Cerchio quadrato
Se i
triangoli facessero un dio, gli darebbero tre lati.
Il tema della conferenza era a scelta. Il pubblico, a quanto potevo
prevedere, sarebbe stato variegato, come è di solito il pubblico serale. Non mi
sono preparato per l’esposizione, ma ho fatto in tempo a rileggere gli appunti
a me più cari, scritti via via nel tempo. Così questa sera ho continuato a
saltare di palo in frasca perché il pubblico mi seguiva e io lo sentivo in
sintonia con me.
Sono partito dalla Scolastica e ne ho esposto il metodo leggendo una
paginetta che gli astanti hanno ascoltato senza fiatare, come imputati a cui
venissero letti i loro diritti all’atto dell’arresto.
Il movimento teologico che si
propose di utilizzare al massimo grado la facoltà della ragione si chiamò
Scolastica, un termine che nel primo
medioevo indicava l’insegnamento tenuto nelle scuole o nelle chiese.
I modi di insegnamento erano
due: la lectio, “lettura” o “lezione”
di commento a un testo, e la disputatio, “disamina”
o “disputa” critica su una tesi, con argomenti favorevoli o contrari, che si
svilupparono poi rispettivamente nei “commentari” e nelle “questioni“.
I laureandi in teologia
dovevano discutere ogni semestre, prima di Natale e Pasqua, le Quaestiones quodlibetales, questioni a
piacere su argomenti qualunque. I professori trattavano invece nei loro corsi
le Quaestiones disputatae, su
argomenti istituzionali.
Il metodo,
esemplificato da Abelardo nel classico Sic et non, “Così e non”, consisteva
nell’esporre nell’ordine: il problema, le ragioni contrarie alla soluzione
proposta, quelle favorevoli, l’enunciato della soluzione, le sue dimostrazioni,
e le confutazioni della soluzione opposta.
Piergiorgio
O d i f r e d d i, Le menzogne di Ulisse, Longanesi
2004.
Ho fatto scendere in campo per primo Aristotele, rispolverando un
ragionamento su potenza e atto che tanto mi era piaciuto quando l’insegnante di
religione don PiGi l’aveva esposto a scuola quarant’anni fa. Ho definito il concetto
di Potenza (P) = possibilità (capacità di un essere di eseguire un atto) e Atto
(A) = esecuzione di un’azione.
Si possono dare i seguenti casi:
P < A L’essere ha una possibilità di azione inferiore agli atti che
effettivamente esegue. È una situazione illogica, poiché nessuno può eseguire
più di quello che rientra nelle sue possibilità.
P > A L’essere ha una possibilità di azione superiore agli atti che
effettivamente esegue. È la situazione tipica dell'uomo che, essendo soggetto a
vincoli di varia natura, non può eseguire, tradurre in atto, tutto quello che
potrebbe.
P = A L’essere ha una possibilità di azione esattamente adeguata agli atti che
esegue e esegue esattamente tutti gli atti che è in grado di eseguire. È la
situazione teologicamente riconosciuta a Dio, inteso come Atto Puro, in quanto
libero da vincoli e limiti di qualsivoglia natura (onnipotenza).
L’argomento ha portato
alla discussione sulla libertà dell'uomo e di Dio.
Discende da P > A che
l’uomo deve necessariamente effettuare delle scelte, e ne faccio discendere il
quesito se abbia o no la capacità di prendere decisioni non condizionate dai
vincoli ai quali è soggetto.
A tale capacità do la
definizione di libero arbitrio, cioè la facoltà di scegliere tra alternative,
tradizionalmente tra il Bene e il Male.
Affronto anche il tema
della responsabilità delle scelte, e se il libero arbitrio sia un dono elargito
da Dio.
Discende da P = A che
Dio, non essendo costretto da vincoli, è perfettamente libero e onnipotente.
Analizzo se tutti gli atti concepibili possano essere effettivamente eseguiti
da Dio.
Il pubblico apprezza il
mio modo di schematizzare gli argomenti, senza fronzoli. Anche perché c’è poco
tempo.
Possibile che san
Tommaso d’Aquino non si sia espresso? Mi sembra di ricordare qualcosa sul
problema degli atti impossibili: insegnava che è peccato considerare il fatto
che Dio non può fare l’impossibile come una limitazione del Suo potere.
Preferisco pensare che è errato.
Esemplificando, fingo di chiedermi se rientri nelle facoltà di Dio creare
un cerchio quadrato, ed espongo la risposta già data dalla teologia cristiana:
Dio potrebbe anche farlo, in quanto onnipotente per definizione, ma è il
cerchio che per sua natura non può essere quadrato.
