitano di un
trattamento trasfusionale a lungo termine. La splenectomia nei
pazienti con ipersplenismo può risultare utile per ridurre le
necessità trasfusionali in un programma di terapia a lungo
termine. L’impiego di eritroaferesi riduce il carico marziale
nei pazienti affetti da anemia drepanocitica, anche se si tratta
di una pratica costosa e che aumenta l’esposizione a più
donatori. Promettenti alternative alla trasfusione di
concentrati eritrocitari sono rappresentate dall’uso di
eritropoietina ricombinante, da quello di idrossiurea nei
soggetti drepanocitici e dal ricorso al trapianto allogenico di
midollo osseo. |
CONTAMINAZIONE BATTERICA
Gli emocomponenti sono
per definizione sterili. Qualora, tuttavia, dei batteri contaminino
il sangue durante la raccolta o il frazionamento possono determinare
situazioni molto pericolose per la vita del paziente e nelle quali
può incorrere qualsiasi ricevente, compreso quello sottoposto a
trasfusione autologa.
Sebbene secondo lo
SHOT (Serious Hazards of Transfusion) inglese le infezioni trasmesse
dalla trasfusione negli ultimi 5 anni rappresentino meno del 3% di
tutte le complicazioni trasfusionali, la maggior parte di queste, in
termini di numero, morbidità e mortalità sono batteriche.
Le unità
trasfusionali vengono di solito contaminate da batteri provenienti
in genere dalla cute del donatore. Se la carica batterica è modesta,
non si hanno grandi problemi sia per il potere battericida del
sangue fresco, sia perché la conservazione a 4°C inibisce la
crescita di questi microrganismi, purché non venga interrotta per
tempi troppo lunghi. Si deve del resto ricordare anche l'esistenza
di alcune specie batteriche (cosiddette psicrofile) capaci di
moltiplicarsi e di produrre endotossine alla temperatura di
conservazione.
La trasfusione di un'unità
contaminata può provocare febbre, brivido e ipotensione e la comparsa di una
reazione trasfusionale pseudo-emolitica, da distruzione non immune di eritrociti
danneggiati dai microrganismi o infusione di sangue parzialmente emolizzato,
caratterizzata da imponenti sintomi a carico dell'apparato gastroenterico,
crampi addominali, vomito, diarrea profusa ed un caratteristico stato di shock
con cute calda, asciutta ed arrossata.
Il germe trasfuso può altresì
provocare sepsi. Soprattutto grave è lo shock endotossico, in seguito alla
presenza di endotossine prodotte da gram-negativi.
La mortalità per queste
reazioni può raggiungere valori fino al 60%.
In letteratura si trova la
descrizione di casi post-trasfusionali di salmonellosi (da Salmonella cholerae
suis), di tifo e di brucellosi (specialmente da Brucella abortus).
L'art. 47 del D.P.R. 1256/1971
escludeva temporaneamente dalla donazione gli affetti da brucellosi, se non
clinicamente guariti da almeno due anni.
Tale esclusione è stata mantenuta nella legislazione che si è succeduta, fino al
decreto 26 gennaio 2001.
Sintomatologia
|
Febbre elevata (spesso con aumenti > 2°C),
brividi scuotenti, ipotensione severa,
dolore addominale, vomito, emoglobinuria, CID, insufficienza renale,
collasso cardio-circolatorio. Uno stato shock "caldo" può
verificarsi entro pochi minuti dall'inizio della trasfusione. |
Conseguenze |
Potenzialmente fatale, questa
complicanza deve essere riconosciuta e trattata immediatamente,
senza stare ad attendere i risultati degli esami di laboratorio. |
Laboratorio |
L'accertamento
delle reazioni da contaminazione batterica si avvale
dell'identificazione, con metodiche di laboratorio, dell'agente
infettivo responsabile, nel sangue residuo della sacca e nel
deflussore. |
Terapia |
- Antibioticoterapia aggressiva ed a largo spettro.
- Corticosteroidi.
- Mantenere il
volume con soluzioni cristalloidi e considerare l'uso di
farmaci vasocostrittori quali la dopamina.
|
Prevenzione |
Sorvegliare con attenzione la
raccolta, manipolazione e conservazione del sangue e degli
emocomponenti.
