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COMPLICANZE METABOLICHE

 

Esistono delle complicanze della trasfusione difficili da valutare, sia per il peso reale, sia per l'incidenza, dato che per la maggior parte si verificano in corso di trasfusioni massive e, quindi, in pazienti già gravemente compromessi e con sintomatologia che può mascherare la reazione stessa.

Tali reazioni non sono riconducibili né ad una causa immunologica né infettiva e, per tale motivo, sono definite da alcuni autori fisico-chimiche o metaboliche; esse sono spesso la conseguenza del tipo di conservante usato, delle modalità di conservazione, dell'uso di volumi eccessivi di sangue, delle modalità e dei tempi di somministrazione.

Pazienti sottoposti a trasfusioni massive possono sviluppare alterazioni metaboliche, sanguinamenti o aritmie cardiache a causa del combinarsi di ipotermia, ipocalcemia (tossicità da citrato), iperkaliemia, acidosi o emodiluizione.

 

Tossicità da citrato e da potassio

 

Dal momento che il sangue viene raccolto in eccesso di citrato, la rapida infusione di grandi quantità (>1 unità/5 minuti/70 Kg) può elevare la concentrazione di citrato tanto da provocare il manifestarsi di segni di tossicità dovuti alla diminuzione del calcio plasmatico (tremori muscolari, parestesie, aritmie cardiache), in particolare in pazienti con insufficienza epatica o dopo somministrazione di plasma (anche durante procedure aferetiche).

L'effetto può essere neutralizzato dall'infusione di calcio cloruro (2,5 mL/litro di sangue trasfuso).

A tassi di infusione di 500 mL/minuto è indicata la somministrazione profilattica di calcio.

La fuoriuscita di potassio dagli eritrociti durante la loro conservazione ammonta a circa 1 mEq/L/die, per cui l'infusione di discrete quantità di sangue conservato può determinare un aumento del potassio tale da provocare disfunzioni cardiache.

L'intossicazione da potassio accompagna, aggravandola, quella da citrato ed è più probabile in pazienti con insufficienza renale ed epatica.

 
Acidosi

 

Il deficit di basi è più contenuto da quando il sangue viene conservato in CPD.

Negli emocomponenti (PFC e concentrati piastrinici da aferesi) conservati in ACD vi è un deficit di basi che tende ad aumentare per la produzione di lattato e che può esacerbare un'acidosi metabolica. Nei pazienti con insufficienza renale che abbiano bisogno di trasfusioni multiple può essere presa in considerazione una correzione del pH con alcalinizzanti.

 

Ipotermia

 

In condizioni di trasfusione massiva bisogna tener presente che l'infusione di larghe quantità di sangue freddo può produrre ipotermia che, potenziando l'azione tossica del citrato, può provocare aritmie ventricolari e arresto cardiaco.

 

Alterazioni emostatiche

 

In corso di trasfusione massiva possono comparire alterazioni della coagulazione e riduzioni del numero delle piastrine, talora evento iniziale di una sindrome emorragica post-trasfusionale, accompagnata da una CID.

In corso di trasfusioni massiva è quindi opportuno monitorare la conta piastrinica, così come gli altri parametri coagulativi

SOVRACCARICO CIRCOLATORIO

Anche se ogni ricevente può, in generale, risentire di trasfusioni troppo abbondanti o di una velocità di infusione troppo elevata, un sovraccarico circolatorio è un inconveniente che colpisce in particolare i soggetti in precario stato di equilibrio emodinamico, quindi quando la funzionalità e la riserva cardiaca del paziente sono compromesse o per alterazioni cardiache (es. cardiopatici in compenso labile) o per grave anemia, dato che l'anemico grave deve incrementare la portata cardiaca e quindi il lavoro del cuore.

Un sovraccarico di liquidi può dare, oltre certi livelli, edema polmonare acuto con successiva insufficienza respiratoria, preceduto in genere da un segno molto caratteristico e che deve essere colto prontamente in tutta la sua importanza, vale a dire il turgore delle giugulari (da aumentata pressione venosa centrale). Il corteo sintomatologico è dominato da cefalea, agitazione, tosse secca, dispnea e cianosi, tachicardia, incremento della pressione arteriosa di 50 mm di Hg, senso di oppressione toracica ed, infine, edema polmonare.

