Impresa viva
Quando un
prodotto è fabbricato da chi trova importante il proprio lavoro, sarà un
prodotto di alta qualità.
Pehr G.
Gyllenhammer
Tradizionalmente,
l’impresa è sempre stata studiata come un soggetto economico, anche se alcuni ricercatori
tendono a considerarla anche come un soggetto biologico, cioè dotata di una
vita propria.
Che l’impresa sia un soggetto
economico mi pare ovvio, ma non è altrettanto ovvio considerarla seriamente
anche come un soggetto biologico.
È vero.
L’impresa economica si caratterizza per la sua espressione organizzativa ¾
l’azienda ¾ che, a sua volta, si definisce come un ente economico durevole, rivolto
alla produzione di beni e servizi.
Nel
linguaggio comune, impresa e azienda sono considerate sinonimi. Di fatto
l’impresa è l’idea, o il sogno, dell’imprenditore, mentre l’azienda è il mezzo
che l’imprenditore usa per raggiungere i propri scopi.
Nello
studio dell’azienda si pone l’accento sul concetto di organizzazione di beni e
di persone in vista di un fine di natura economica.
Elementi costitutivi dell’azienda sono:
il patrimonio (l’insieme di beni considerati sotto forma di un sistema
organizzato); l’organizzazione (il sistema delle persone che vi lavorano, con
le loro conoscenze e le loro relazioni); la gestione (il sistema di operazioni
condotte dalle persone per il conseguimento del fine aziendale).
Questi elementi sono
caratterizzati dall'unitarietà, legata allo scopo aziendale. Una volta inseriti
nell'azienda, perdono la loro identità, in quanto diventano strumentali per
altre funzioni. Quando sono organizzati, possono avere, nel complesso, un
valore superiore alla somma dei singoli elementi.
Emerge pertanto un
survalore, chiamato avviamento.
Nello
studio dell’azienda/impresa come entità biologica, questa si considera dotata
di una qualità denominata “vita”, come qualsiasi organismo vivente.
La definizione di “vita
biologica” ha generato infinite discussioni filosofiche e scientifiche che non hanno
ancora portato a una soluzione di comune accettazione; le implicazioni
religiose sono, tra l’altro, elementi discriminanti tra le varie teorie.
Semplificando, si suole
definire dotati di vita (o almeno di vita-così-come-noi-la-conosciamo) quegli
enti fisici che dispongono, almeno, delle seguenti due proprietà: la capacità
di contrastare l'entropia, mantenendo costante nel tempo la propria struttura
fisica; e la capacità di riprodurre un’entità simile a se stessa.
Un'altra definizione, molto
empirica, può essere la seguente: gli esseri viventi sono caratterizzati dal
ciclo: nascita, crescita, riproduzione, morte.
Effettivamente, non si riesce a fare
molti progressi sul concetto di vita. Tra l’altro, in tempi abbastanza recenti,
nell’ambito del progetto denominato SETI (Search
for Extra Terrestrial Intelligence), teso alla ricerca di intelligenze
aliene, si è data enfasi al fattore intelligenza che, se da un lato è l’unico
fattore che potrebbe permettere l’identificazione di un ET, dall’altro è
limitante, in quanto la vita non è necessariamente intelligente.
Anzi, se consideriamo la vita terrestre,
la maggior parte non appare dotata di alcuna intelligenza. Si pensi a tutta la
vita vegetale e a quei 100.000 miliardi di tonnellate di microrganismi che superano
la massa di tutte le altre forme di vita messe insieme.
Per
non parlare di certi esseri umani…
L’intelligenza necessita a sua volta di
una definizione, che è lungi dall’essere stabilita in termini di generale
accettazione.
Ad esempio, nel progetto
SETI si definisce intelligente, implicitamente, qualunque ente siamo in grado
di riconoscere come dotato di intelligenza (una bella tautologia!), escludendo
sia quelli dotati di un’intelligenza così ridotta da non essere in grado di
emettere segnali che possano raggiungerci sia quelli talmente intelligenti che
i loro messaggi sarebbero al di là della nostra capacità di comprensione. Ed
escludendo anche quelli che, pur potendolo fare, non lanciano alcun messaggio
per scelta.