Ispezionare aspetto e colore di
tutti gli emocomponenti prima della trasfusione, alla ricerca di
coaguli o segni di emolisi; le unità sospette devono essere
restituite al trasfusionale per ulteriori indagini.
Avviare il set da infusione usando
una tecnica asettica.
Infondere gli emocomponenti quanto
più rapidamente possibile, rispetto alle condizioni del
paziente, non impiegando comunque più di 4 ore.
Qualora la trasfusione non possa
essere iniziata entro una ventina di minuti dal momento nel
quale l'unità è stata resa disponibile, riavviarla al
trasfusionale per un'adeguata conservazione. |
PATOLOGIE INFETTIVE TRASMESSE CON LA TRASFUSIONE
Praticamente tutti
gli agenti infettivi (protozoi, batteri, virus), possono essere
trasmessi al ricevente con la trasfusione di sangue, emocomponenti o
emoderivati infetti, a condizione che:
-
siano presenti nel sangue di
soggetti asintomatici al momento della donazione;
-
siano stabili nel sangue e
nei prodotti lavorati di esso;
-
il ricevente sia
suscettibile di infettarsi.
Le patologie infettive trasmesse con la trasfusione rappresentano
quindi ancora oggi
un'importante realtà, nonostante la cura nella selezione dei
donatori e lo screening infettivologico al quale vengono sottoposte
tutte le unità donate.
Del
resto, se sono stati migliorati i tests per la ricerca dei virus
epatitici e dell'HIV, sussiste ancora un cospicuo rischio di
trasmissione per quelle malattie per i cui agenti eziologici non
esistono ancora test efficaci, quali la malaria, il morbo di Chagas
ed altre parassitosi i cui agenti patogeni compiono parte del loro ciclo vitale nel
sangue.
Capita
quindi spesso che i donatori portatori di queste patologie vengano
scoperti ed eliminati solo quando oramai l'unità donata
abbia trasmesso la malattia e questa sia stata diagnosticata nel
ricevente.
IL RISCHIO
INFETTIVO
Essendo attualmente il rischio molto
basso, è difficile quantificarlo con esattezza.
Di conseguenza, le stime sono ottenute
con tecniche statistiche e modelli matematici.
Attualmente il rischio, espresso in funzione delle unità di sangue trasfuse, è
schematizzabile come segue.
agente infettivo |
rischio stimato per unità |
|
HIV - Human Immunodeficiency Virus |
1
su 450.000 |
HTLV-I/II - Human T Cell Lymphotropic Virus, tipo I e II |
1
su 50.000 |
HBV - Hepatitis B Virus |
1
su 200.000 |
HCV - Hepatitis C Virus |
1 su 5000 * |
Batteri, Parassiti |
meno di 1 su 106 |
*
Stima basata sulla dimostrazione dello stato di portatore cronico
non evidenziabile con gli esami correnti; secondo stime recenti il
rischio dovuto al periodo finestra è 1 su 103.000.
I rischi sopra riportati vengono espressi per unità trasfuse
piuttosto che per paziente, in quanto questo permette un più preciso
computo del rischio per un dato paziente (ad esempio, moltiplicando
il rischio per unità per il numero di unità trasfuse).
Per gli
agenti più importanti (HIV, HCV) il rischio per unità è eguale,
a prescindere dall'emocomponente trasfuso, al contrario di
quanto accade per l'HTLV I/II per il quale non vi è alcun rischio
per quanto riguarda la trasfusione di componenti privati dei
leucociti, essendo tale virus endo-leucocitario.
Nonostante ogni unità donata sia testata per i
marcatori infettivologici, vi sono almeno tre motivi per i quali è
possibile che un'infezione si sviluppi egualmente.
Il principale è l'impossibilità di ottenere un risultato positivo
per i test svolti nelle prime fasi di un'infezione, vale a dire in
quello che è noto come "periodo finestra". Per esempio, un individuo
esposto al contagio da HIV non svilupperà anticorpi anti-HIV fino a
che non sia trascorso un periodo di tempo ben determinato. Una
donazione compiuta in tale periodo può quindi trasmettere la
malattia.
Un secondo motivo è l'esistenza di soggetti portatori
cronici senza marcatori dimostrabili dell'infezione.