Questo tipo di evento sfavorevole può presentarsi più di frequente nelle trasfusioni di sangue autologo, (in genere sangue intero non deplasmatizzato) che viene impiegato con minor accortezza per un falso senso di sicurezza che ispira negli operatori sanitari.

 

Sintomatologia

Dispnea, cianosi, tosse, affanno respiratorio

Conseguenze

Di solito non drammatiche, se vengono intrapresi adeguati provvedimenti. potenzialemente pericoloso per la vita qualora non riconosciuto.

Laboratorio

Nessun segno di incompatibilità sierologica.

Terapia
  1. Ai primi segni, posizionare il paziente in posizione seduta ed arrestare la trasfusione.

  2. Se la sintomatologia progredisce, considerare un trattamento con diuretici, ossigeno e gli altri presidi utili nell'edema polmonare acuto.

  3. Se la sintomatologia si aggrava, considerare la possibilità di eseguire un salasso per ridurre il volume ematico.

Prevenzione

Identificare i pazienti a rischio prima di iniziare una trasfusione e trasfondere lentamente, eventualmente facendo allestire frazioni di unità nei casi più critici. Evitare di mantenere aperta la via di infuzione con soluzione fisiologica.

Monitorare attentamente i pazienti durante la trasfusione.

 

SOVRACCARICO DI FERRO

 

La somministrazione prolungata di emazie concentrate può determinare con il tempo un accumulo di ferro soprattutto nel fegato, nel pancreas, nelle ghiandole endocrine e a livello cardiaco, con segni progressivi ed ingravescenti di patologie d'organo (insufficienza epato-pancreatica, disendocrinie, diabete, insufficienza cardiaca).

Poiché ogni unità di sangue trasfuso apporta 200 mg di ferro, mentre l'escrezione giornaliera è di 1-2 mg, l'accumulo di ferro nei tessuti interesserà soprattutto i pazienti che vengono sottoposti a ripetute trasfusioni quali talassemici, aplastici, anemici sideroblastici, che rappresentano quindi i pazienti che vanno incontro maggiormente ad accumulo di ferro se non si instaura un'adeguata terapia.

 

Sintomatologia

L’emosiderosi di origine trasfusionale (per accumulo di ferro nei tessuti) può decorrere in modo silente sino allo stadio avanzato

Conseguenze

Possono intervenire disfunzioni epatiche e delle ghiandole endocrine; la più grave complicanza è la cardiotossicità, che causa aritmie, scompenso cardiaco congestizio e morte

Laboratorio

un sistematico monitoraggio della ferritina risulta utile nella determinazione del carico totale di Fe

Terapia

La terapia si basa sull’ impiego di agenti ferro-chelanti, quali la desferrosamina per via parenterale, impiego che deve iniziare precocemente nel corso di un trattamento trasfusionale cronico, quando il livello di ferritina raggiunge 1.000/2.000 m l/L. Il mantenimento del livello di ferritina al di sotto di 2.500 m l/L assicura una più lunga sopravvivenza del ricevente

Prevenzione

L’emosiderosi può essere prevenuta nei pazienti che necessitano di un trattamento trasfusionale a lungo termine. La splenectomia nei pazienti con ipersplenismo può risultare utile per ridurre le necessità trasfusionali in un programma di terapia a lungo termine. L’impiego di eritroaferesi riduce il carico marziale nei pazienti affetti da anemia drepanocitica, anche se si tratta di una pratica costosa e che aumenta l’esposizione a più donatori. Promettenti alternative alla trasfusione di concentrati eritrocitari sono rappresentate dall’uso di eritropoietina ricombinante, da quello di idrossiurea nei soggetti drepanocitici e dal ricorso al trapianto allogenico di midollo osseo.

