Il primo premio della lotteria
È uno schifo la
fortuna. La sua falsa somiglianza con il merito inganna gli uomini.
Victor Hugo
Oggi
hai una brutta cera.
Ho un diavolo per capello.
Domenica sono stato al mio paese, in montagna, per la festa patronale. Come
sempre, organizzano una lotteria a favore della parrocchia e vendono circa
1.000 biglietti. A 10 euro l’uno, è un sollievo per il Parroco.
Pensa che il primo premio era
un motorino. Non di quelli di oggi, costosissimi, però il suo servizio poteva
farlo. Così ho comprato 5 biglietti.
E hai
perso 50 euro. È la vita, non bisogna prendersela più di tanto. Non bisognava
aspettarsi molto da 5 biglietti.
Il fatto è che ho vinto il
primo premio. Il motorino.
Che
fortuna! Ma allora perché hai quella cera?
Perché sarei dovuto andare a
ritirarlo ieri, presentando il biglietto, ma il biglietto non lo trovo più! Che
rabbia! Come sono sfortunato!
Aspetta.
C’è qualcosa che non quadra. Prima, mi parli di una vincita, poi ti dichiari sfortunato.
Allora,
sei fortunato o sfortunato?
Sono stato fortunato a vincere
il motorino e sfortunato a perdere il biglietto. Ma nel complesso sono stato
sfortunato.
Un ragionamento
ben articolato ma bizzarro. Tralasciando il fatto che perdere il biglietto mi
sembra più opera della tua trascuratezza che della sfortuna, in realtà stai un
po’ facendo il bilancio della situazione nel suo complesso: siccome è finita
male, ti ritieni sfortunato.
E non è così? Cos’altro potrei
dire?
Tante
altre cose. Io, per esempio, la vedo in questo modo: sei stato fortunato a
vincere il motorino e sfortunato a perdere il biglietto, cioè il motorino,
pertanto fortuna e sfortuna si
elidono a vicenda e in definitiva non sei stato niente di tutto ciò; né
fortunato né sfortunato.
La
dimostrazione è che non possedevi il motorino prima della lotteria e non lo
possiedi adesso. Di cosa ti lamenti? Nulla è cambiato nella tua vita.
A eccezione dei 50 euro in
meno.
Certo,
ma questa non è sfortuna. Bisognava aspettarselo. È normale perdere soldi alla
lotteria, a meno di non comprare la maggior parte dei biglietti, mentre è raro
vincere il primo premio.
Perché dici “raro” e non
“fortuna”?
Perché vorrei
togliere a questi eventi la connotazione di merito o demerito implicito nelle
parole fortuna e sfortuna. Normalmente, si definisce fortunato chi incorre in
un evento raro e favorevole, e sfortunato chi subisce un evento raro e
sfavorevole. Ma hai visto che gli eventi possono essere collegati e il bilancio
deve tenere conto di tutto.
C’è chi
considera complessivamente sfortunato l’annullamento di un evento fortunato (o
viceversa) e chi, più saggio, tira le somme in un altro modo: i due eventi si
elidono, pertanto è come se non fossero mai avvenuti e non si possono inserire
nel bilancio della fortuna.
Sarà una bella consolazione, ma
a me dispiace lo stesso.
Ti
propongo un altro quesito. Immagina di avere ritirato il motorino, di
inforcarlo per tornare a casa e di finire a terra con una gamba rotta. Come
giudicheresti questi eventi? Separatamente o complessivamente? Un fatto tutto
sommato neutro, oppure una sfortuna?
Una sfortuna blu. Starei peggio
di adesso.
E
avresti ragione. Perché i due eventi non sono esattamente uno l’inverso
dell’altro. Non sembra legittimo annullarli. E se la caduta avvenisse il giorno
dopo?
Lo stesso. Molto sfortunato.
E una
settimana dopo?
Lo stesso. L’evento è ancora
troppo vicino.
E un
anno dopo? E dopo cinque anni?
Mah. In tal caso non so se
potrei ancora considerare la caduta come un evento collegato alla vincita del
motorino.
Tenderei a dire che sono stato
fortunato quando ho vinto e sfortunato cinque anni dopo. È diverso dal dire che
nell’affare motorino sono stato complessivamente sfortunato. Anche se, secondo
logica: niente motorino, niente caduta.