Una tale condizione non è mai stata
osservata per l'infezione da HIV, mentre vi sono varie evidenze che
alcuni individui infettati dall'HCV possono essere portatori del
virus senza che sia possibile identificarne la presenza con i test
comunemente utilizzati per la ricerca. Lo stesso accade per alcuni
individui infettati dal virus HTLV-II.
Il terzo
motivo consiste in un
errore di laboratorio al momento dell'effettuazione dei
test.
Infezioni
batteriche
Aldilà della contaminazione batterica,
il rischio di trasmissione di batteri è possibile soltanto in corso
di una batteriemia che avvenga nel donatore e può riguardare
qualsiasi bacterio.
La sifilide può
essere trasmessa con la trasfusione di sangue soltanto se questo è
prelevato da un donatore infetto durante la fase di spirochetemia e
trasfuso fresco. la maggior parte dei casi di contagio con la
trasfusione descritti in letteratura è infatti avvenuta all’epoca
delle trasfusioni dirette, dato che il sangue conservato elimina
quasi totalmente il rischio di trasmissione che rimane però per gli
emocomponenti trasfusi freschi (come i concentrati piastrinici).
Parassitosi
Tra le malattie
protozoarie, tripanosomiasi, babesiosi e leishmaniosi post-trasfusionali
costituiscono un problema soltanto per i Paesi di endemia.
Anche se estremamente
rara, costituisce invece una possibilità più prossima alle nostre zone la
toxoplasmosi post-trasfusionale.
La malaria, anche in
considerazione dei sempre più frequenti viaggi in zone di endemia, può
rappresentare un serio problema. La malaria trasfusionale è spesso una forma
grave anche perché il più delle volte non viene sospettata e quindi di
conseguenza diagnosticata, finendo per essere trattata impropriamente fino a
quando, magari accidentalmente, viene scoperta la parassitemia.
Infezioni
virali
Le più importanti infezioni
virali trasmissibili con la trasfusione di sangue ed emocomponenti sono raccolte
nella tabella che segue.
Epatiti virali: |
HBV / HDV / HCV / HAV |
Malattie da
Retrovirus |
HTLV I: |
ATL, paraparesi spastica tropicale,
linfomi B, sclerosi multipla, deficit immunitari minori, mielopatia
associata a HTLV I |
HTLV II: |
tricoleucemia, leucemia linfatica cronica
a cellule T, linfoma a cellule CD4 |
HTLV III o HIV1: |
AIDS, stimolazione di linfomi a cellule
B, sarcoma di Kaposi |
HTLV IV o HIV2: |
alcuni immunodeficit AIDS simili |
HTLV V: |
micosi fungoide, linfoma cutaneo a
cellule T |
Infezioni da
Herpes virus:
|
Citomegalovirus (CMV)
Epstein-Barr virus (EBV) |
Altre virosi: |
parvovirus B |
Quinta malattia o eritema infettivo |
Virus esotici: |
febbre della valle del Rift, dengue,
febbre di Ebola, di Lassa, di Marburg, febbre gialla |
Le epatiti post-trasfusionali
possono essere clinicamente evidenti, ma nella maggioranza dei casi decorrono in
maniera subclinica. Un certo numero di casi esita in forme croniche. Le epatiti
più frequentemente riscontrate sono quelle da virus B e da virus C. Il virus A è
solo raramente in causa.
I primi sintomi sono spesso
rappresentati da un aumento inspiegabile delle ALT e da una occasionale
iperbilirubinemia. La diagnosi conclusiva viene posta dai test sierologici
specifici (che correlano con gli intervalli di incubazione).
La trasmissione trasfusionale
dei virus B e C dell’epatite non può essere totalmente prevenuta con i metodi
attualmente impiegati. Tali metodi interessano in particolar modo la selezione
del donatore e comprendono un'approfondita inchiesta anamnestica su possibili
eventi infettanti o su precedenti esami positivi, un accurato controllo dello
stato clinico del donatore, l’impiego delle più recenti versioni dei test
sierologici di screening per HBsAg, anti-HBc, anti-HCV e di appropriati test di
conferma.
HBV
- Il rischio di epatite B post-trasfusionale è attualmente estremamente
ridotto grazie alla introduzione di due test combinati di screening:
la determinazione dell'HBsAg e la determinazione dell'anticorpo
anti-HBc (anti-core). Con tali test l'epatite B non è identificabile
solo qualora il donatore si trovi nelle prime fasi di incubazione
(fase finestra) o sia infettato da un mutante.