Inoltre si possono
immaginare degli esseri il cui livello di sviluppo scientifico sia anche solo
di mille anni più avanzato del nostro. Considerando i ritmi odierni di
generazione e di accumulo delle informazioni, probabilmente non avremmo quasi
nulla in comune con loro e rischieremmo di non riconoscerci, reciprocamente,
come forme viventi. Per non parlare di eventuali civiltà con un vantaggio di un
milione o, addirittura, un miliardo di anni!
Pirandello dice che chi si mette a pensare smette di
vivere. Ecco perché non pensiamo quasi mai alla vita: per poter viverla.
Tornando al concetto di
vita, anche per una sua eventuale applicazione all’impresa, sono stati
elaborati altri requisiti:
il metabolismo: cioè il
processo che regola il flusso di materiali e energia attraverso il corpo del vivente,
cioè la nutrizione, senza dimenticare che, ad esempio, alcuni microrganismi
sono in grado di sospendere il loro metabolismo per tempi anche molto lunghi,
senza per questo morire, visto che è possibile che si riattivino in presenza di
condizioni favorevoli;
il ciclo nascita /
sviluppo / morte: senza dimenticare che, ad esempio, anche nuvole e fiumi
passano attraverso queste fasi;
la riproduzione: agli
organismi viventi si richiede la capacità di replicazione, almeno in linea di
principio, senza dimenticare che, ad esempio, i muli sono senza dubbio
considerati vivi, ma sono sterili;
lo scopo: è un vecchio
requisito mutuato dalla filosofia più antica, secondo il quale l’organismo
vivente avrebbe un “progetto”, un fine, da perseguire (è un’idea in via di
abbandono, che trova i suoi massimi sostenitori tra i seguaci delle varie
religioni, in quanto solo in Dio si troverebbe l’origine e lo scopo della
vita);
l’autonomia: cioè la
capacità di organizzarsi e di agire in funzione dei propri “scopi”, senza dimenticare
che, ad esempio, i virus possono anche avere degli scopi propri, ma per
raggiungerli hanno bisogno di cellule viventi.
Anche introducendo questi requisiti, non facciamo dei
veri progressi. Non parliamo poi di scopo, che è un vero antropomorfismo. Un
uomo può avere degli scopi, un cane probabilmente sì, un topo forse, ma una
lumaca, un batterio? Eppure li consideriamo tutti vivi.
Probabilmente
non esiste un singolo fattore che definisce un ente come vivo, ma una
combinazione di fattori. Metabolismo e riproduzione da soli non bastano, ma
insieme si riscontrano nella maggior parte degli enti che, secondo buon senso,
consideriamo vivi.
Poi ci
sono altri aspetti. Se consideriamo i requisiti citati in partenza (la capacità
di contrastare l'entropia; e la capacità di riprodurre un’entità simile a se
stessa) oppure la definizione empirica “gli esseri viventi sono caratterizzati
da nascita, crescita, riproduzione, morte”, ci accorgiamo che rientrerebbero
nella categoria anche enti che normalmente non consideriamo viventi, come il
fuoco o gli uragani.
Esistono
addirittura degli enti artificiali, come nel gioco denominato Life, che generano strutture totalmente
astratte ma che soddisfano tali requisiti.
Potresti parlarmi di quel
gioco?
Sì, ma più
avanti. Intanto prendi nota che i termini “vita” e “morte” non sono l’uno il
contrario dell’altro. Il contrario di “vita” è “non-vita”. Il contrario di
“morte” è “nascita”. È diverso.
Ne prendo nota.
Ti
stupiresti se dicessi che il vetro è un materiale durissimo.
Di fatto, va in mille pezzi con
un colpetto.
Sì, ma
perché “fragile” non è il contrario di “duro” bensì di “resiliente”, cioè “che
resiste agli urti”.
Mi dici qualcosa dell’entropia
applicata all’impresa?
Si è
fatta strada tra i filosofi e gli scienziati moderni l’idea che l’essenza della
vita consista soprattutto nella lotta all’entropia, realizzata per mezzo della
complessità, meglio ancora: della complessità organizzata.
Partono
dalle teorie del caos e dallo studio delle strutture lontane dalle situazioni
di equilibrio termodinamico.