Però, ragionando così, non
potrei mai decidere nulla in fatto di fortuna. Dovrei aspettare l’ultimo giorno
della mia vita per fare il bilancio.
Quanto
tempo deve passare perché due eventi si considerino non più collegati? È una
questione dai risvolti psicologici. Considera inoltre che l’evento “motorino” è
solo uno delle migliaia di eventi che accadono in una vita, e il bilancio non
si chiude mai.
Questi discorsi sulla fortuna
mi hanno fatto bene, mi hanno rasserenato.
Buon
per te. Io di solito li trovo irritanti. Anche perché vengono spesso fatti a
sproposito. Io tendo sempre a ragionare in termini di eventi comuni oppure
rari.
Inoltre
ragiono in termini probabilistici: per essere attribuiti alla sfortuna, certi
eventi devono essere veramente casuali, cioè non influenzati dai comportamenti.
Non è
sfortuna la perdita del biglietto, ma un elemento di trascuratezza umana. Altro
che sfortuna: è dabbenaggine.
Fammi un esempio di questi
discorsi irritanti.
Ne ho
molti. Ogni tanto qualcuno mi chiede del denaro per aiutare i bambini africani
“sfortunati”.
Ne conosco anch’io. Certo,
nascere in Africa, in certi posti, è davvero una bella sfortuna. Non è come
nascere a Milano.
Lo
contesto. Io sono nato a Milano, da genitori milanesi, lavoratori non soggetti
a trasferimenti. E dove potevo nascere allora? In Nigeria? No di certo.
Potevo
nascere solo a Milano, ma questa non è fortuna, è la conseguenza necessaria di
quanto ho detto.
Certo
che è meglio nascere a Milano piuttosto che in Nigeria.
Ma non
si nasce in un posto “per caso”; per parlare di fortuna si dovrebbe ipotizzare
un meccanismo veramente casuale di distribuzione delle persone.
Non ti seguo.
Ad
esempio, un ipotetico Governo Mondiale potrebbe inserire tutti i nomi di tutti
gli uomini in un vaso ed estrarli a caso: tu vai a Milano, tu invece in
Nigeria.
Qui
interviene la fortuna; quando le condizioni per essere scelti sono le stesse
per ciascuno.
Al
massimo mi si può dire che io non ho alcun merito per essere nato a Milano. Ma
non mi si dica che sono fortunato.
E non
funziona neppure la solita frase ipotetica: se nascevi in Nigeria… Io, inteso
come somma della mia storia e delle mie caratteristiche, non potevo nascere in Nigeria. Semplicemente, non sarei io, ma un
altro, nigeriano.
Queste frasi ti irritano, a
quanto pare.
E ce ne
sono altre. Quante volte mi sono sentito dire: fai presto a parlare, tu che hai
avuto la fortuna di avere un buon lavoro e ben retribuito.
Ora,
qui intervengono davvero molti fattori, ma la fortuna è proprio l’ultimo da
considerare.
Quando
ho iniziato a lavorare in una certa azienda, il mio numero di matricola era
160. Quando ne sono uscito, 25 anni dopo, la numerazione dei nuovi assunti era
arrivata a 2.561. Nel frattempo sono arrivato a ricoprire una posizione che
solo altri 19 colleghi sono riusciti a raggiungere, nello stesso periodo.
Ora, le
mie possibilità erano 20 su 2.400, cioè 1 su 120. E questo in un’organizzazione
in cui i più si fermano prima o, addirittura, sono invitati a uscire.
È
fortuna questa? Anche ammettendo che l’impiego iniziale mi fosse stato
assegnato per mezzo di un sorteggio, è davvero pensabile raggiungere un
obiettivo con probabilità 1/120 solo sfruttando quella iniziale fortuna per il
quarto di secolo successivo?
Sembra difficile dissentire.
Un
altro discorso che m’irrita sentire suona più o meno così: perché questo capita
proprio a me? Lo sento spesso, ma non ha senso: quel fatto così deprecabile a
qualcuno deve pur accadere.
Non sono sicuro di capire.
Torniamo
all’esempio degli incidenti stradali. Non sono veramente casuali, in quanto
l’elemento umano interviene in buona misura, ma fingiamo che si tratti di
casualità.
Ora, se
il sistema della circolazione stradale è strutturalmente tale da generare
mediamente 18 morti al giorno, non ha senso chiedersi poi chi sono
individualmente quei 18.