Il test per la determinazione
dell’antigene di superficie del virus dell’epatite B (HbsAg) è stato reso
obbligatorio nel 1978 (circolare MS n. 68 del 1978: controllo dell'HBsAg su
ogni singolo prelievo di sangue o plasma). Da allora la tecnologia ha messo a
disposizione per lo screening dell’HBsAg ritrovati sempre più all’avanguardia,
passando dall’agglutinazione al lattice degli anni '70, ai test RIA e quindi
ELISA degli anni '80-'90 per arrivare alla più recente chemiluminescenza.
Ciò nonostante il rischio residuo per l’epatite B è più alto rispetto a quelli
sia dell’epatite C sia dell’HIV (vedi tabella).
Stime di rischio residuo con la trasfusione in
Europa nel 1997 |
Epatite B |
1 caso su 398.499 donazioni |
Epatite C |
1 caso su 620.754 donazioni |
Infezione da HIV |
1 caso su 2.323.778 donazioni |
Il limite di sensibilità per le
particelle di HbsAg dei reagenti in uso attualmente nei laboratori di screening,
seppur molto basso (alcuni kit sono capaci di svelare concentrazioni
dell’antigene nel siero inferiori a 0,1 PEI U/mL) a volte non riesce a svelare
antigenemie estremamente basse: questo può in parte spiegare perché il virus
dell'epatite B (HBV) continua ad essere una causa di epatite post-trasfusionale.
Un’altra causa può essere la diversa sensibilità di alcuni kit nello svelare l’HbsAg
quando è contemporaneamente presente l’anticorpo corrispondente anti-HBs: la
presenza dell’anticorpo innalza la soglia di sensibilità mancando di svelare
concentrazioni estremamente basse dell’HBsAg.
Alcuni donatori portatori di mutanti
del virus dell’epatite B possono essere negativi alla ricerca dell'HBsAg. Spesso
la causa è dovuta alla presenza di una mutazione dell'epitopo "a" dell'antigene
di superficie. La comparsa della mutazione è da attribuire alla pressione
selettiva degli anticorpi anti-HBs sia indotti dal vaccino che somministrati
terapeuticamente. Sono state descritte alcune varianti dell’epitopo “a” che
reagiscono solo con anticorpi policlonali. L’uso di anticorpi monoclonali nei
kit diagnostici quindi se da un lato aumenta la sensibilità e la specificità del
test dall’altro però ci pone a rischio per quanto riguarda questo tipo di virus
mutante.
Lo screening anti-HBc è ritenuto in gardo di
prevenire diversi casi di epatite trasmessi con la trasfusione, ma la
questione è molto controversa ed alcuni autori escludono un valore predittivo
positivo a questa indagine. Nell’epatite B, come nell’infezione da HIV,
almeno il 90 % del rischio di trasmissione della malattia con la trasfusione è
imputabile alla donazione effettuata nella fase finestra che è stata
quantificata della durata di 59 giorni nei quali solo l'HBV DNA è dosabile.
E’ stato stimato che la dose infettante di HBV è costituita da 10 a 20
particelle virali o DNA equivalenti. A causa dell’esiguità della dose infettante
anche le tecniche di amplificazione degli acidi nucleici effettuata in pool di
plasma possono fallire la scoperta di donazioni infette con HBV.
In un recente studio multicentrico nell'ambito del I° Progetto Sangue è stato
comprovato che nonostante le premesse è praticamente impossibile trovare un
donatore con ALT nella norma, HBsAg negativo, anti-HBcAg positivo e viremico con
positività HBV DNA, salvo escludere soglie molto basse di viremie HBV con
sensibilità della PCR inadeguata a rivelarle (Rapporto Istisan 1999/9).
In caso di positività di una
donazione all’HBsAg, la reattività va confermata con un test di neutralizzazione
specifico ed integrata con la ricerca degli altri marcatori epatitici (anti-HBc,
anti-HBc-IgM, anti-HBs, anti-HBe e HBeAg).