CONTAMINAZIONE BATTERICA

Gli emocomponenti sono per definizione sterili. Qualora, tuttavia, dei batteri contaminino il sangue durante la raccolta o il frazionamento possono determinare situazioni molto pericolose per la vita del paziente e nelle quali può incorrere qualsiasi ricevente, compreso quello sottoposto a trasfusione autologa.

Sebbene secondo lo SHOT (Serious Hazards of Transfusion) inglese le infezioni trasmesse dalla trasfusione negli ultimi 5 anni rappresentino meno del 3% di tutte le complicazioni trasfusionali, la maggior parte di queste, in termini di numero, morbidità e mortalità sono batteriche.

Le unità trasfusionali vengono di solito contaminate da batteri provenienti in genere dalla cute del donatore. Se la carica batterica è modesta, non si hanno grandi problemi sia per il potere battericida del sangue fresco, sia perché la conservazione a 4°C inibisce la crescita di questi microrganismi, purché non venga interrotta per tempi troppo lunghi. Si deve del resto ricordare anche l'esistenza di alcune specie batteriche (cosiddette psicrofile) capaci di moltiplicarsi e di produrre endotossine alla temperatura di conservazione.

La trasfusione di un'unità contaminata può provocare febbre, brivido e ipotensione e la comparsa di una reazione trasfusionale pseudo-emolitica, da distruzione non immune di eritrociti danneggiati dai microrganismi o infusione di sangue parzialmente emolizzato, caratterizzata da imponenti sintomi a carico dell'apparato gastroenterico, crampi addominali, vomito, diarrea profusa ed un caratteristico stato di shock con cute calda, asciutta ed arrossata.

Il germe trasfuso può altresì provocare sepsi. Soprattutto grave è lo shock endotossico, in seguito alla presenza di endotossine prodotte da gram-negativi.

La mortalità per queste reazioni può raggiungere valori fino al 60%.

In letteratura si trova la descrizione di casi post-trasfusionali di salmonellosi (da Salmonella cholerae suis), di tifo e di brucellosi (specialmente da Brucella abortus).

L'art. 47 del D.P.R. 1256/1971 escludeva temporaneamente dalla donazione gli affetti da brucellosi, se non clinicamente guariti da almeno due anni. Tale esclusione è stata mantenuta nella legislazione che si è succeduta, fino al decreto 26 gennaio 2001.

 

Sintomatologia Febbre elevata (spesso con aumenti > 2°C), brividi scuotenti, ipotensione severa, dolore addominale, vomito, emoglobinuria, CID, insufficienza renale, collasso cardio-circolatorio. Uno stato shock "caldo" può verificarsi entro pochi minuti dall'inizio della trasfusione.
Conseguenze Potenzialmente fatale, questa complicanza deve essere riconosciuta e trattata immediatamente, senza stare ad attendere i risultati degli esami di laboratorio.
Laboratorio

L'accertamento delle reazioni da contaminazione batterica si avvale dell'identificazione, con metodiche di laboratorio, dell'agente infettivo responsabile, nel sangue residuo della sacca e nel deflussore.

Terapia
  1. Antibioticoterapia aggressiva ed a largo spettro.
  2. Corticosteroidi.
  3. Mantenere il volume con soluzioni cristalloidi e considerare l'uso di farmaci vasocostrittori quali la dopamina.
Prevenzione

Sorvegliare con attenzione la raccolta, manipolazione e conservazione del sangue e degli emocomponenti.

Ispezionare aspetto e colore di tutti gli emocomponenti prima della trasfusione, alla ricerca di coaguli o segni di emolisi; le unità sospette devono essere restituite al trasfusionale per ulteriori indagini.

Avviare il set da infusione usando una tecnica asettica.

Infondere gli emocomponenti quanto più rapidamente possibile, rispetto alle condizioni del paziente, non impiegando comunque più di 4 ore.

Qualora la trasfusione non possa essere iniziata entro una ventina di minuti dal momento nel quale l'unità è stata resa disponibile, riavviarla al trasfusionale per un'adeguata conservazione.