Dato un
sistema composto da numerosissime entità elementari, è praticamente certo che
possano emergere spontaneamente un certo grado di organizzazione e delle
proprietà nuove, non contenute, per così dire, nelle singole entità.
Cosa intendi per proprietà
nuove?
Sono le
proprietà emergenti. E per illustrarne la stretta connessione con il fenomeno
della organizzazione spontanea, conviene parlare del meccanismo fondamentale
utilizzato dalla vita (o vita-così-come-noi-la- conosciamo) che riscontriamo in
tutti gli esseri viventi che troviamo sulla Terra: il Dna. Vedremo anche una
stretta analogia con gli elementi caratterizzanti dell’impresa.
Il Dna
è la molecola più complessa di cui abbiamo conoscenza: è composta letteralmente
da miliardi di atomi e si trova strettamente arrotolata nel cuore di ogni
cellula vivente. Se srotolato, il Dna umano avrebbe la lunghezza di un paio di
metri.
La
struttura del Dna è carica di informazione: la disposizione dei singoli atomi è
in grado di codificare le istruzioni per costruire un intero essere umano.
Il Dna
dal punto di vista informatico può essere considerato un programma, un
algoritmo, un software. La sua proprietà fondamentale è la capacità di
costruire copie di se stesso.
Eppure,
a dispetto della sua grandiosa capacità, è costituito da elementi estremamente
semplici. La forma della molecola del Dna, prescindendo da torsioni e
attorcigliamenti, è praticamente quella di una lunghissima scala a pioli. Il
segreto del funzionamento sta tutto nei pioli, che sono formati da solo quattro
molecole diverse, chiamate basi (Adenina, Guanina, Citosina, Timina) indicate
come A G C T. Ogni piolo è formato da due basi. Le basi A e T come pure le basi
G e C sono fatte in modo da incastrarsi perfettamente e facilmente l’una con
l’altra.
Immaginiamo
ora di spezzare la scala nel senso della lunghezza, attraverso tutti i pioli:
si otterranno due mezze scale, nelle quali le estremità libere dei pioli sono
in grado di accoppiarsi con le basi complementari che si possono trovare
nell’ambiente e dare così origine a due scale intere. Ognuna delle mezze molecole di Dna funziona come uno stampo per sistemare nel
posto giusto le molecole mancanti e ricostituire spontaneamente la molecola
intera.
Meccanismi
analoghi di stampo e incastro, realizzati per mezzo di un’altra molecola
denominata Rna, permettono la costruzione dei mattoni della materia vivente (le
proteine) a partire dagli elementi presenti nell’ambiente.
Come applicare tutto questo
all’impresa?
Abbiamo
appena visto come nasca un’organizzazione spontanea a partire da elementi
inerti. Basta che ci sia un livello minimo di complessità, ed ecco che
l’organizzazione del caos è inevitabile. Questo vale anche per le imprese.
L’analogia
tra impresa e organismo vivente è abbastanza precisa: l’impresa ha un corpo
materiale (stabilimenti, uffici, veicoli, merci e materiali vari), ha una mente
(organizzazione, studi e ricerche, pubbliche relazioni, comunicazione,
marketing) e, soprattutto, ha il suo Dna (visione, missione, strategia,
immagine, valori, cultura aziendale).
Non è
molto interessante parlare del corpo dell’impresa. È molto più proficuo parlare
del suo Dna, dal quale deriva la “mente” che agisce per mezzo del “corpo”.
Ma in che cosa consiste il Dna
di un’impresa? È qualcosa di fisico? Non sono certamente le basi A G C T.
Se si
guarda alle aziende di maggior successo, se si intervistano i loro dipendenti e
i dirigenti per chiedere spiegazione di un qualche comportamento comune, anche
apparentemente banale, come ad esempio l’indossare tutti una giacca blu, spesso
ci si sente rispondere: non saprei… è una regola non scritta… è nel nostro Dna.
Se è
vero che sono gli uomini a fare il successo delle aziende, è anche vero che i
singoli, se non fossero guidati dalle regole non scritte, dalla intima e
profonda sensazione che così facendo “si fanno le cose giuste”, terrebbero un
comportamento caotico, inadatto al raggiungimento dei fini aziendali.
