Cosa ti compri di migliore
La finanza è
l’arte di far passare la moneta di mano in mano fino a farla scomparire.
Robert Sarnoff
L’altra sera ero a cena da
amici e, a un certo punto, è scattata la sindrome dei “vecchi tempi”. Il padrone
di casa ha tirato fuori un vecchio disco di vinile, un 33 giri. Si tratta forse
di vinilmania?
Tra le canzoni del disco, tutte
pregevolissime sia per la musica sia per le parole, ho voluto riascoltarne una
che parla di un vecchio vagabondo ubriacone. Mi ha colpito una frase che mi
sembra paradossale.
Il vecchio dice al mercante di
liquore: “Tu che lo
vendi, cosa ti compri di migliore?”.
Paradossale
e anche estremamente logico. Fa parte dell’album del 1971 di Fabrizio De André Non al Denaro, non all'Amore né al Cielo.
E il vecchio vagabondo è il suonatore Jones, al quale è dedicata la canzone che
chiude la raccolta, ispirata alla famosa Antologia
di Spoon River di Edgar Lee Masters.
Effettivamente,
sembra paradossale e insieme logico; anche se “paradossale” non significa
“illogico” bensì “apparentemente incredibile, ma di per sé logico”. E questa
sarebbe già una risposta. I paradossi sono logici. Non lo sono le
contraddizioni, ma qui non ne vedo.
La sola
logica, però, non spiega perché colui che dispone della cosa in assoluto più
desiderabile ¾ almeno nel pensiero di Jones ¾ se ne priva in cambio di denaro. Cosa potrebbe comprare, col denaro, di
ancora più desiderabile?
Hai ragione; con la logica non
riesco venirne a capo. Anche se il “semplice” buon senso mi dice che non si può
vivere solo di liquore, quindi, a un certo punto, bisogna pur procurarsi
qualcosa d’altro.
Bravo.
Hai appena scoperto la legge fondamentale dell’economia. I beni vengono
scambiati per rendere massimo il loro “valore d’uso”.
Valore d’uso? Ne ho già sentito
parlare, ma non ho le idee chiare.
Secondo
la teoria economica corrente, i beni non hanno un valore assoluto ¾ un
valore di per sé ¾ ma hanno valore per il beneficio che se ne può ricavare utilizzandoli.
Mi sembra ovvio. Perché
produrre o possedere dei beni, se non per usarli?
Sembra
ovvio, ma l’idea non è così semplice.
Ad
esempio, tutti credono che l’oro abbia un valore assoluto; ma non è così.
All’oro viene attribuito valore per una serie di motivi (bellezza, rarità,
praticità di conservazione e di scambio, ecc. ecc.) basati, in definitiva, su
argomentazioni di natura psicologica.
In
estrema sintesi, si attribuisce valore all’oro per il fatto che tutti ritengono
che l’oro abbia valore e il gioco si autoalimenta.
Allora, diciamo pure che il
valore dell’oro si basa sulla fiducia generalizzata nel fatto che l’oro abbia
davvero valore.
L’oro
non ha tutto quel valore, tant’è vero che in alcune civiltà l’oro non ha alcun
valore, mentre ne hanno altri beni più significativi per la loro cultura.
Considera comunque che una parte del suo valore consiste nell’uso industriale
che se ne può fare. È un circolo vizioso, o virtuoso, secondo i punti di vista.
Quindi l’oro non ha un valore
d’uso.
Se non
in misura minima. Il valore d’uso l’hanno altri beni, ad esempio, una casa o
un’automobile. Immagina che il tuo appartamento perda improvvisamente valore,
addirittura fino a zero. Cosa cambierebbe per te? Niente. A meno che tu non
stessi progettando una bella speculazione o avessi necessità di monetizzarlo
per motivi gravi e urgenti, in realtà potresti continuare ad abitarci come se
nulla fosse.
Invece col mio gruzzolo di
monete d’oro, se questo perdesse valore fino a zero, non potrei fare molto. È
ovvio. Ma perché il valore d’uso è il motore dell’economia?
Non il
valore d’uso ma la ricerca del massimo valore d’uso.