 

PATOLOGIE INFETTIVE TRASMESSE CON LA TRASFUSIONE

 

Praticamente tutti gli agenti infettivi (protozoi, batteri, virus), possono essere trasmessi al ricevente con la trasfusione di sangue, emocomponenti o emoderivati infetti, a condizione che:

  • siano presenti nel sangue di soggetti asintomatici al momento della donazione;

  • siano stabili nel sangue e nei prodotti lavorati di esso;

  • il ricevente sia suscettibile di infettarsi.

Le patologie infettive trasmesse con la trasfusione rappresentano quindi ancora oggi un'importante realtà, nonostante la cura nella selezione dei donatori e lo screening infettivologico al quale vengono sottoposte tutte le unità donate.

Del resto, se sono stati migliorati i tests per la ricerca dei virus epatitici e dell'HIV, sussiste ancora un cospicuo rischio di trasmissione per quelle malattie per i cui agenti eziologici non esistono ancora test efficaci, quali la malaria, il morbo di Chagas ed altre parassitosi i cui agenti patogeni compiono parte del loro ciclo vitale nel sangue.

Capita quindi spesso che i donatori portatori di queste patologie vengano scoperti ed eliminati solo quando oramai l'unità donata abbia trasmesso la malattia e questa sia stata diagnosticata nel ricevente.

 

IL RISCHIO INFETTIVO

 

Essendo attualmente il rischio molto basso, è difficile quantificarlo con esattezza.

Di conseguenza, le stime sono ottenute con tecniche statistiche e modelli matematici.

Attualmente il rischio, espresso in funzione delle unità di sangue trasfuse, è schematizzabile come segue.

 

agente infettivo

rischio stimato per unità

  

HIV - Human Immunodeficiency Virus

1 su 450.000

HTLV-I/II - Human T Cell Lymphotropic Virus, tipo I e II

1 su 50.000

HBV - Hepatitis B Virus

1 su 200.000

HCV - Hepatitis C Virus

1 su 5000 *

Batteri, Parassiti

meno di 1 su 106

*  Stima basata sulla dimostrazione dello stato di portatore cronico non evidenziabile con gli esami correnti; secondo stime recenti il rischio dovuto al periodo finestra è 1 su 103.000.

 

I rischi sopra riportati vengono espressi per unità trasfuse piuttosto che per paziente, in quanto questo permette un più preciso computo del rischio per un dato paziente (ad esempio, moltiplicando il rischio per unità per il numero di unità trasfuse).

Per gli agenti più importanti (HIV, HCV) il rischio per unità è eguale, a prescindere dall'emocomponente trasfuso, al contrario di quanto accade per l'HTLV I/II per il quale non vi è alcun rischio per quanto riguarda la trasfusione di componenti privati dei leucociti, essendo tale virus endo-leucocitario.

Nonostante ogni unità donata sia testata per i marcatori infettivologici, vi sono almeno tre motivi per i quali è possibile che un'infezione si sviluppi egualmente.

Il principale è l'impossibilità di ottenere un risultato positivo per i test svolti nelle prime fasi di un'infezione, vale a dire in quello che è noto come "periodo finestra". Per esempio, un individuo esposto al contagio da HIV non svilupperà anticorpi anti-HIV fino a che non sia trascorso un periodo di tempo ben determinato. Una donazione compiuta in tale periodo può quindi trasmettere la malattia.

Un secondo motivo è l'esistenza di soggetti portatori cronici senza marcatori dimostrabili dell'infezione. Una tale condizione non è mai stata osservata per l'infezione da HIV, mentre vi sono varie evidenze che alcuni individui infettati dall'HCV possono essere portatori del virus senza che sia possibile identificarne la presenza con i test comunemente utilizzati per la ricerca. Lo stesso accade per alcuni individui infettati dal virus HTLV-II.

Il terzo motivo consiste in un errore di laboratorio al momento dell'effettuazione dei test.

Infezioni batteriche

Aldilà della contaminazione batterica, il rischio di trasmissione di batteri è possibile soltanto in corso di una batteriemia che avvenga nel donatore e può riguardare qualsiasi bacterio.