HCV
- Il test sierologico per la ricerca degli anticorpi
anti-HCV è stato reso obbligatorio nel 1990 con il D.M. 21/7/90. Da allora in
Italia, con l’introduzione dei test immunoenzimatici di II^ e III^ generazione, il
tasso di incidenza in Italia dell’epatite C post-trasfusionale è
progressivamente diminuito fino ad attestarsi su un valore tra 0,2 e 0,3
casi per milione di abitanti, rappresentando meno dell’1% dei casi di Epatite C
diagnosticata. Con i tests di III generazione con una
sensibilità superiore al 97%, è stato notevolmente ridotto il periodo finestra
dei donatori infetti fino a circa 66 gg (38-94 gg). Il rischio di ricevere
sangue donato in un periodo finestra è stato stimato in un 1 caso su
620.754 unità da donatori periodici e volontari relativamente al 1997 in Europa.
La conferma di risultati positivi
allo screening viene effettuata con la tecnica dell’immunoblot, utilizzando
parecchi antigeni ricombinanti e diversi controlli.
Circa i parametri da controllare nei
controlli di qualità per la ricerca degli anticorpi anti-HCV è preminente la
sensibilità del test con reattività con sieri positivi deboli, da effettuarsi a
cura del laboratorio di screening ad ogni piastra od ogni seduta.
La maggior parte delle infezioni da HCV post-trasfusionali avviene per un contagio con donatori in periodo
finestra, per cui gli sforzi per la prevenzione si sono concentrati sullo
sviluppo di nuovi test di screening che prevedono l’introduzione di metodiche
semplici, sensibili e specifiche per la ricerca del genoma virale nel sangue dei
donatori. Attualmente la ricerca dei costituenti virali dell’HCV
mediante tecnica di amplificazione degli acidi nucleici (NAT), prevista a
partire
dalla CM n. 17 del 30 ottobre 2000 ha permesso un definitivo miglioramento in
questa diagnostica.
HIV
- Il
rischio da trasfusione dell'HIV si è drasticamente ridotto a partire dal 1985.
Emblematica è la situazione degli Stati Uniti dove si è arrivati nel 1992-93 ad
avere un caso su 450.000-660.000 unità di sangue, a partire dai valori di
1:153.000 unità che si registravano negli anni immediatamente successivi
all'introduzione dello screening. Stime coerenti con I dati sopra
riportati sono state riportate anche in Francia (1:588.000) ed in Italia
(1:600.000). Nel 1997 sono state fatte in Europa stime ancora più basse
(1:2.323.778).
La diagnosi di infezione da HIV viene ottenuta con la dimostrazione della presenza del virus nell'organismo o
con quella della relativa risposta anticorpale. Il metodo standard di screening
è la ricerca degli anticorpi anti-HIV 1/2 con il saggio
immunoenzimatico.
La maggior parte degli individui
sviluppa gli anticorpi contro il virus a poche settimane o a pochi mesi
dall'infezione virale e nella quasi totalità entro sei mesi. Questo periodo di "finestra immunologica" di circa 22 giorni (6-38) rappresenta il determinante
imponderabile del rischio infettivologico trasfusionale da HIV nello screening
con anti-HIV.
Il test immunoenzimatico ha
sensibilità >95% e specificità pari al 95%, tuttavia possono verificarsi casi di
falsi positivi per reazioni crociate con anticorpi verso antigeni di
istocompatibilità (Classe II) o autoanticorpi.
Il saggio di conferma viene
effettuato con il WB (Western Blot) con alta specificità e sensibilità (pari al
99,9%) verso tutti gli anticorpi diretti contro gli antigeni virali delle
diverse regioni (gag, pol ed env).
Risultati falsi negativi sono
limitati al "periodo finestra".
La sola positività di una proteina
(es. p24) caratterizza i test definiti indeterminati.
La diagnosi finale
di una infezione da HIV trasmessa con il sangue viene posta da una
sieroconversione che intervenga da 4 a 12 settimane dopo una
trasfusione, in assenza di ogni altro possibile fattore di rischio.
Le tecniche di biologia molecolare possono dimostrare la reale
identità fra i ceppi virali presenti nel donatore e nel ricevente.
La diagnosi di una infezione
da HIV trasmessa per via trasfusionale viene usualmente posta con un accurato
look-back condotto sul ricevente. L’instaurarsi di sintomi quali infezioni
opportunistiche, bassi conteggi di CD4 o presenza di particolari neoplasie
classiche dell'AIDS può rappresentare
la prima indicazione di una infezione da HIV.