Riprendiamo
l’esempio di Jones. A un certo punto il mercante di liquore si rende conto di
avere bisogno d’altro oltre al liquore, e cosa fa? Ne vende una parte, diciamo
10 bottiglie, in cambio di denaro e col denaro acquista, ad esempio, un paio di
scarpe.
Cosa è
successo? Due cose fondamentali: il mercante di liquore ritiene in cuor suo che
un paio di scarpe valga più di 10
bottiglie e, contemporaneamente, il mercante di scarpe giudica che un paio di
scarpe valga meno di 10 bottiglie.
Pertanto
si accordano, visto che entrambi pensano di guadagnarci. Il mercante di liquore
beve meno ma ha i piedi asciutti e il mercante di scarpe rinuncia a una sua
creatura ma si scalda la gola davanti al camino.
È ancora qui con noi, il
paradosso. Come è possibile che un paio di scarpe per alcuni valga meno di 10
bottiglie e per altri di più?
Perché
non hanno un valore di per sé, un valore assoluto, ma un valore per l’uso che
se ne può fare. E lo scambio può continuare. Se anche la moglie del mercante di
liquore ha bisogno di scarpe, questi potrà privarsi di altre amate bottiglie
per soddisfarla.
E così a un certo punto, chi aveva
solo bottiglie avrà solo scarpe e viceversa. Non mi sembra un bel risultato. È
un po’ come la parodia di Robin Hood, che rubava ai ricchi per dare ai poveri.
Alla fine della sua opera, sarà costretto a rubare ai poveri diventati ricchi
per dare ai ricchi diventati poveri, e così via, all’infinito. Ci deve essere
un limite.
Ottima
osservazione. Il limite è dato dal fatto che il valore d’uso di un bene aumenta
o diminuisce in proporzione inversa alla quantità disponibile.
All’inizio
il mercante di liquore ha molte bottiglie, addirittura solo bottiglie, e niente
scarpe.
Quindi,
per lui, le bottiglie valgono poco e
le scarpe tanto. Man mano che scambia
bottiglie con scarpe, avrà sempre più nostalgia delle sue bottiglie e sempre
meno necessità di scarpe.
E a un
certo punto non le scambierà più. Lo stesso, simmetricamente, avverrà per il
mercante di scarpe.
Tornando
all’esempio, il primo paio verrà scambiato per 10 bottiglie, mentre il secondo
paio ne otterrà 9 e il paio per il primo figlio solo 8.
Ma il
mercante di scarpe, a sua volta, vedendo assottigliarsi la scorta, non sarà
disposto a cederle per meno di 7 bottiglie e così, dopo aver venduto anche
quelle per il secondo figlio, lo scambio si interromperà. O cercherà un altro
cliente.
Ho capito. Ma c’è davvero un
guadagno? Alla fine, il totale delle scarpe e delle bottiglie resta lo stesso.
Cambia solo il proprietario.
Eppure,
è così. Il totale dei beni complessivamente disponibili non cambia, ma il
cambiamento di proprietario ne ha aumentato il valore. Il valore d’uso. Per
entrambi.
Si può
dire che questo aumento di valore è nato dal nulla, è uno zero che diventa
qualcosa per effetto dello scambio.
Da questo si potrebbe ricavare
anche una teoria dei prezzi, se si potesse calcolare, in ogni circostanza, il
valore limite al quale vengono scambiate bottiglie e scarpe.
Ottima
idea. I libri di economia sono pieni di formule, ma raramente dicono come
determinare il valore dei vari parametri. Nella pratica, è impossibile effettuare
questo calcolo. Però è un fatto che più un bene è raro, maggiore ne è la
richiesta e più alto il suo prezzo. E viceversa. È la legge della domanda e
dell’offerta: il cardine dell’economia libera.
Questo fa sì che gli scambi
avvengano a prezzi via via più bassi, finché non resta più né domanda né
offerta insoddisfatta.
Simmetricamente,
a un aumento dei prezzi diminuisce la domanda e viceversa. A prezzi alti
comprano in pochi, a prezzi bassi comprano in molti. E il sistema trova
equilibrio.
Ma, un momento! In quest’ultima
precisazione vedo un altro paradosso. Quando in Borsa le quotazioni di un
titolo salgono, i compratori, anziché diminuire, aumentano: tutti si
precipitano ad acquistare. Viceversa, se le quotazioni scendono, tutti corrono
a vendere. Non avevi appena detto il contrario?
