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Inattivazione

 

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I primi studi sull'uso delle radiazioni ultraviolette (UV) per inattivare i plasmi "itterigeni" senza alterare le proteine plasmatiche risalgono alla metà degli anni '50. Successivamente, fu dimostrato che il riscaldamento delle soluzioni di albumina a 60° per 10 ore, in presenza di sostanze "stabilizzatrici" come l'acetil-triptofano o il caprilato di sodio, alterava pochissimo il prodotto e lo rendeva sicuro.  

E' stata quindi la necessità di combattere la cosiddetta epatite nonA-nonB a stimolare ulteriormente la ricerca di metodi di inattivazione virale applicabili agli emoderivati e ciò spiega come in un tempo relativamente breve si sia riusciti a limitare la diffusione dell'infezione da HIV.

Attualmente, nonostante i grandi miglioramenti ottenuti, la problematica correlata ai procedimenti di inattivazione nella lavorazione del plasma ruota ancora su due aspetti principali:

  • l'efficacia della metodica di inattivazione, valutata su modelli virali con studi preclinici ed espressa come riduzione in punti logaritmici della minima carica infettante

  • il mantenimento dell'attività biologica delle proteine plasmatiche.

A ciò si devono aggiungere specifici fattori quali, in particolare:  

a.  il rischio di contaminazione virale che si può avere nei diversi prodotti; ad  esempio, è nei fattori della coagulazione ottenuti dal criosurnatante e dal crioprecipitato che si possono raccogliere e manifestare una carica patogena gli eventuali virus sfuggiti ai rigorosi controlli sul plasma di partenza, perché sconosciuti o presenti in concentrazione così bassa da non essere riscontrabili con i test attualmente in uso.

b.  il fatto, dimostrato da numerosi esperimenti, che i virus sono protetti in vario grado dalle diverse proteine plasmatiche; ad esempio, sono più stabili nel concentrato di complesso protrombinico che in quello di fattore VIII.

c.  il pericolo dell'azione protettiva sui virus manifestata da eventuali stabilizzanti utilizzati per preservare le proteine plasmatiche durante le fasi di inattivazione.

 

Le metodiche di inattivazione virale utilizzate sono molteplici e si basano generalmente su metodi fisici come il trattamento al calore in varie forme e condizioni, su metodi chimici che utilizzano sistemi solventi/detergenti o solo solventi e su metodi enzimatici con l'uso di enzimi proteolitici.

Tra questi metodi differenti, quello che prevede il trattamento al calore è apparso il metodo più efficace e conveniente, da utilizzare, però, in condizioni diverse a seconda del prodotto da trattare, perché le proteine plasmatiche differiscono tra di loro per quanto riguarda la stabilità al calore. Infatti se, ad esempio, una proteina plasmatica come l'albumina può sopportare  trattamenti spinti senza denaturazione,  altre proteine plasmatiche, tipicamente i fattori della coagulazione, non sono così stabili e devono essere sottoposte a trattamenti al calore prodotto-specifici, tali cioè da non  modificare  la  loro  struttura molecolare e non alterare la loro attività biologica.

Se il trattamento termico a 60°C per 10 ore è valido per l'albumina e per l'inattivazione dell'HIV in soluzioni di antitrombina III e quello a 60°C per 20 ore è ritenuto sufficiente per l'inattivazione dell'HIV o del CMV nei concentrati di fattori VIII e IX, più difficile risulta l'inattivazione del virus dell'epatite B e C nei fattori della coagulazione liofilizzati, dove il trattamento comporta una grave perdita di attività biologica. 

Ciò deve far riflettere sui metodi di sterilizzazione del prodotto finito o del "materiale grezzo" di partenza, quando non sia possibile un accurato controllo.

Buoni risultati sono stati ottenuti con l'uso combinato di solventi/detergenti, quali etere etilico e Tween-80, capaci di inattivare quantità di virus B, la dose media infettante lo scimpanzè, con recupero del 70% dell'attività del concentrato antiemofilico di partenza; meglio ancora con tri(n-butil)-fosfato (TNBP) solo, associato al Tween-80 (8) o al sodio colato, la cui rimozione non è necessaria, come dimostrato in una sperimentazione clinica multicentrica nei riguardi di epatiti e HIV.

Un metodo per rimuovere l'HIV mediante membrane porose di polimeri è stato recentemente sperimentato da ricercatori giapponesi, che propongono l'uso di queste membrane anche dopo l'inattivazione al calore dei plasma-derivati, sottolineando che la loro tecnologia, basata su un semplice principio fisico, potrebbe essere utilizzata per rimuovere qualunque agente patogeno.