Si può
compiangerli, si può trovare motivi a favore e contro, ma il sistema non può
evitarli. È come se dicesse: ne voglio 18, non m’importa quali.
Bisogna
anche tenere conto del fatto che in caso di ripetizione di eventi
sufficientemente numerosi, al limite in numero infinito, ogni caso possibile
deve accadere con una frequenza pari alla sua probabilità. È la legge dei
grandi numeri. Una pietra miliare per la comprensione del mondo.
Torniamo
all’esempio da cui sei partito: la lotteria. Un tale vince il primo premio su
1.000 biglietti. Mentre va a incassarlo, gli cade una tegola sulla testa, e la
sua gioia è finita. Ipotizziamo che ogni 1.000 tegole una centri una testa
d’uomo.
Si
sarebbe tentati di gridare alla sfortuna,
o di chiedersi: perché proprio a lui, che era così contento.
Ma se
saliamo di livello e ipotizziamo una serie infinita di lotterie, vediamo che
necessariamente 1 su 1.000 deve vincere e di questi vincitori 1 su 1.000
finisce necessariamente sotto tegola, cioè 1 su un milione di giocatori.
Al
“sistema lotteria”, considerato infinito e perfettamente casuale, non importa a
chi capita; basta che capiti a 1 su un milione di giocatori.
Questo discorso probabilistico
basato su eventi perfettamente casuali e indipendenti sfugge a molti.
Sfugge
a molti anche il concetto di probabilità a priori e probabilità a posteriori,
per esempio fra i giocatori del Lotto e della roulette, che puntano i numeri
ritardatari.
Secondo
la teoria, a ogni estrazione ciascun numero ha esattamente la stessa
probabilità di uscire, indipendentemente dagli altri e dalle estrazioni
precedenti.
E
questo tutti lo capiscono. Tuttavia, molti ritengono che, se per la legge dei
grandi numeri, il rosso e il nero alla lunga devono uscire in pari misura,
l’uscita ripetuta di un colore aumenta la probabilità di uscita dell’altro.
Questi
giocatori confondono i due tipi di probabilità, e finiscono nella situazione
denominata “rovina del giocatore”.
Il loro
ragionamento in sintesi è questo: poiché l’uscita consecutiva di 10 rossi è
improbabile (succede in un caso su 1.000) sarà ancora più improbabile (un caso
su 2.000) l’uscita di 11 rossi consecutivi; pertanto punto sul nero.
Il
ragionamento non è corretto. Un conto è chiedersi a priori quale probabilità ha
l’uscita consecutiva di 11 rossi, un altro è chiedersi quale probabilità ha
l’uscita di 1 rosso “dopo” che ne sono già usciti 10.
Il
teorema di Bayes risolve il problema nel senso che la probabilità di un rosso
dopo 10 rossi è esattamente uguale alla probabilità di un nero.
Io non ho studiato il teorema di
Bayes. C’è modo di capire ugualmente?
Sì.
Immagina la solita serie infinita e casuale di estrazioni.
Allora,
necessariamente, ci saranno infinite serie di 10 rossi consecutivi. Se andiamo
a guardare l’estratto successivo, vediamo che in un caso su due è rosso e
nell’altro è nero. Se così non fosse, allora ci sarebbe una qualche regola di
compensazione immediata dei rossi con i neri, per rispettare la legge dei
grandi numeri; ma in tal caso la sequenza delle estrazioni non sarebbe più
casuale.
La
legge dei grandi numeri è asintotica, cioè viene sicuramente rispettata
all’infinito, ma durante il percorso la distribuzione delle estrazioni può e
deve realizzare tutte le combinazioni possibili. Non sarebbe ammissibile una
legge che impedisca le serie di 11 rossi.
Questo deve valere anche per il
gioco del Lotto. Eppure c’è una folla di giocatori che punta sui numeri
ritardatari e un’altra folla che vende i numeri buoni, calcolati con qualche
sistema.
Quest’ultimo
fatto è sconcertante. Se uno ha i numeri buoni, perché li vende? Non può
giocarli direttamente?
Di solito dicono che li hanno
avuti per mezzo di poteri soprannaturali che con loro non funzionerebbero.
Pensa
un po’ che razza di stupidaggini devono inventare. E il bello è che questo
viene considerato un argomento logico!