È un
paradosso apparente.
Quando
si acquista un’azione non si compra un pezzo di carta e neppure un pezzo di
azienda, come comunemente si dice. Si compra un’aspettativa. Di buoni
dividendi. O di ulteriore aumento delle quotazioni. Oppure di operazioni
finanziarie e imprenditoriali più complesse, se le azioni acquistate sono
tante.
Tutto
al contrario quando si vende. In genere si vende se si pensa che il valore di
borsa possa scendere e si preferisce monetizzare un guadagno o limitare una
perdita.
In effetti mi ha sempre
incuriosito il fatto che, per qualsiasi quotazione di un certo titolo, in Borsa
c’è sempre chi lo compra e c’è sempre chi lo vende. Come si spiega?
Evidentemente,
chi compra si aspetta che il valore aumenti, mentre chi vende si aspetta che
scenda. È una contraddizione apparente, visto che, in teoria, tutti hanno le
stesse informazioni e, delle due, l’una: si può dedurre che la quotazione o
salirà o scenderà.
Mark Twain lo aveva ben capito
quando diceva che ottobre è uno dei mesi particolarmente pericolosi per
speculare in borsa, ma aggiungeva che gli altri mesi pericolosi sono novembre,
dicembre, gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto e settembre!
Il
fatto è che servirebbero ulteriori informazioni e quelle che si hanno non sono
certe. Non si può investigare il futuro oltre certi limiti. Inoltre le
interpretazioni delle informazioni possono portare a risultati differenti,
anche partendo dagli stessi dati.
È un
po’ come con le previsioni del tempo. Possono dare un’idea, magari ben fondata,
ma mai una certezza. Altrimenti nessuno si bagnerebbe sotto la pioggia e tutti
diventeremmo ricchi con la Borsa.
Il mio consulente finanziario
afferma di essere in grado di consigliare titoli veramente sicuri.
Allora
abbandonalo. Chiediti perché non è più ricco di te. E chiedigli perché i suoi
titoli sicuri non li compra lui, invece di offrirli agli altri. Lui fa come
quelli che vendono i numeri “sicuri” del Lotto.
Andiamo bene! Il valore delle
azioni in borsa è basato su informazioni incerte, incomplete e male
interpretate e, se capisco bene, le azioni non hanno un valore d’uso.
Il
valore d’uso delle azioni entra in gioco in casi limitati. Ad esempio, se vuoi
acquisire il controllo di un’azienda per gestirla direttamente o per una
strategia imprenditoriale ancora più complessa, può non importare il valore di
borsa.
Molte
Opa (Offerte pubbliche di acquisto, allo scopo di acquisire il controllo di
un’impresa) vengono portate a termine a valori che si discostano anche
notevolmente dalle quotazioni.
Un
certo valore d’uso c’è anche se compri azioni per incassarne i dividendi in
futuro.
Ma
nella maggior parte dei casi non è così. Gli intermediari e i grandi investitori
comprano e vendono lo stesso titolo parecchie volte durante la stessa giornata
di Borsa. A loro non importa dell’azienda sottostante. Vogliono semplicemente
speculare sulla differenza di prezzo.
Anzi, a
questi professionisti l’andamento delle imprese importa così poco che spendono
il loro tempo non tanto per l’analisi dei bilanci quanto per l’analisi
dell’andamento nel tempo delle quotazioni stesse.
Questo lo so. Si chiamano:
analisi fondamentale e analisi tecnica.
Vedo
che il tuo consulente ti spiega qualcosa. Attraverso l’analisi tecnica ¾ lo
studio del grafico dell’andamento delle quotazioni ¾ il tuo
consulente probabilmente identifica alcune “figure” ricorrenti e tipiche che
funzionano da segnale per acquistare o vendere i titoli.
È anche
possibile che identifichi i livelli probabili minimi e massimi delle quotazioni
(li chiamano: supporti e resistenze), salvo essere smentito dai fatti.
Esistono
interpretazioni, più o meno scientifiche, delle previsioni basate sulle figure
del grafico delle quotazioni, se si considera l’andamento del grafico come la
risultante di forze che operano sul mercato in diverse direzioni.