Un intervento divino nel mondo materiale si scontrerebbe con i limiti
propri degli oggetti materiali, e, in definitiva, con le leggi della logica,
della fisica e della natura. Alla nostra ragione sembra evidente l’esempio del
cerchio quadrato, ma che dire di altre violazioni delle leggi della natura?
Sembrerebbe perfettamente logico supporre che nessuna legge fisica possa
essere violata da Dio, ma sembra meno evidente che Egli non possa, per esempio,
impedire a una pietra di cadere dall’alto in basso o viaggiare Egli stesso a
una velocità superiore a quella della luce.
Tengo sveglio il
pubblico con le mie argomentazioni: anzitutto, che per sostenere la pietra Egli
dovrebbe ricorrere a qualche forza della natura, in quanto non si comprende
come un Purissimo Spirito potrebbe avere effetti su un oggetto materiale; e
poi, che per affermare il Suo superamento della velocità della luce si dovrebbe
entrare nella difficile analisi di quale significato possa avere, per un
Purissimo Spirito, trovarsi localizzato in un punto in un certo istante e un
secondo dopo localizzato in un altro punto, distante un miliardo di chilometri.
Faccio intervenire
fattori quali l’impossibilità dello spazio (Sua creatura) di “localizzare” Dio
e l’impossibilità del tempo (Sua creatura) di misurarne la durata degli
spostamenti. E faccio notare un fatto ancora più sottile: questo viaggio di
Dio, per poter avere un significato nei termini del mondo fisico, deve essere
percepito da qualche creatura. Ma in tal caso, si realizzerebbe, per la
creatura, una trasmissione di informazione a velocità superiore a quella della
luce, cosa che implicherebbe i noti paradossi dei viaggi nel tempo (previsione
del futuro, effetto che precede la sua causa, viaggio nel passato magari per
uccidere se stessi da bambini, ecc.).
Esprimo la mia opinione
che Dio non abbia alcuna possibilità di influire sul mondo, non certo per
limiti Suoi ma per i limiti propri che ha il mondo a esserne influenzato.
L’argomentazione
contrasterebbe con la credenza nei miracoli, in quanto interventi sul mondo
materiale intesi come violazioni di leggi naturali, oltre che come improbabili
“ritocchi” dell’atto della creazione.
Avverto che non sto
dicendo nulla di blasfemo: non c’è l’obbligo di credere ai miracoli. Se si
ipotizza un Dio onnipotente, Questi dovrà essere necessariamente anche
onnisciente, in quanto non può darsi un’infinita capacità di agire disgiunta da
un’infinità conoscenza delle conseguenze delle proprie azioni.
È pertanto da escludere
come incoerente l’idea di una creazione che necessiti di interventi successivi,
che ne denuncerebbero l’imperfezione iniziale o la mancanza di una completa
conoscenza del futuro da parte del Creatore.
Passo alla domanda
essenziale: tolti gli interventi sul mondo materiale, quali sono gli atti
divini che esaurirebbero la Potenza di Dio, in omaggio al principio P = A?
Ecco il colpo di scena.
Sembra azzardato, ma è così logico.
L’unico atto possibile
sarebbe proprio quello della creazione del mondo, una volta per tutte. Si noti
che non è neppure appropriato parlare di Dio come causa del mondo, poiché il
principio causa-effetto presuppone un “prima” e un “dopo”, cioè l’esistenza del
tempo. Ma la creazione non è avvenuta nel tempo, in quanto il tempo è a sua
volta una creatura, come già affermato da sant’Agostino.
Ho sant’Agostino dalla
mia parte. Adesso attacco col problema del male. Nessuno finora è riuscito a
risolverlo. Chissà, con un po’ di impegno, stasera ci riesco.
Ci sono altri atti che
sarebbero preclusi a Dio: ad esempio, Dio non può volere il male. Tuttavia il
male, almeno a livello soggettivo umano, esiste.
Le società umane sono
ordinate sulla base del principio di responsabilità, che investe non solo gli
atti compiuti, il “fare”, ma anche il “non fare” e il “permettere”.
Queste ultime categorie
sono previste specificamente dal nostro Codice Civile e Penale, dove si trova
che, dal punto di vista della responsabilità, il non impedire (o permettere) un
evento che si ha il dovere e la facoltà di impedire equivale a tutti gli
effetti a commetterlo.
Se il male esiste nel
mondo, si può concludere che è voluto da Dio? No di certo. Si può concludere
che è permesso o non impedito da Dio? No di certo. Secondo la nostra logica
sarebbe equivalente alla prima ipotesi.