Ma
torniamo ai ritardatari. Premetto che se io dovessi giocare dei numeri in base
alla loro frequenza di uscita, giocherei quelli che escono più spesso, non
quelli più restii a uscire. Mi sembra più logico.
Se
escono spesso, può esserci un motivo, forse un difetto del meccanismo o una
truffa, come è già successo, e allora ne beneficio anch’io, indirettamente.
Invece un numero che non esce mai, forse non è stato neppure inserito
nell’urna, per errore o per truffa.
Vale
comunque quanto detto per il rosso e il nero. Le palline non hanno memoria e ad
ogni estrazione per loro è come se fosse la prima volta.
Mi è piaciuta la differenza tra
probabilità a priori e probabilità a posteriori.
Bene.
Allora ti faccio un altro esempio. Guarda in strada. Cosa vedi?
Vedo un’auto rossa.
Riesci
a leggere la targa?
Certo. MI828728, è un po’
vecchia.
Cosa?
Ma è un miracolo! Pensa: ci sono 35 milioni di veicoli in Italia e noi abbiamo
sotto il naso proprio il MI828728. Roba da non credere. C’era una probabilità
su 35 milioni.
Io non ci vedo niente di
miracoloso. È una targa come tante.
Vedo
che capisci al volo. Se avessimo deciso “prima” il numero di targa e “dopo”
avessimo guardato, allora sarebbe stato un miracolo. Ma il contrario non lo è di
certo.
A proposito di automobili. C’è
un problema che mi assilla. Quando mi trovo in posti sconosciuti e consulto la
carta geografica, il punto che m’interessa è quasi sempre sui bordi. Devo
continuare a sfogliare diverse tavole, anche distanti tra loro, per avere una
visione chiara. Se non è sfortuna questa!
Non è
sfortuna, ma necessità geometrica.
Guarda
questa mappa ripiegata a fisarmonica. Le dimensioni di ogni riquadro sono cm 12
x cm 20, per un totale di 240 cm2.
Se
consideriamo “scomodo” un punto situato a meno di 2 cm dal bordo, vediamo che i
punti “comodi” si trovano in un rettangolo di cm 8 x cm 16, per un totale di
128 cm2, pari a circa la metà dell’area del riquadro.
Pertanto,
c’è solo una probabilità su due che il punto che ci interessa sia “comodo”. Non
è sfortuna. È matematica.
Ma, allora, i concetti di
fortuna e sfortuna sono da buttare?
I
termini “fortuna” e “sfortuna” sono troppo carichi di fattori emotivi. È meglio
ragionare in termini di probabilità, che è possibile calcolare.
Se
consideriamo gli eventi veramente casuali (malattie, incidenti, vincite a
lotterie), i bilanci nettamente positivi e quelli nettamente negativi sono
rari. La maggior parte della buona (o della cattiva) sorte si distribuisce in
modo “normale” attorno a un valore medio.
E per i fatti della vita
quotidiana?
La
gente crede che ci siano persone “fortunate” in quanto incontrano un partner
interessante, realizzano le loro aspirazioni, intraprendono carriere
gratificanti, vivono un'esistenza ricca e felice. La gente crede che tutto ciò
succeda per caso, non perché s’impegnano più degli altri o perché possiedono
doti eccezionali o un'intelligenza superiore alla media.
Alcuni
anni fa, Richard Wiseman decise di studiare in modo scientifico le origini
della fortuna e coinvolse più di mille persone in un famoso esperimento
consistente nell’analizzare il modo di pensare e di agire dei soggetti presi in
esame, arrivando a formulare la teoria che è alla base del suo saggio
innovativo: fortunati non si nasce, si diventa! La buona sorte non è scritta
nei geni o nel libro del destino ma dipende da ciascuno e dalla sua capacità di
individuare e cogliere le opportunità favorevoli.
Sembra
che, inconsapevolmente, i fortunati reagiscano agli eventi obbedendo a quelli
che l'autore ha descritto come i principi della fortuna: comportamenti
quotidiani semplici e che possono essere “imparati” e adottati da tutti per
ingraziarsi la dea bendata e aumentare il numero di occasioni propizie. In
sintesi, si può “allenare” la mente e ottenere un cervello “fortunato”.
Ma già
in latino c’era il motto: faber est suae
quisque fortunae.
Iudico che fortuna sia arbitra della metà delle
azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci
governare l’altra metà a noi.
Machiavelli