Vi è
inoltre un’interpretazione non meno valida, che si rifà alla teoria delle
profezie autorealizzanti (self-fulfilling
prophecies). Se tutti gli operatori decidono che una certa “figura” indica
il momento di acquistare, ebbene tutti acquisteranno e le quotazioni saliranno,
così come previsto.
È una
questione di fiducia, ma alla fine è ancora uno zero che diventa qualcosa per
effetto della fiducia.
Ancora la fiducia. Queste
azioni sono un po’ come l’oro.
Infatti
anche l’oro viene quotato in Borsa.
Il
valore delle azioni dipende in ultima istanza dalla fiducia. Fiducia che abbiano
davvero un valore e fiducia nel fatto che questo valore possa mantenersi o
aumentare. Se manca la fiducia, il titolo crolla, anche se l’impresa di per sé
può anche non essere decotta.
Quante
volte abbiamo visto un’Opa non andare in porto perché il prezzo offerto “non
otteneva la fiducia del mercato”, come si usa dire.
Un
altro esempio di profezie autorealizzanti è dato dai cosiddetti Target Prices, cioè le previsioni delle
quotazioni di un titolo a 3 mesi, a 6 mesi, a un anno, pubblicate da agenzie considerate
autorevoli.
Qui
interviene pesantemente la fiducia nelle agenzie, anche se, nel tempo, alcune
di queste hanno dimostrato di non meritarla.
Se le
previsioni sono al rialzo, è probabile che il rialzo avverrà. E non è
aggiotaggio, o turbativa del mercato, in quanto ognuno è libero di esprimere il
proprio parere.
Mi stai confermando che il
valore dei titoli è un fatto di fiducia.
Non
esclusivamente, ma la fiducia è un elemento fondamentale. Non a caso, quei
disinvolti che tanti guai creano soprattutto ai piccoli investitori sono
emarginati dagli altri operatori. Questo non tanto per ragioni morali quanto
perché, col comportamento disonesto, tolgono al mercato il suo vero carburante:
la fiducia.
Portando il ragionamento alle
estreme conseguenze, potrebbero essere assegnati ai titoli dei valori
arbitrari, totalmente slegati dal comportamento delle imprese che
rappresentano. Il gioco non funzionerebbe ugualmente?
È
esagerato, ma c’è un fondo di verità, dato che ogni tanto qualcuno cerca di
riscontrare la base economica delle quotazioni con metodi più o meno obiettivi.
Se lo fanno in tanti, è il momento in cui le “bolle” speculative scoppiano, con
gli effetti che abbiamo visto nel 2000: alcuni titoli, in particolare quelli
della cosiddetta new economy, erano quotati a Wall Street a un valore tale che,
anche secondo le più rosee previsioni di utili, sarebbero occorsi cinquant’anni
di dividendi per rientrare dell’investimento. Una vera pazzia. Eppure si
continuava a comprare a queste quotazioni, totalmente svincolate dalla realtà.
Finché un giorno...
Tutto questo fa riflettere. Può
capitare che si origini un’enorme costruzione finanziaria e si perda di vista
la base economica reale. Può accadere davvero che il nulla diventi qualcosa,
finché non ricade nel nulla.
E
questo è solo l’effetto più sofisticato dell’invenzione più geniale e, allo
stesso tempo, più perversa che l’uomo abbia mai escogitato: il denaro.
Anche le monete che ho in
tasca?
Eccome.
Non dobbiamo dimenticare che, contrariamente alle azioni quotate in Borsa che
qualche aggancio con la realtà ancora hanno, il denaro oggi si basa totalmente
sulla fiducia.
Il
denaro è nato come mezzo di scambio e di accumulo di ricchezza: all’origine,
era rappresentato da beni fisici abbastanza divisibili e omogenei e,
soprattutto, aventi un valore d’uso: capi di bestiame, in particolare pecore,
oppure misure di grano. La parola pecunia deriva dal latino pecus, pecora.
Col
passare del tempo, per ragioni anche di praticità, i beni fisici furono
sostituiti da metalli rari, oro e argento, che avevano un minimo di valore
d’uso, ma il cui valore di scambio era dato, soprattutto, dal fatto che erano
universalmente riconosciuti come preziosi e pertanto scambiabili, senza
difficoltà, con beni fisici.