Si può concludere che la
creazione sia stata difettosa e a un certo punto sia degenerata? No di certo.
Sarebbe come negare l’onnipotenza e l’onniscienza, e si rientrerebbe nel primo
caso, ma abbiamo già visto che interventi successivi come i miracoli sono
concetti incoerenti.
Sorge qui l’ulteriore
ipotesi che Dio, bontà infinita, avrebbe dovuto impedire il male. L’unica
conclusione logica è ancora quella del cerchio quadrato: Dio non può impedire
il male nel mondo, in quanto i vincoli fisici che permettono l’esistenza del
mondo stesso lo originano necessariamente.
Ci vuole qui un bel
colpo d’ala, in modo da girare l’argomento con medievale abilità scolastica. E
ricorro agli esempi.
Il cancro è considerato
un male, almeno a livello individuale. Tuttavia sappiamo che il meccanismo che
lo genera è strettamente connesso con quello che genera la vita e con
l’evoluzione della stessa (cioè la riproduzione delle cellule).
La mia argomentazione porta
alla conclusione che la vita, necessariamente, non poteva non derivare da un
processo che a un certo punto genera anche il cancro.
Si può ritenere che Dio
stesso, pur con potenza e scienza infinite, non abbia potuto creare la Vita nel
mondo fisico se non in questo modo, vale a dire congiunta con il meccanismo del
cancro.
La scienza scopre
continuamente vincoli di questo tipo: ad esempio, il mondo fisico non potrebbe
esistere se le costanti naturali non avessero un preciso valore e se certe
forze, e solo quelle, non esistessero, oppure non avessero esattamente
l’intensità osservata.
Oggi si ricerca
attivamente, e con qualche successo, la cosiddetta teoria del tutto, cioè
quella legge fisica che stabilisce che il mondo fisico deve esistere
necessariamente e, necessariamente, nella forma in cui si trova.
Mi piacerebbe parlarne,
ma il tempo incalza. Per ora cito solo il mio scienziato preferito, che era
anche un buon filosofo.
È molto significativa la frase di Einstein, quando, considerando i vincoli
esistenti ai modi di essere del mondo fisico, affermava: quello che realmente
mi interessa è capire se Dio nel creare il mondo avesse delle alternative.
A questo punto è inevitabile il quesito se Dio abbia il libero arbitrio. Il
concetto si applica qualora si debbano effettuare delle scelte ma, secondo il
principio P = A e dalle argomentazioni già svolte, risulta che Dio non deve mai
farlo.
Faccio riflettere sul
fatto che, se Dio è un essere necessario, allora anche tutti i suoi atti sono
necessariamente necessari. Se tra questi atti consideriamo la creazione, ne
discende che l’atto della creazione è necessario.
La possibilità di
compiere solo atti necessari non lascia tuttavia spazio al libero arbitrio.
Senza voler concludere,
annoto come Dio abbia necessariamente creato il mondo, ma anche come il mondo,
proprio per poter essere creato, non abbia avuto altro modo di esistere se non
nella forma che ha, a causa dei vincoli derivanti dalla sua natura di oggetto
materiale.
Sento che al pubblico
piace il paragone con la situazione del muratore che è perfettamente in grado
di costruire un edificio con pietre e mattoni ma che si trova a disporre solo
di sabbia e acqua: l’edificio risultante è condizionato da questi limiti.
Arrivo a stabilire che
il libero arbitrio non è una facoltà di Dio e persino a esonerare Dio anche dal
concetto di responsabilità.
Arrivo persino a
ipotizzare che il libero arbitrio, semmai, non è una facoltà applicabile a
esseri infiniti e perfetti ma, piuttosto, un limite proprio degli esseri finiti
e imperfetti, emergente dalla necessità, da parte di questi, di compiere
scelte.
Ho in serbo per la
conferenza, alcuni argomenti che ruotano attorno al libero arbitrio. Mi sfugge
un commento a voce alta: “Adesso viene il bello: determinismo e causalità”.
La scienza classica,
diciamo fino agli inizi del novecento, era fondamentalmente deterministica,
basata sul principio di causa-effetto. La posizione deterministica è stata
espressa chiaramente da Pierre-Simon de Laplace che nel suo Essai philosophique sur les probabilités
del 1819, scriveva:
Un’intelligenza che, a un dato
istante, potesse conoscere tutte le forze da cui la natura è animata e la
posizione rispettiva degli enti che la compongono — una intelligenza
sufficientemente vasta da sottoporre questi dati all'analisi — abbraccerebbe
nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell'universo e quelli
dell'atomo più leggero; per essa, nulla sarebbe incerto e il futuro, come il
passato, sarebbe presente ai suoi occhi.