Quindi,
l’elemento fondamentale per l’organizzazione della complessità dei
comportamenti dei singoli è questo fattore aziendale che abbiamo chiamato Dna.
Non è
niente di fisico. Il Dna di una impresa è dato da un insieme di elementi
immateriali, tra i quali la scienza economica ha identificato i seguenti:
¾ la visione: l’imprenditore sviluppa un’idea di come vorrebbe che fosse il
mondo;
¾ la missione: l’imprenditore identifica il suo ruolo nel mondo così
immaginato;
¾
la strategia: l’imprenditore identifica le azioni da
compiere per realizzare la missione; dalla strategia discendono la struttura
organizzativa, cioè le relazioni tra gli uomini, e quella che potremmo definire
tattica, cioè le azioni pratiche e contingenti che la struttura esegue di
routine per realizzare la strategia;
¾ il know-how: cioè l’informazione, la conoscenza, il sapere e il saper fare;
¾ il clima e la cultura aziendale: cioè lo spirito che anima gli uomini
impegnati nell’azienda: si può identificare l’intera gamma di atteggiamenti e
sentimenti umani quali la competizione, l’altruismo, l’egoismo, l’orgoglio, la
frustrazione; alcune combinazioni sono favorevoli alla gestione, altre la
ostacolano; si verificano effetti di cooptazione, di collaborazione tra
individui o anche di emarginazione di quelli che non si adeguano alle “regole”;
gli individui, messi in condizioni ricorrenti, tendono spesso a sviluppare
spontaneamente comportamenti ottimali. La teoria dei giochi si occupa di
studiare tutto questo.
Si potrebbe cercare una combinazione di qualità positive,
che porti sicuramente l’impresa al successo.
Si può provare, ma non è certo che ci si
possa riuscire. Non è automatico che le qualità più adatte a raggiungere i fini
aziendali siano le “positive” (cosa vuol dire “positivo”: in senso umanitario?
in senso competitivo?). Non è neppure automatico il contrario.
Spesso nelle aziende ho
visto molte persone fare più carriera di quanto meritassero, ma mai ho visto
persone meritevoli restare indietro.
C’è chi afferma di
conoscere tante “bravissime persone” emarginate in azienda e spinte alle dimissioni.
Poi si scopre che quelle persone sono “bravissime” perché amano gli animali o
perché scrivono poesie. Ma, dimmi tu, per quale motivo un buon poeta dovrebbe
fare carriera in una compagnia di assicurazioni?
A me pare che bisogna prima accordarsi su cosa si intende
per “meritevole” e “bravissimo”. Sono concetti relativi all’azienda, non
assoluti.
Quello che conta è la
miscela delle qualità. L’imprenditore deve fare in modo di arricchire il più
possibile il Dna della sua azienda, mediante l’iniezione di persone, di idee e
di esperienze sempre nuove e differenti.
Non deve avere paura di
cambiare la sua organizzazione, anzi, deve essere pronto a sperimentare; come
l’allenatore di una squadra che non fa giocare sempre gli stessi, ma prova
continuamente nuove combinazioni di giocatori alla ricerca del gioco ottimale.
Non deve innamorarsi di uno schema, ma deve avere la forza di abbandonare le
combinazioni perdenti e di ricercare soluzioni sempre nuove.
L’imprenditore deve
agire un po’ come fa la natura con la vita: provare tutte le varianti e
conservare quelle che funzionano meglio.
Hai mai sentito dire che
se in un’organizzazione due persone pensano nello stesso modo una è di troppo?
È esagerato, ma è vero.
Tra persone diverse si
può instaurare un dialogo, con scambio di informazioni e di punti di vista che
possono arricchire entrambe e l’intera organizzazione. Tra due persone con
pensieri equivalenti, seppure formulati con parole diverse, possono sussistere
al massimo due monologhi.
Non c’è arricchimento per nessuno.
Certo, avere continue
conferme al proprio modo di pensare è più comodo che coordinare idee
differenti.
È un fatto, però, che le
idee nuove e feconde di utili applicazioni nascono con più facilità dove
s’incrociano pensieri differenti. È stato così quando fisica e matematica si
sono incontrate, oppure biologia e statistica, oppure filosofia e scienza.