La sifilide può essere trasmessa con la trasfusione di sangue soltanto se questo è prelevato da un donatore infetto durante la fase di spirochetemia e trasfuso fresco. la maggior parte dei casi di contagio con la trasfusione descritti in letteratura è infatti avvenuta all’epoca delle trasfusioni dirette, dato che il sangue conservato elimina quasi totalmente il rischio di trasmissione che rimane però per gli emocomponenti trasfusi freschi (come i concentrati piastrinici).

 

Parassitosi

 

Tra le malattie protozoarie, tripanosomiasi, babesiosi e leishmaniosi post-trasfusionali costituiscono un problema soltanto per i Paesi di endemia.

Anche se estremamente rara, costituisce invece una possibilità più prossima alle nostre zone la toxoplasmosi post-trasfusionale.

La malaria, anche in considerazione dei sempre più frequenti viaggi in zone di endemia, può rappresentare un serio problema. La malaria trasfusionale è spesso una forma grave anche perché il più delle volte non viene sospettata e quindi di conseguenza diagnosticata, finendo per essere trattata impropriamente fino a quando, magari accidentalmente, viene scoperta la parassitemia.

 

Infezioni virali

 

Le più importanti infezioni virali trasmissibili con la trasfusione di sangue ed emocomponenti sono raccolte nella tabella che segue.

 

Epatiti virali:

HBV / HDV / HCV / HAV

Malattie da

Retrovirus

HTLV I:

ATL, paraparesi spastica tropicale, linfomi B, sclerosi multipla, deficit immunitari minori, mielopatia associata a HTLV I

HTLV II:

tricoleucemia, leucemia linfatica cronica a cellule T, linfoma a cellule CD4

HTLV III o HIV1:

AIDS, stimolazione di linfomi a cellule B, sarcoma di Kaposi

HTLV IV o HIV2:

alcuni immunodeficit AIDS simili

HTLV V:

micosi fungoide, linfoma cutaneo a cellule T

Infezioni da

Herpes virus:

Citomegalovirus (CMV)

Epstein-Barr virus (EBV)

Altre virosi:

parvovirus B

Quinta malattia o eritema infettivo

Virus esotici:

febbre della valle del Rift, dengue, febbre di Ebola, di Lassa, di Marburg, febbre gialla

 

Le epatiti post-trasfusionali possono essere clinicamente evidenti, ma nella maggioranza dei casi decorrono in maniera subclinica. Un certo numero di casi esita in forme croniche. Le epatiti più frequentemente riscontrate sono quelle da virus B e da virus C. Il virus A è solo raramente in causa.

I primi sintomi sono spesso rappresentati da un aumento inspiegabile delle ALT e da una occasionale iperbilirubinemia. La diagnosi conclusiva viene posta dai test sierologici specifici (che correlano con gli intervalli di incubazione).

La trasmissione trasfusionale dei virus B e C dell’epatite non può essere totalmente prevenuta con i metodi attualmente impiegati. Tali metodi interessano in particolar modo la selezione del donatore e comprendono un'approfondita inchiesta anamnestica su possibili eventi infettanti o su precedenti esami positivi, un accurato controllo dello stato clinico del donatore, l’impiego delle più recenti versioni dei test sierologici di screening per HBsAg, anti-HBc, anti-HCV e di appropriati test di conferma.

 

HBV - Il rischio di epatite B post-trasfusionale è attualmente estremamente ridotto grazie alla introduzione di due test combinati di screening: la determinazione dell'HBsAg e la determinazione dell'anticorpo anti-HBc (anti-core). Con tali test l'epatite B non è identificabile solo qualora il donatore si trovi nelle prime fasi di incubazione (fase finestra) o sia infettato da un mutante.