Un altro metodo basato sull'uso di un laser "intermittente" che emette UV di 30 nm, è stato recentemente proposto e sperimentato su piastrine volutamente contaminate con poliovirus, che irradiate con dosi 521.5 J/cm2 non mostravano danni sia per quanto riguardava la capacità aggregante sia la liberazione di serotonina.

L'uso di radiazioni ultraviolette di elevata lunghezza d'onda (400 nm), associate a sostanze come il metossipsoralene, si è dimostrata efficace per la decontaminazione di piastrine volutamente infettate con E. coli Staphiloococcus a., un batteriofago e il virus della leucemia felina, senza alcun danneggiamento morfologico e funzionale delle piastrine conservate per 96 ore. Altre sostanze fotodinamiche derivate dalle ematoporfirine sono state pure sperimentate con successo in combinazione con la luce a livello del visibile (630 nm e 5 J/cm2). Ovviamente, oltre alla lunghezza d'onda della radiazione, va tenuto conto del tipo di materiale plastico impiegato, del volume del contenuto, dello stato di quiete o di agitazione del preparato, come dimostrato recentemente.

Infine, l'uso combinato di radiazioni UV e di beta-propiolattone rappresenta l'altro mezzo di inattivazione virale degli emoderivati in uso nelle industrie. Il beta-propiolattone, sostanza che agisce anche come alchilante con gli acidi nucleici virali, è, a basso dosaggio, perfettamente tollerato, come il suo isomero acido alfa- idrossipropionico o acido lattico; esso non può però essere usato da solo perchè, alla concentrazione necessaria per esercitare la sua azione battericida, fungicida e antivirale, denaturerebbe anche le proteine, denaturazione a cui vanno incontro anche con dosi terapeuticamente efficaci di UV. L'uso combinato dei due agenti da luogo ad un sinergismo di potenziamento capace di inattivare moltissimi virus, agendo a temperature inferiori a 37°C. Questa tecnica, giustamente definita "a freddo"  permette perciò la sterilizzazione delle proteine labili della coagulazione, degli enzimi e degli inibitori enzimatici, senza perdita dell'attivita biologica e senza formazione di neodeterminanti antigenici capaci di sensibilizzare col tempo il ricevente.

La mancata alterazione delle molecole rende inoltre questa metodica molto idonea per la sterilizzazione delle immunoglobuline (Ig), specie per uso endovenoso. Delle quattro metodiche usate per impedire che le Ig preparate con il metodo di Cohn attivino il complemento (modificazione enzimatica con pepsina-plasmina, trattamento con polietilen-glicole a pH acido e con beta-propio-lattone) solo le ultime tre lasciano inalterata la struttura consentendo al frammento Fc di svolgere le proprie fondamentali azioni, tra cui l'opsonizzazione e il passaggio della barriera placentare ed ematoencefalica: fra queste, quella con beta-propiolattone, combina perfettamente i vantaggi della sicurezza chimico-immunologica e della sterilità.

Altre tecniche sono rappresentate dalle radiazioni gamma, che alla dose di 1 MeRad sono capaci di inattivare alcuni virus contenuti in preparati di fattore VIII; a dosi superiori non aumentano la capacità sterilizzante, mentre creano formazioni di aggregati proteici che rendono sconsigliabile il metodo.  

 

Tutti i procedimenti di inattivazione virale debbono preliminarmente soddisfare i seguenti requisiti:

  • salvaguardare l'attività biologica del prodotto, 

  • lasciare inalterata la sua emivita, 

  • non modificare i siti antigenici della molecola, 

  • inattivare efficacemente i virus.  

Molte sono le sostanze chimiche o le procedure fisiche in uso.

Aldeidi, alcoli, fenoli, ipoclorito, detergenti vari, perossidi, beta- propiolattone, ossido di etilene, cloroformio, radiazioni ultraviolette e ionizzanti, microonde ecc., sono mezzi idonei per la sterilizzazione di strumenti o materiali chirurgici o la decontaminazione di alimenti e bevande. Ma nel caso degli emocomponenti e degli emoderivati vanno preservate le attività biologiche delle cellule o delle frazioni proteiche più o meno labili, che devono provenire da miscele di plasmi non contaminati da residui chimici ed essere lavorate senza trasformazione in costanze tossiche, carcinogene o dotate di proprietà immunogene. 

I metodi utilizzati per l'inattivazione virale nei fattori della coagulazione sono riportati nella tabella che illustra, per ciascun metodo, il grado di inattivazione per HIV riportato in letteratura.