Il confronto e
l’eventuale fusione di idee provenienti da differenti discipline è un fenomeno
che oggi viene rivalutato ed è consapevolmente ricercato. Gli anglosassoni lo
chiamano cross-fertilization.
Non è un metodo nuovo. So che i filosofi medievali
usavano scrivere parole e idee sul bordo di dischi concentrici che venivano
fatti ruotare: così talvolta si accostavano idee che potevano essere utilmente
sviluppate.
Anche il clima aziendale
ha grande importanza, sebbene non si possa instaurare per imposizione. È
determinato principalmente dall’atteggiamento dell’imprenditore e dai
personaggi più carismatici, non necessariamente i dirigenti. Vi sono aziende in
cui si lavora con entusiasmo e altre in cui l’atmosfera è cupa, lugubre, dove
quasi si vedono volare le upupe del Foscolo.
Ma non si riesce a dire
qual è il clima migliore per quanto riguarda i risultati: fa parte della
miscela magica, che va ricercata e sperimentata con assiduità.
È dimostrato, tra
l’altro, che non sempre la macchina da guerra gioiosa è quella che vince.
Puoi fare qualche esempio concreto di come si presenta
questo Dna aziendale?
Prendiamo
un caso d’impresa di grande successo: la Microsoft. Il suo padrone e fondatore
Bill Gates deve essere partito da una visione simile a questa: mi piacerebbe
vivere in un mondo in cui tutti gli uomini possano utilizzare un computer per
la maggior parte delle loro attività.
A
questo punto la sua missione diventa: voglio essere il produttore e il
distributore dei programmi per tutti quei computer; e voglio che i programmi
siano facili da usare.
La
strategia è meno identificabile nei dettagli, ma potrebbe essere: metto al
lavoro le migliori menti per la realizzazione dei programmi e metto in atto una
gigantesca campagna di marketing per venderli.
Per
quanto riguarda il clima e la cultura aziendale, sono a tutti noti lo spirito informale
che caratterizza le relazioni tra i dipendenti della Microsoft e la possibilità
per tutti di comunicare liberamente con chiunque altro. Non è difficile
scrivere una e-mail allo stesso Bill Gates, chiamandolo Bill, e ricevere una
risposta pertinente in tempi utili.
Questo vale solo per Bill Gates
e Microsoft? o si può applicare anche a imprese più piccole?
Si deve applicare a tutte le imprese, a
tutte le attività umane, anche alle famiglie e alle singole persone. Per
inciso, quando si avrà la consapevolezza che ogni famiglia è anche un’azienda,
molti conflitti e frustrazioni saranno azzerati.
Ti
porto il mio esempio. Sono un ragioniere economista d’impresa iscritto all’Albo
professionale. In quanto tale, ho maturato la seguente visione: desidero vivere
in un mondo in cui tutti i miei colleghi siano in grado di accedere facilmente
a informazioni utili per lo svolgimento del loro lavoro professionale. Pertanto
la mia missione è: realizzare una serie di corsi e di convegni sulle materie in
cui sono esperto e proporli ai colleghi. La mia strategia contempla
l’acquisizione di conoscenze aggiornate e innovative, la collaborazione con gli
esperti del settore e con le università, la realizzazione di un piano
d’informazione (marketing) diretto a colleghi e istituzioni.
Sembra quasi che siano passate
in secondo piano le considerazioni che tradizionalmente si facevano sulle
aziende, basate soprattutto sulla valutazione dei beni materiali. Ora questi
sembrano solo uno sfondo, mentre sulla scena si muovono gli elementi che
realmente contano, cioè quelli immateriali.
Le
tendenze moderne vanno proprio in questa direzione. Basti pensare alla
evoluzione dell’impostazione dei bilanci delle società.
Fino a
circa trent’anni fa, si badava esclusivamente alle voci dello Stato
Patrimoniale, che, secondo il Codice Civile, dovevano essere valutate con
“chiarezza e precisione”, e poco si era tenuti a dire sul Conto Economico:
basti dire che il Conto Economico iniziava con la voce “Utile Lordo
Industriale”. Dalla lettura di quei bilanci era impossibile conoscere il
fatturato delle imprese: questo dato veniva considerato segreto all’interno
delle aziende stesse; non tutti i dipendenti potevano conoscerlo.