Il test per la determinazione dell’antigene di superficie del virus dell’epatite B (HbsAg) è stato reso obbligatorio nel 1978 (circolare MS n. 68 del 1978: controllo dell'HBsAg su ogni singolo prelievo di sangue o plasma). Da allora la tecnologia ha messo a disposizione per lo screening dell’HBsAg ritrovati sempre più all’avanguardia, passando dall’agglutinazione al lattice degli anni '70, ai test RIA e quindi ELISA degli anni '80-'90 per arrivare alla più recente chemiluminescenza. Ciò nonostante il rischio residuo per l’epatite B è più alto rispetto a quelli sia dell’epatite C sia dell’HIV (vedi tabella).

 

Stime di rischio residuo con la trasfusione in Europa nel 1997

Epatite B

1 caso su 398.499 donazioni

Epatite C

1 caso su 620.754 donazioni

Infezione da HIV

1 caso su 2.323.778 donazioni

 

Il limite di sensibilità per le particelle di HbsAg dei reagenti in uso attualmente nei laboratori di screening, seppur molto basso (alcuni kit sono capaci di svelare concentrazioni dell’antigene nel siero inferiori a 0,1 PEI U/mL) a volte non riesce a svelare antigenemie estremamente basse: questo può in parte spiegare perché il virus dell'epatite B (HBV) continua ad essere una causa di epatite post-trasfusionale. Un’altra causa può essere la diversa sensibilità di alcuni kit nello svelare l’HbsAg quando è contemporaneamente presente l’anticorpo corrispondente anti-HBs: la presenza dell’anticorpo innalza la soglia di sensibilità mancando di svelare concentrazioni estremamente basse dell’HBsAg.

Alcuni donatori portatori di mutanti del virus dell’epatite B possono essere negativi alla ricerca dell'HBsAg. Spesso la causa è dovuta alla presenza di una mutazione dell'epitopo "a" dell'antigene di superficie. La comparsa della mutazione è da attribuire alla pressione selettiva degli anticorpi anti-HBs sia indotti dal vaccino che somministrati terapeuticamente. Sono state descritte alcune varianti dell’epitopo “a” che reagiscono solo con anticorpi policlonali. L’uso di anticorpi monoclonali nei kit diagnostici quindi se da un lato aumenta la sensibilità e la specificità del test dall’altro però ci pone a rischio per quanto riguarda questo tipo di virus mutante.

Lo screening anti-HBc è ritenuto in gardo di prevenire diversi casi di epatite trasmessi con la trasfusione, ma la questione è molto controversa ed alcuni autori escludono un valore predittivo positivo a questa indagine. Nell’epatite B, come nell’infezione da HIV, almeno il 90 % del rischio di trasmissione della malattia con la trasfusione è imputabile alla donazione effettuata nella fase finestra che è stata quantificata della durata di 59 giorni nei quali solo l'HBV DNA è dosabile.

E’ stato stimato che la dose infettante di HBV è costituita da 10 a 20 particelle virali o DNA equivalenti. A causa dell’esiguità della dose infettante anche le tecniche di amplificazione degli acidi nucleici effettuata in pool di plasma possono fallire la scoperta di donazioni infette con HBV.

In un recente studio multicentrico nell'ambito del I° Progetto Sangue è stato comprovato che nonostante le premesse è praticamente impossibile trovare un donatore con ALT nella norma, HBsAg negativo, anti-HBcAg positivo e viremico con positività HBV DNA, salvo escludere soglie molto basse di viremie HBV con sensibilità della PCR inadeguata a rivelarle (Rapporto Istisan 1999/9).

In caso di positività di una donazione all’HBsAg, la reattività va confermata con un test di neutralizzazione specifico ed integrata con la ricerca degli altri marcatori epatitici (anti-HBc, anti-HBc-IgM, anti-HBs, anti-HBe e HBeAg).

 

HCV - Il test sierologico per la ricerca degli anticorpi anti-HCV è stato reso obbligatorio nel 1990 con il D.M. 21/7/90. Da allora in Italia, con l’introduzione dei test immunoenzimatici di II^ e III^ generazione, il tasso di incidenza in Italia dell’epatite C post-trasfusionale è  progressivamente diminuito fino ad attestarsi su un valore tra 0,2 e 0,3 casi per milione di abitanti, rappresentando meno dell’1% dei casi di Epatite C diagnosticata.  Con i tests di III generazione con una sensibilità   superiore al 97%, è stato notevolmente ridotto il periodo finestra dei donatori infetti fino a circa 66 gg (38-94 gg). Il rischio di ricevere sangue donato in un periodo finestra  è stato stimato in un 1 caso su 620.754 unità da donatori periodici e volontari relativamente al 1997 in Europa.

