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Le più frequenti cause di errore nella trasfusione appaiono attribuibili a errori di etichettatura e di identificazione del paziente da trasfondere (2) che possono verificarsi sia nella struttura trasfusionale, sia in reparto, al momento del prelievo di campioni di sangue per gruppo e/o compatibilità. Il progetto SHOT (Serious Hazards of Transfusion) condotto nel Regno Unito nel periodo 1996-1999 ha evidenziato, su 618 segnalazioni di incidenti trasfusionali, 335 casi di trasfusione di sangue errato (il 54,2%), di cui 140 per errata identificazione al letto del paziente, con 4 morti e 29 casi di morbilità maggiore immediata (3). Se nei paesi di lingua anglosassone sono state proposte varie strategie per un'identificazione sicura del paziente, già dal 1992 in Italia il documento “Il buon uso del sangue” della Commissione Nazionale per il Servizio Trasfusionale proponeva “misure attuabili anche in assenza di strumenti oggettivi di identificazione: controllo a due livelli dell’identità del paziente, dei campioni di sangue e dei moduli di richiesta” descrivendo nel dettaglio la procedura: “l’infermiere responsabile verifica l’identità tra ricevente e nominativo al quale l’unità è stata assegnata, riportato sia sulla sacca sia sul modulo d’assegnazione-trasfusione; tale verifica viene quindi ripetuta dal medico che effettua la trasfusione, il quale controlla inoltre la compatibilità potenziale tra gruppo sanguigno del paziente e gruppo sanguigno dell’unità da trasfondere” un metodo tutto sommato semplice, che non richiedeva investimenti economici ma soltanto l’istituzione di linee guida chiare, sia nelle procedure di prelievo dei campioni sia nella somministrazione delle unità di sangue. La constatazione che l’inosservanza delle procedure e dei protocolli operativi è responsabile della maggioranza degli errori trasfusionali ha portato numerosi autori a promuovere l’istituzione di Sistemi di Verifica e Revisione della Qualità o chiare procedure scritte, tra le quali le fondamentali linee guida proposte nel 1999 dal British Committee for Standards in Haematology, che dettano i principi basilari da cui possono trarre origine politiche gestionali locali, procedure scritte, protocolli (4). Tra le strategie attuate per la sicurezza del ricevente grande rilevanza viene data alla componente umana, parte attiva di questa delicata fase del processo trasfusionale e, in particolare, alla necessità dell’identificazione di personale con training appropriato addetto alla trasfusione è stata più volte sottolineata ed i risultati di vari studi hanno dimostrato il notevole vantaggio che rappresenta l’istituzione di una figura professionale specificamente preparata nel coordinare l’intero processo trasfusionale (5, 6). Partendo dalla considerazione che una parte dei danni subiti dai pazienti sono il risultato di un’interazione tra errori commessi dal personale e carenze nel sistema organizzativo, molti autori hanno anche puntato la loro attenzione sul contesto lavorativo (7), arrivando alla conclusione che un sistema organizzativo di reporting che incoraggiasse la rivelazione di errori costituirebbe un grande vantaggio per la gestione del rischio in medicina trasfusionale. Altre strategie introducono infine nella pratica clinica l’utilizzo di dispositivi più o meno complessi volti a limitare o, perlomeno, a supportare l’impegno umano, quali l’utilizzo di braccialetti identificativi, sistemi computerizzati che ricordano on line le operazioni da compiere, ne documentano l’esecuzione e segnalano eventuali non conformità e sistemi di barriera concepiti in modo che una scorrettezza in una fase del processo renda impossibile l’esecuzione delle fasi successive. Bibliografia
Normativa di riferimento
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