Poi una
riforma del Codice Civile ha imposto maggior completezza e chiarezza anche alle
voci del Conto Economico. Vengono definiti i componenti positivi e negativi, i
costi e i ricavi, e si comincia il rendiconto con la voce “Ricavi per vendite”.
L’attenzione
rimane ancora sul criterio della prudenza: poco importa che le voci attive e
passive siano esposte in bilancio a valori palesemente irrealistici e
sottostimati; l’importante è che non si facciano emergere valori non
realizzati.
Negli
ultimi anni, si riconosce finalmente che il valore di un’impresa non consiste
tanto nei suoi beni tangibili quanto in quegli elementi che costituiscono
l’anima stessa dell’azienda, la sua reale capacità di reddito, in definitiva il
suo Dna. Oggi si riconosce la possibilità di valutare sia i beni tangibili sia
i beni intangibili secondo il criterio del fair
value, o valore corrente.
È stato
fatto un lungo cammino. Oramai i fattori che realmente distinguono un’impresa
dall’altra e ne costituiscono il vero valore sono gli elementi immateriali che
abbiamo chiamato il Dna dell’azienda.
Ci sono altre analogie tra le
imprese e gli organismi viventi?
Le
analogie sono molte. Non parlerò di consigli di amministrazione che somigliano
alla testa, di operai che somigliano a braccia e gambe: questo lo ha già fatto
un tale Menenio Agrippa al tempo degli antichi romani. E neppure parlerò di
metabolismo, cioè del flusso di risorse (energia, merci e denaro) e del loro
uso. Anche nascita, crescita, riproduzione e morte sono fenomeni economici che
riguardano le aziende e che notiamo tutti i giorni.
Parlerò
di quello che potrebbe essere il sistema immunitario dell’azienda.
Come è
noto, in un organismo evoluto il sistema immunitario è quell’insieme di agenti
che servono a reagire alle minacce esterne, sviluppando anticorpi per
combattere gli aggressori.
Un
sistema simile deve esistere per l'impresa, che non deve rimanere inerte di
fronte ai cambiamenti e deve capire i problemi che insorgono in tempo utile per
risolverli. Se il sistema immunitario è debole o inesistente, l'azienda
deperisce e muore.
È
compito della Direzione la creazione di un buon sistema
immunitario per l’impresa; anche questo è un elemento immateriale ed è
costituito da un atteggiamento generale di apertura verso l’economia esterna e
dall’organizzazione delle informazioni disponibili al fine di orientare le
strategie.
Sono queste le
caratteristiche tipiche delle strutture dissipative: apertura verso l’esterno e
lontananza dal punto di equilibrio.
Partendo dal presupposto
che l’impresa è un sistema complesso che opera in un ambiente in continuo cambiamento
e che entro certi limiti tende ad autorganizzarsi, bisogna tuttavia riconoscere
che il futuro è sostanzialmente imprevedibile e turbolento: è pertanto
necessario ipotizzare differenti possibili scenari per gestire quelli che si
presenteranno realmente, mettendo in azione strategie alternative.
Il successo, in
definitiva, è una conseguenza della capacità di convivere con l’incertezza,
cioè di rinnovarsi continuamente e creativamente, e non della ricerca di
un’irrealizzabile stabilità.
Ritorna sempre il tema della
complessità.
È una
caratteristica inevitabile degli organismi viventi. Mi sono spesso trovato a
confrontarmi con il tema della complessità aziendale, in modo anche curioso.
Nella
preparazione dei preventivi per l’attività di revisione contabile, ho sempre
notato, con un certo grado d’insoddisfazione intellettuale, che le ore di
lavoro stimate sono quasi proporzionali alle dimensioni dell’azienda da
revisionare e, in particolare, all’importo del fatturato. Ad esempio, senza con
questo voler dare numeri o proporzioni reali, con 200 ore di lavoro è possibile
revisionare il bilancio di una azienda che fattura 10 milioni di euro, mentre
una che ne fattura 100 milioni può richiedere anche 1.000 ore.
Cosa c’è di strano?