In alcuni riceventi, il tempo
intercorso fra la trasfusione e la comparsa di un AIDS sintomatico può essere di
soli 2-3 anni.
Un fondamentale passo avanti
nella prevenzione delle malattie da HBV, HIV ed HCV si è recentemente avuto grazie alle
tecnologie di amplificazione genica, quali la nucleic acid technic (NAT), com’è
possibile vedere nella tabella che segue.
Stima della riduzione
del rischio residuo post-trasfusionale per l’infezione da HCV, HIV e HBV
dopo l’implementazione del test NAT |
|
fase finestra (in giorni) |
Riduzione % |
Casi stimati/106 donazioni |
EIA |
NAT |
|
|
HCV |
70 |
12 |
83 |
1,3 (0,9-1,6) |
HBV |
56 |
41 |
27 |
8,3 (5,7-10,9) |
HIV |
22 |
11 |
50 |
1,1 (0,8 1,5) |
EIA: esame immunoenzimatico
NAT: metodica di amplificazione genica
Altre virosi
Citomegalovirus (CMV), Human
Herpes Virus 6 (HHV-6), EBV e Parvovirus B19 sono virus a sede linfocitaria
associati con infezioni post-trasfusionali.
Gli anticorpi contro questi
virus sono presenti dal 50% al 90% degli adulti. La trasmissione e la
sintomatologia clinica con sequele anche estremamente gravi anche mortali
compaiono soprattutto nei pazienti immunocompromessi come neonati, prematuri,
gravide sieronegative, pazienti trapiantati e pazienti sieronegativi
splenectomizzati. Le manifestazioni cliniche in questi pazienti sono
rappresentate da: epatiti, polmoniti (la più frequente complicazione mortale),
retiniti, malattie del SNC, gastrointestinali o ematologiche.
L'infezione da CMV può
interessare qualsiasi età ed è di solito asintomatica e clinicamente
inapparente. La presenza di anticorpi specifici, a differenza di quanto si
verifica in molte altre infezioni, non è espressione di infezione superata ed
immunità acquisita, ma soltanto l'espressione di una possibile reinfezione
esogena o di una possibile riattivazione.
Per concludere, è necessario tenere presente che:
1.
non tutte le
infezioni associate a trasfusioni sono veramente secondarie alla trasfusione
stessa, poiché con un rischio residuo così piccolo è molto probabile che
un’altra, più comune, via di trasmissione sia implicata.
2.
Le
prime cinque cause di trasfusioni fatali sono: emolisi (generalmenre dovuta a
errore AB0), contaminazione batterica, TRALI (transfusion-related acute lung
injury, infezioni varie non batteriche e GVHD legata alla trasfusione.
PROGRESSIONE
A MALATTIA DELLE INFEZIONI TRASMESSE CON LA TRASFUSIONE
I riceventi che abbiano acquisito l'infezione da HIV con una
trasfusione di sangue progrediscono nella malattia conclamata in
modo pressoché identico a quello dei soggetti infettati per altre
vie, sempre che sopravvivano alla patologia per la quale si è resa
necessaria la trasfusione.
Molto più rari sono i casi di malattia che si sviluppa in seguito ad
infezione da HTLV-I o II.
E' stato stimato che il 4% degli individui infettati alla nascita da
HTLV-I possa progredire verso lo sviluppo di un linfoma-leucemia a
cellule T dell'adulto (ATL), in genere un periodo di incubazione
variabile tra 20 e 30 anni. La sindrome neurologica nota come
mielopatia associata ad HTLV-I (HAM) è stata stimata comparire dopo
un periodo di mesi o anni dall'infezione in uno 0,25% degli infetti.
Una sindrome simile è stata documentata anche in concomitanza
dell'infezione da HTLV-II.
La
storia naturale dell'infezione da HCV acquisita con una trasfusione
è simile a quella dell'infezione acquisita attraverso le altre vie
note. Approssimativamente il
50% dei pazienti è destinato a sviluppare un'elevazione cronica
degli enzimi epatici ed il 10% una cirrosi evidenziabile al
microscopio.
Una
piccola percentuale di pazienti infetti è destinata a sviluppare
sintomi tali da richiedere un trattamento.
Non si è comunque potuta dimostrare una maggiore
mortalità con un follow up durato 18 anni in pazienti con
documentata infezione da HCV post-trasfusionale.
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