Oramai
il genio era uscito dalla lampada: la fiducia aveva fatto il suo ingresso in
economia. Forse allora nessuno si poneva il problema, ma se in tanti avessero
iniziato a rifiutare l’oro come denaro, e a pretendere solo pecore e formaggi,
il sistema sarebbe crollato.
Il passo
successivo fu tenere l’oro ben riparato nelle casse dello stato e far
circolare, al suo posto, dei biglietti di carta che altro non erano che la
promessa di consegnare oro in misura equivalente al valore che vi era scritto.
Era un
altro passo in direzione della fiducia. I beni fisici si allontanavano sempre
più, ma si poteva ancora, in teoria e se necessario, scambiare i biglietti con
l’oro e poi l’oro col cibo.
Il
passo definitivo verso la fiducia totale fu lo sganciamento dall’oro, cioè
l’abolizione della convertibilità, avvenuta nel corso dell’ultimo secolo.
Questo racconto mette i
brividi. Oggi tutti accettiamo biglietti di carta in cambio di mesi di lavoro e
i commercianti accettano gli stessi biglietti di carta in cambio di beni reali.
Nessuno ci pensa davvero, ma
tutto questo si basa solo sulla fiducia di tutti verso tutti, nel tacito
accordo di accettare i biglietti di carta come se fossero dei beni reali. Cosa
succederebbe se venisse meno questa apparentemente irragionevole fiducia?
Sarebbe
la catastrofe. Il denaro di carta perderebbe rapidamente il suo valore, senza
limiti. È già successo nella repubblica di Weimar nel 1923: la più violenta
inflazione che la storia ricordi. Le retribuzioni dovevano essere aggiornate
ogni 24 ore e se si mangiava in trattoria, nel tempo tra l’antipasto e il caffè
i prezzi cambiavano. Aveva vinto la sfiducia.
È un bel rischio. Se si
tornasse all’oro e all’argento?
Non
sarebbe possibile. Non esiste oro sufficiente per convertire tutto il denaro di
carta che circola al mondo. E se anche esistesse, non è detto che il valore
sarebbe garantito. La Spagna del seicento, dopo avere razziato oro e argento
dall’America del sud, era in profonda crisi economica proprio per l’eccesso di
oro e di argento in circolazione.
Del resto, ho letto che l’età
dell’oro era l’età in cui l’oro non esisteva ancora.
Oggi
sarebbe anche peggio: non esistono al mondo beni fisici sufficienti per essere
acquistati da tutto il denaro in circolazione. E questo perché, oltre ai
biglietti di banca, circola una quantità di gran lunga più elevata di denaro
elettronico. La carta oggi è sempre più spesso sostituita da segnali
elettronici, da bit. La carta rappresenta solo una minima parte del denaro
esistente.
Il
denaro viene continuamente moltiplicato dalla concessione di crediti, dalle
operazioni finanziarie di Borsa, dalle operazioni su strumenti finanziari
basati su altri titoli ¾ i derivati ¾ e da altri ancora.
In
mancanza di beni fisici, il denaro viene investito in altre forme di denaro per
generare altro denaro. Ma tutto ciò non genera ricchezza reale.
Perché dici che non genera
ricchezza reale? Conosco persone che hanno operato in Borsa e che hanno avuto
successo. Questi sono effettivamente più ricche.
È vero,
vivono meglio di altre. Però se si sommano tutti gli strumenti finanziari di un
intero paese o, meglio, di tutto il mondo ¾ eliminando crediti e debiti, comprendendo anche le azioni, che sono
crediti per gli azionisti e debiti per le aziende, i Bot e i Cct, che sono
nelle tasche dei cittadini ma sono debiti dello stato e quindi dei cittadini,
ed eliminando tutte le costruzioni artificiali dei derivati e dei futures ¾ si scopre che la vera ricchezza incorporata nei beni reali è molto più
limitata.
Come è possibile?
È molto
più limitata ed è sempre quella. I terreni, a parte piccole variazioni, non
crescono né diminuiscono.
Sempre Mark Twain diceva:
comprate terreni, non ne fabbricano più.
Infatti.
Tutti gli anni si raccolgono i frutti della terra e tutti gli anni si consumano.