La conferma di risultati positivi allo screening viene effettuata con la tecnica dell’immunoblot, utilizzando parecchi antigeni ricombinanti e diversi controlli.

Circa i parametri da controllare nei controlli di qualità per la ricerca degli anticorpi anti-HCV è preminente la sensibilità del test con reattività con sieri positivi deboli, da effettuarsi a cura del laboratorio di screening ad ogni piastra od ogni seduta.

La maggior parte delle infezioni da HCV post-trasfusionali avviene per un contagio con  donatori in periodo finestra, per cui gli sforzi per la prevenzione si sono concentrati sullo sviluppo di nuovi test di screening che prevedono l’introduzione di metodiche semplici, sensibili e specifiche per la ricerca del genoma virale nel sangue dei donatori. Attualmente la ricerca dei costituenti virali dell’HCV mediante tecnica di amplificazione degli acidi nucleici (NAT), prevista a partire dalla CM n. 17 del 30 ottobre 2000 ha permesso un definitivo miglioramento in questa diagnostica.

 

HIV - Il rischio da trasfusione dell'HIV si è drasticamente ridotto a partire dal 1985. Emblematica è la situazione degli Stati Uniti dove si è arrivati nel 1992-93 ad avere un caso su 450.000-660.000 unità di sangue, a partire dai valori di 1:153.000 unità che si registravano negli anni immediatamente successivi all'introduzione dello screening. Stime coerenti con I dati sopra riportati sono state riportate anche in Francia (1:588.000) ed in Italia (1:600.000). Nel 1997 sono state fatte in Europa stime ancora più basse (1:2.323.778).

La diagnosi di infezione da HIV viene ottenuta con la dimostrazione della presenza del virus nell'organismo o con quella della relativa risposta anticorpale. Il metodo standard di screening è la ricerca degli anticorpi anti-HIV 1/2 con il saggio immunoenzimatico.

La maggior parte degli individui sviluppa gli anticorpi contro il virus a poche settimane o a pochi mesi dall'infezione virale e nella quasi totalità entro sei mesi. Questo periodo di "finestra immunologica" di circa 22 giorni (6-38) rappresenta il determinante imponderabile del rischio infettivologico trasfusionale da HIV nello screening con anti-HIV.

Il test immunoenzimatico ha sensibilità >95% e specificità pari al 95%, tuttavia possono verificarsi casi di falsi positivi per reazioni crociate con anticorpi verso antigeni di istocompatibilità (Classe II) o autoanticorpi.

Il saggio di conferma viene effettuato con il WB (Western Blot) con alta specificità e sensibilità (pari al 99,9%) verso tutti gli anticorpi diretti contro gli antigeni virali delle diverse regioni (gag, pol ed env).

Risultati falsi negativi sono limitati al "periodo finestra".

La sola positività di una proteina (es. p24) caratterizza i test definiti indeterminati.

La diagnosi finale di una infezione da HIV trasmessa con il sangue viene posta da una sieroconversione che intervenga da 4 a 12 settimane dopo una trasfusione, in assenza di ogni altro possibile fattore di rischio. Le tecniche di biologia molecolare possono dimostrare la reale identità fra i ceppi virali presenti nel donatore e nel ricevente.

La diagnosi di una infezione da HIV trasmessa per via trasfusionale viene usualmente posta con un accurato look-back condotto sul ricevente. L’instaurarsi di sintomi quali infezioni opportunistiche, bassi conteggi di CD4 o presenza di particolari neoplasie classiche dell'AIDS può rappresentare la prima indicazione di una infezione da HIV.

In alcuni riceventi, il tempo intercorso fra la trasfusione e la comparsa di un AIDS sintomatico può essere di soli 2-3 anni.