 

Metodo

Inattivazione 

HIV (log10ID)

Inattivazione termica

Calore secco (dry heat)

60-80°C

30-72 ore 

> 3  

Calore umido (wet heat)

pastorizzazione

steam treatment

sospensione in etano

60°C

60°C

61°C

10 ore

10 ore

20 ore

> 5.5 

> 6 

> 5

Inattivazione chimica

Solventi/detergenti 

> 4 

 

L'inattivazione termica è stata proposta secondo due procedimenti: il cosiddetto calore secco (dry heat), consistente nel riscaldamento in bagnomaria del prodotto finito allo stato liofilo a temperature variabili fra 60 e 80°C e per periodi di tempo di 30-72 h e il cosiddetto calore umido (wet heat) che comporta il riscaldamento del prodotto liofilo umidificato o del prodotto liquido in presenza di sostanze protettive.

Il primo, pur lasciando inalterate le proprietà biologiche del prodotto e portando solo ad una modesta perdita di attività, non si è dimostrato totalmente efficace nei confronti dell'HIV, essendosi verificati casi di sieroconversioni in pazienti trattati con gli emoderivati così trattati. Tale metodo è stato comunque abbandonato anche per avere dimostrato una soltanto scarsissima efficacia nei confronti dei virus dell'epatite nonA-nonB.

Applicazioni diverse del wet heat sono rappresentate dal riscaldamento in bagnomaria del prodotto in soluzione acquosa, a 60°C per 10 h (pastorizzazione), dal riscaldamento del prodotto liofilo umidificato, sotto pressione in atmosfera inerte a 60°C per 10 h (steam treatment) o dal riscaldamento del prodotto liofilizzato risospeso in eptano a 61°C per 20 h.

Un altro approccio proposto è l'inattivazione chimica mediante l'uso di solventi organici e di detergenti, basata sul fatto che la maggior parte dei virus trasmissibili col sangue, compreso l'HIV, ha un involucro lipidico la cui rimozione rende i virus non infettanti.

Altri metodi comprendono il trattamento con beta-propiolattone associato o meno a radiazione UV e la cromatografia a interazione idrofobica, nella quale il riscaldamento è preceduto da una fase di adsorbimento su octanohydrazyde Sepharose 4B che di per sé comporterebbe una diminuzione della carica virale.

La verifica dell'efficacia dei vari metodi viene fatta in laboratorio, ripetendo in scala ridotta le fasi del procedimento industriale, aggiungendo deliberatamente, prima della procedura, una quantità nota, misurata in dosi infettanti (ID), di virus HIV o di altri virus; dopo il trattamento viene misurata in colture cellulari sensibili l'infettività residua. 

Negli ultimi anni sono stati condotti numerosi studi clinici controllati per valutare la sicurezza dei fattori della coagulazione sottoposti ai vari metodi di inattivazione virale, uniformati a partire dal 1984  secondo le direttive emanate dall'International Committee on thrombosis and hemostasis e recentemente sottoposte a revisione.

In base ai risultati degli studi di inattivazione in vitro e degli studi di follow-up clinico dei pazienti trattati con emoderivati attivati si può dire che la pastorizzazione, lo steam treatment e l'inattivazione chimica con solventi organici e detergenti sono i procedimenti che si sono rivelati più efficaci.

Tutti i metodi sopra indicati sono stati pertanto autorizzati per essere utilizzati per gli emoderivati attualmente in commercio in Italia.

Recentemente sono state proposte nuove metodiche di inattivazione virale che prevedono l'uso di solventi organici e detergenti. Questi solventi organici sono altamente efficaci nel distruggere l'involucro lipidico di molti virus come l'HIV e offrono il vantaggio di poter essere usati a temperatura ambiente, il che comporta una migliore resa nella preparazione dei concentrati industriali.

In base agli studi effettuati si ritiene che le metodiche di inattivazione che prevedono l'uso del calore siano più efficaci su concentrati allo stato liquido piuttosto che allo stato liofilo, come se la liofilizzazione rappresentasse per sé un procedimento che comporti una certa protezione dei virus nei riguardi del calore.

Tutti i metodi citati hanno comunque perso importanza di fronte al l'isolamento e al clonaggio del gene del fattore VIII e la determinazione della struttura primaria, che, hanno aperto la via a una nuova possibilità terapeutica dell'emofilia: il trattamento con fattore VIII ricombinante (rFVIII), iniziato in via sperimentale nel 1987.

 

 Copyright© 1999/2005 - Francesco Angelo Zanolli - Ultimo aggiornamento in data 16/11/2005