I materiali estratti dalle miniere diventano costruzioni e oggetti che
tuttavia, col tempo, ritornano alla terra. Nulla di fisico si crea. Lo stock di
ricchezza reale (da res, cosa) si può
considerare fisso.
Ma, allora, se è fisso, con
l’aumento demografico ciascuno, mediamente, s’impoverisce. Come mai allora il
Pil aumenta e le persone, mediamente, diventano più agiate?
Abbiamo
visto che il concetto di stock di beni non giustifica il fenomeno. Però se
consideriamo il concetto di flusso, le cose cambiano.
Non sono sicuro di seguirti.
Ti
faccio un esempio, abbastanza comune. Ti sarà capitato di incontrare nei
paesini di villeggiatura quei piccoli imprenditori edili che costruiscono le
villette per le vacanze dei cittadini.
Osserviamo
la loro tecnica. Questi impresari sono, in genere, titolari di ditte
individuali e non sempre si riesce a capire il confine tra le loro tasche e le
casse dell’impresa. Quando ricevono una commessa da un cliente, chiedono un
anticipo. Con questo anticipo non comprano mattoni e cemento. Nossignore.
Comprano scarpe, pantaloni, una moto nuova, un frigorifero. Mattoni e cemento
li comprano a credito. Poi, magari con l’anticipo di un'altra commessa, pagano
mattoni e cemento e così via.
Se
riuscissimo a fare la somma di attivo e passivo, eliminando crediti e debiti,
vedremmo che il totale, spesso, è pari a zero. L’impresario e la sua famiglia
vivono, e anche bene, prelevando, temporaneamente, quello che serve dal flusso
di denaro che arriva dai clienti, prima di girare ai fornitori il dovuto.
È
quello che fanno, più in grande, i veri finanzieri. Montano un affare, a
credito, e ripagano il debito precedente con un altro affare, fino a costruire
un vero impero, e vivendo come nababbi, intercettando il flusso di denaro che
si muove tra debitori e creditori.
A meno
che qualcosa s’inceppi.
È verissimo. I giornali sono
pieni di questi casi. Qualcosa s’inceppa quando qualcuno si mette seriamente a
fare le somme e scopre che il valore netto dell’impero è zero o anche meno.
Esatto.
E visto che prosperano sul flusso di denaro e non sullo stock di ricchezza che
in realtà non possiedono, la loro abilità consiste proprio nell’aumentare a
dismisura il numero e le dimensioni delle operazioni. In pratica, aumentano la
velocità del denaro stesso affinché ne possano prelevare di più.
Mi ricorda i giocolieri che
creano figure nell’aria facendo roteare palline e clave. Sembrano costruzioni
reali ma si dissolvono immediatamente appena il giocoliere smette di lanciarle.
Pensa
che questo atteggiamento da giocoliere ha coinvolto tutta l’economia. Ormai è
considerato normale che le leggi economiche vengano applicate al contrario: non
si produce più per consumare ma si deve consumare per poter produrre e non è
più la domanda di beni che crea l’offerta ma oramai si offre di tutto per
sollecitare la domanda.
È il
trionfo del nulla che diventa qualcosa. Finché il giocoliere ce la fa. Le
risorse reali sono una quantità fissa. È il modo di utilizzarle che ne aumenta
la qualità.
Quindi siamo tutti un po’ giocolieri.
Tutti dobbiamo arrangiarci a estrarre dal flusso di risorse finanziarie che ci
circonda quello che ci serve per vivere e magari qualcosa di più da mettere da
parte.
Facciamo
esattamente quello che fanno tutti gli altri esseri viventi. Gli alberi, per
esempio, traggono dall’ambiente i materiali che utilizzano e li trattengono, in
forma più organizzata, per la durata della loro vita.
Contraggono,
per così dire, un debito temporaneo nei confronti dell’ambiente. Ma accade
sempre che l’ambiente, alla fine, si riprenda le sue risorse. E se sommiamo
tutto, il volume di risorse totale, ambiente + alberi, è sempre lo stesso.
In
qualità di animali, facciamo biologicamente la stessa cosa. In qualità di animali
evoluti, ci troviamo a dover applicare lo stesso principio anche alla sfera
economica, estraendo dall’ambiente economico e finanziario, e cercando di
trattenere, le risorse monetarie che ci servono.