 

Un fondamentale passo avanti nella prevenzione delle malattie da HBV, HIV ed HCV si è recentemente avuto grazie alle tecnologie di amplificazione genica, quali la nucleic acid technic (NAT), com’è possibile vedere nella tabella che segue.

 

Stima della riduzione del rischio residuo post-trasfusionale per l’infezione da HCV, HIV e HBV dopo l’implementazione del test NAT

 

fase finestra (in giorni)

Riduzione %

Casi stimati/106 donazioni

EIA

NAT

 

 

HCV

70

12

83

1,3 (0,9-1,6)

HBV

56

41

27

8,3 (5,7-10,9)

HIV

22

11

50

1,1 (0,8 1,5)

 EIA: esame immunoenzimatico  NAT: metodica di amplificazione genica

 

Altre virosi

 

Citomegalovirus (CMV), Human Herpes Virus 6 (HHV-6), EBV e Parvovirus B19 sono virus a sede linfocitaria associati con infezioni post-trasfusionali.

Gli anticorpi contro questi virus sono presenti dal 50% al 90% degli adulti. La trasmissione e la sintomatologia clinica con sequele anche estremamente gravi anche mortali compaiono soprattutto nei pazienti immunocompromessi come neonati, prematuri, gravide sieronegative, pazienti trapiantati e pazienti sieronegativi splenectomizzati. Le manifestazioni cliniche in questi pazienti sono rappresentate da: epatiti, polmoniti (la più frequente complicazione mortale), retiniti, malattie del SNC, gastrointestinali o ematologiche.

L'infezione da CMV può interessare qualsiasi età ed è di solito asintomatica e clinicamente inapparente. La presenza di anticorpi specifici, a differenza di quanto si verifica in molte altre infezioni, non è espressione di infezione superata ed immunità acquisita, ma soltanto l'espressione di una possibile reinfezione esogena o di una possibile riattivazione.

 

Per concludere, è necessario tenere presente che:

1.   non tutte le infezioni associate a trasfusioni sono veramente secondarie alla trasfusione stessa, poiché con un rischio residuo così piccolo è molto probabile che un’altra, più comune,  via di trasmissione sia implicata.

2.    Le prime cinque cause di trasfusioni fatali sono: emolisi (generalmenre dovuta a errore AB0), contaminazione batterica, TRALI (transfusion-related acute lung injury, infezioni varie non batteriche e GVHD legata alla trasfusione.

PROGRESSIONE A MALATTIA DELLE INFEZIONI TRASMESSE CON LA TRASFUSIONE

I riceventi che abbiano acquisito l'infezione da HIV con una trasfusione di sangue progrediscono nella malattia conclamata in modo pressoché identico a quello dei soggetti infettati per altre vie, sempre che sopravvivano alla patologia per la quale si è resa necessaria la trasfusione.

Molto più rari sono i casi di malattia che si sviluppa in seguito ad infezione da HTLV-I o II.

E' stato stimato che il 4% degli individui infettati alla nascita da HTLV-I possa progredire verso lo sviluppo di un linfoma-leucemia a cellule T dell'adulto (ATL), in genere un periodo di incubazione variabile tra 20 e 30 anni. La sindrome neurologica nota come mielopatia associata ad HTLV-I (HAM) è stata stimata comparire dopo un periodo di mesi o anni dall'infezione in uno 0,25% degli infetti. Una sindrome simile è stata documentata anche in concomitanza dell'infezione da HTLV-II.

La storia naturale dell'infezione da HCV acquisita con una trasfusione è simile a quella dell'infezione acquisita attraverso le altre vie note. Approssimativamente il 50% dei pazienti è destinato a sviluppare un'elevazione cronica degli enzimi epatici ed il 10% una cirrosi evidenziabile al microscopio.

Una piccola percentuale di pazienti infetti è destinata a sviluppare sintomi tali da richiedere un trattamento.

Non si è comunque potuta dimostrare una maggiore mortalità con un follow up durato 18 anni in pazienti con documentata infezione da HCV post-trasfusionale.

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