Bisogna
sapere che il lavoro di revisione viene svolto a campione; ad esempio per
l’azienda piccola verifico 50 fatture, tra attive e passive, e poche di più per
la grande; chiedo conferma a 50 tra clienti e fornitori sia per la piccola sia
per la grande; l’inventario fisico in magazzino richiede un giorno o due al
massimo per entrambe; le banche devo verificarle tutte, ma il numero dei conti
è quasi lo stesso per la piccola e per la grande, e così via.
Sembrerebbe
che il volume delle verifiche, e quindi delle ore di lavoro, per il modo in cui
viene svolto, cioè selezionando un campione di voci pressoché simile, sia
approssimativamente sempre lo stesso.
A
livello di ogni singola procedura di verifica, studiata a tavolino, non sembra
sussistere un criterio di proporzionalità alle dimensioni dell’azienda.
Quanto
ai preventivi, poteva sorgere l’impressione che si volesse andare a prendere i
soldi dove si pensava che ci fossero, un po’ come sembrano fare le compagnie di
assicurazione per le polizze RC auto: piccole cilindrate, piccolo premio;
grandi cilindrate, grande premio, come se i limiti di velocità non valessero
per tutti e i freni non fossero altrettanto buoni; in definitiva, come se i
danni arrecabili ai terzi dai vari tipi di auto non fossero equivalenti.
Investire un pedone con una Panda o una Ferrari è lo stesso danno, per
l’assicurazione.
La
sorpresa aumentava quando si esaminavano i consuntivi, a fine lavoro, e si
scopriva che la proporzionalità “ore di lavoro/fatturato dell’azienda cliente”
era un fatto reale, non un discutibile elemento di marketing.
Per
andare a fondo del problema, un bel giorno mi procuro i parametri di bilancio
di un congruo numero di clienti (aziende di tutte le dimensioni) e l’elenco
delle ore di lavoro effettivamente impiegate per svolgere la revisione dei
rispettivi bilanci. Utilizzo un programma per computer in grado di effettuare
analisi statistiche, in particolare l’analisi di regressione (un algoritmo
capace di identificare i fattori in grado di influenzare una certa grandezza ed
eventualmente in quale misura), dove le ore di lavoro sono una variabile
dipendente. Con mia somma sorpresa ottengo una formula semplicissima per
calcolare, con buona approssimazione, il numero di ore di lavoro per qualsiasi
azienda.
La
formula è: 200 ore + 1/2 ora per ogni dipendente dell’azienda.
Ma è sbalorditivo!
C’è di
più: tutti gli altri parametri considerati e immessi nel programma (fatturato,
patrimonio netto, totale attivo, ecc.) finiscono scartati come statisticamente
irrilevanti. L’analisi statistica evidenzia come fortemente determinante solo
il numero dei dipendenti. In particolare il fatturato non rientra nei fattori
critici.
C’è una spiegazione?
Dopo
un’ulteriore analisi dei dati, trovo finalmente una risposta: la complessità.
Avevo
già notato come alcune aziende, a parità di fatturato, impiegassero un numero
molto vario di dipendenti: ad esempio, 100 milioni di euro potevano essere
realizzati da aziende di 100 come di 1.000 dipendenti.
Qual
era la differenza? Perché alcune aziende hanno bisogno di tanti dipendenti e
altre di pochi?
La
risposta è ancora la stessa: la complessità.
Ed ecco
la soluzione. Se una azienda opera in un settore complesso, avrà bisogno di un
numero maggiore di dipendenti per gestire la propria complessità. Ma questa stessa
complessità è proprio ciò che richiede a me un maggior numero di ore di lavoro
per svolgere le mie verifiche. In pratica, verificare la correttezza di una
singola voce di bilancio, nell’azienda grande richiede l’analisi di più fattori
e l’intervista di più persone rispetto alla piccola.
Quello
che emerge è che la miglior misura della complessità di un’azienda è data dal
numero dei suoi dipendenti.
Molto interessante. Hai fatto
altre ricerche scientifiche di questo tipo?
Non
proprio ricerche, ma considerazioni, sempre collegate ai concetti di
complessità e di sistema immunitario.