Molti criticano questa
impostazione della società, vedendovi soprattutto un problema di distribuzione
delle risorse.
È vero,
ma i sistemi alternativi proposti hanno sinora dimostrato di essere ancora più
iniqui e dannosi. Non dimentichiamo che importa non tanto il valore della
ricchezza posseduta quanto la massimizzazione complessiva dei valori d’uso. E
questo si ottiene in modo efficiente con i meccanismi descritti.
Qualcuno critica anche l’enorme
volume di risorse finanziarie che finiscono nelle casse delle imprese piuttosto
che nelle tasche dei lavoratori dipendenti.
È una
vecchia teoria che sostanzialmente demonizza il profitto. Se guardiamo i
numeri, vediamo che non è così. Guarda, questo è il conto Economico 2004 tratto
da un bilancio reale, pubblicato, che uno del mestiere riconoscerà a prima vista:
Conto Economico - Esercizio 2004 |
milioni
di euro
|
Fatturato |
45.637 |
Consumi di materiali e servizi |
37.196 |
Valore aggiunto |
8.441 |
Costo del lavoro |
6.167 |
Margine operativo lordo |
2.274 |
Ammortamenti |
2.224 |
Risultato operativo |
50 |
Leggiamolo
criticamente:
A
fronte di un fatturato di 45 miliardi di euro è stato conseguito un margine
lordo (valore aggiunto) di 8 miliardi di euro. Questo margine è stato distribuito
come segue: 6,1 miliardi di euro ai lavoratori dipendenti e 2,2 miliardi di
euro a un fondo che misura il deperimento dei beni produttivi, macchinari e
impianti.
Resta
un margine ¾ esiguo, non enorme ¾ di 50 milioni di euro, sul quale anche banche e fisco pretendono la loro
parte.
Ora, se
questo margine venisse distribuito ai dipendenti, questi non riceverebbero
neppure un 1% in più di quanto già ricevono. Nella maggior parte dei casi, non
se ne accorgerebbero neppure.
Senza
contare che nella voce “Consumi di materiali e servizi” è senza dubbio inclusa
una quota cospicua di retribuzioni di altri dipendenti esterni.
Inoltre,
se il margine netto venisse destinato a dividendi, ne beneficerebbero gli
azionisti che, in gran parte, sono ex dipendenti che hanno investito in quelle
azioni la loro liquidazione.
Il
bilancio qui esaminato è un esempio significativo e rappresentativo di quanto
accade al sistema industriale nel suo complesso.
Quindi la teoria della
distribuzione totale ai lavoratori è una chimera, visto che, in un modo o
nell’altro, prima o poi, gli utili vanno tutti alle persone fisiche.
Sì. Si
tratta solo di vedere in quali tasche vanno. Dal punto di vista puramente
economico, non è necessario introdurre elementi di giudizio morale nel modo in
cui si distribuiscono le risorse.
E già
che ci siamo, occorre anche sfatare l’idea che vi siano spese virtuose e spese
viziose. È un concetto estraneo all’economia. Se vado al casinò e perdo 5.000
euro, cosa ne pensi?
Che hai sprecato i tuoi soldi.
Non è una buona cosa.
Per me
no, ma per il padrone del casinò è una manna. Lui prende i 5.000 euro e si
compra una moto nuova. È un bene o un male? Per l’economia nel suo complesso è
un bene, perché rispetta il comandamento di consumare di più per produrre di
più. E una moto per lui è più utile di 5.000 euro per me che, evidentemente,
non sapevo cosa farne, dato che li ho sprecati.
In
economia non esiste il concetto di denaro sprecato, in quanto, semplicemente,
passa da una tasca all’altra. Esiste, eventualmente, il concetto di risorse
male utilizzate, cioè in modo tale che non sia reso massimo il loro valore
d’uso.
Per concludere questa
chiacchierata sull’economia fatta di vuoto, quale potrebbe essere un
atteggiamento positivo verso il denaro?
Citerò
una massima che possa guidarti: il denaro che si possiede è fonte di libertà;
il denaro che si insegue è fonte di schiavitù.
Il modo per arrestare le folli corse
finanziarie
è
fermare l’autista, non l’automobile.
Woodrow Wilson