Compito
della Direzione è stabilire le procedure da seguire per salvaguardare il
patrimonio aziendale (materiale e immateriale) e permettere il raggiungimento
degli obiettivi. Queste procedure vanno, collettivamente, sotto il nome di
Controllo Interno. È una parte importante del sistema immunitario aziendale,
essendo preposto specificamente a prevenire perdite accidentali o per frode.
Eppure
le procedure aziendali, anche le meglio studiate, non sono infallibili, anzi
presentano la sgradevole caratteristica di non possedere la capacità di
autocorreggersi.
In
molti sistemi fisici, questa capacità viene accuratamente ricercata, progettata
e incorporata nei sistemi stessi. Il termostato, ad esempio, interviene quando
l’acqua del bagno diventa troppo calda o troppo fredda.
Le
procedure aziendali sono invece azionate dalle persone e qui interviene un
effetto, di natura prevalentemente psicologica, per cui un errore o una
deviazione non innesca un meccanismo correttivo, bensì un indebolimento della
procedura atto a causare ulteriori errori, in una catena senza fine. Ad
esempio, se un impiegato addetto al controllo delle fatture dei fornitori si
accorge che anche svolgendo male il suo lavoro non ne subisce conseguenze,
tenderà a lavorare ancora peggio. Se il magazziniere si accorge che non gli
succede nulla se le quantità effettivamente giacenti non concordano con le
registrazioni contabili, effettuerà le verifiche inventariali con ancora minor
rigore, e così via.
Le
procedure aziendali, per funzionare, hanno sempre bisogno di verifiche efficaci
e indipendenti perché, per loro natura, non solo non si autocorreggono, ma
tendono a deviare sempre più gravemente.
Inoltre,
le procedure teoriche sono una cosa, la realtà pratica una cosa diversa. Mi è
capitato spesso di dover verificare il rispetto di una particolare procedura.
Ad esempio, il ciclo acquisti–fornitori–pagamenti.
La
procedura prevede controlli e autorizzazioni a vari livelli di responsabilità
in azienda; sembra tutto chiaro, ma in pratica si riscontrano ordini non
approvati, o approvati da un funzionario senza procura o ancora approvati ma
non siglati a dimostrazione del controllo effettuato, e innumerevoli altri casi
che possono deviare dalla norma.
In
pratica è molto difficile arrivare ad affermare con certezza: su 100 acquisti
esaminati, 96 sono regolari secondo le procedure aziendali.
Le
“aree grigie” sono moltissime. Ogni acquisto è in pratica un caso a sé e il
giudizio di regolarità dipende anche dal senso di correttezza che esercita il
verificatore.
Il tipo
“fiscale” può considerare irregolare un’approvazione firmata da chi di dovere,
ma con cattiva calligrafia. Il tipo “bocca buona” può considerare regolare un
piccolo acquisto di 50 euro fatto telefonicamente, anche se la procedura
prevede un ordine scritto.
La
verità è che una procedura non è riscontrabile in nessuna delle operazioni
elementari, ma risiede nell’effetto combinato di tutte le operazioni nel loro
insieme.
È un po’
come la temperatura, che non appartiene alla singola molecola, ma è il
risultato cumulativo del movimento di numerosissime molecole.
Se è così difficile valutare
una singola procedura, chissà cosa succede per il Bilancio nel suo complesso.
Come si fa a certificarlo?
È una
attività molto difficile, che prevede l’esercizio di un elevato grado di
giudizio professionale. Non a caso, la firma della certificazione di un
bilancio è un atto molto ponderato, che richiede l’intervento oculato e
congiunto di almeno due professionisti di grande esperienza: non solo perché
quattro occhi vedono meglio di due, ma proprio per valutare meglio l’effetto
delle inevitabili aree grigie secondo il “buon senso” professionale.
Ho visto molti bilanci con
scritto in calce “Il presente Bilancio è vero e reale”.
È
un’aberrazione tenuta in vita fino a tempi molto recenti, purtroppo. Ci sono
volute decine di anni di dibattiti per arrivare a far comprendere al
legislatore che un bilancio non può essere “vero e reale” ma conforme o no a
criteri di compilazione prestabiliti, sia pure con un certo grado di
tolleranza.
La crescita è una conseguenza della ricerca
dell’eccellenza
e non un valido obiettivo in sé.
Robert Townsend