Secondo il determinismo
della fisica classica, la conoscenza delle leggi e dei dati relativi a un certo
istante (condizioni iniziali) consente di prevedere con assoluta certezza
l'evoluzione di un sistema.
La fisica classica
ritiene di poter arrivare a conoscere le leggi e ammette, almeno in linea di
principio, che sia consentito conoscere i dati.
Molti fenomeni (quali il
lancio di un dado) sono di fatto imprevedibili a causa della mancata conoscenza
delle condizioni iniziali. Diventerebbero perfettamente prevedibili nel momento
in cui si acquisisse tale conoscenza, concettualmente possibile per la fisica
classica.
Condizioni iniziali
differenti produrranno differenti evoluzioni del sistema. Questa rigida concezione
deterministica non lascia spazio alcuno al libero arbitrio.
Sento rumoreggiare la
platea: è il momento di parlare dell’incalcolabilità degli stati dei sistemi e
del caos.
Anche all'interno della
fisica classica sono noti da tempo fenomeni la cui evoluzione è estremamente
sensibile alle condizioni iniziali (sistemi caotici). Questi sistemi sono
caratterizzati dalla cosiddetta non linearità, cioè dal fatto che ad ogni
variazione delle condizioni iniziali (o delle cause), corrisponde una variazione
più che proporzionale negli stati successivi (o effetti).
Per tali sistemi, pur
essendone l’evoluzione perfettamente deterministica, è assolutamente
impossibile prevedere l'evoluzione futura. Ho così introdotto il concetto di
incalcolabilità.
La grande fortuna dell'uomo, nella sua impresa di tentare di comprendere le
leggi fisiche, consiste proprio nel fatto che, pur essendo i sistemi fisici
normalmente non lineari, in pratica, a livello locale, cioè su scala umana,
questi si comportano approssimativamente come lineari. Il mondo, pur
consistendo di oggetti che s’influenzano reciprocamente nella loro totalità,
risulta analizzabile, con buona approssimazione, come una collezione di oggetti
e sottosistemi separati.
La teoria della
relatività è un ottimo esempio di descrizione del mondo deterministica.
Einstein non ha mai creduto veramente alla realtà ultima della fisica
quantistica. Diceva: Dio non gioca ai dadi. Tale descrizione deterministica del
mondo risulta non lineare su scala cosmica (quindi non calcolabile o
difficilmente calcolabile nella maggior parte dei casi), eppure quasi lineare
su scala sufficientemente piccola, tanto da confondersi con la fisica classica
a dimensioni umane.
Interpreto il silenzio
del pubblico come una necessaria pausa di riflessione. E introduco il terzo
argomento: indeterminismo e casualità.
La fisica quantistica ha
ridimensionato la visione deterministica della fisica classica, anche se è
improprio considerare la meccanica quantistica una teoria indeterministica. A
livello di singola funzione d'onda è, infatti, perfettamente deterministica.
Ammetto che la mancata
conoscenza esatta dei dati relativi alle condizioni iniziali (conseguenza del
principio d’indeterminazione di Heisenberg) impedisce di prevedere esattamente
i valori futuri assunti dalle diverse grandezze fisiche che caratterizzano lo
stato di un sistema. Questa impossibilità ci obbliga a previsioni
esclusivamente di tipo statistico.
Tuttavia, anche
ammettendo una natura completamente indeterministica, in cui il caso regnasse
sovrano, anche le nostre scelte sarebbero del tutto casuali.
Posti di fronte a
un’alternativa, la nostra scelta deriverebbe da una semplice fluttuazione
quantistica a livello neuronale e difficilmente potremmo considerarla frutto di
ciò che chiamiamo libero arbitrio.
Di conseguenza, neppure
l'abbandono della concezione deterministica sembra lasciare spazio al libero
arbitrio.
Sento che il pubblico
non partecipa alle mie elucubrazioni. Allora enuncio una formula che gela le
vene per l’estrema evidenza della sua logica: tutto ciò che accade nel mondo
fisico, e quindi anche tutto quello che accade nel nostro cervello, deriva da
un’alternativa:
1. un insieme di leggi deterministiche = causalità
2. un insieme aleatorio di eventi = casualità
In altre parole, quali
che siano gli atti da noi compiuti, non potrebbero essere che quelli, poiché in
un mondo causale, le leggi naturali, l’ereditarietà e l’ambiente (pensiamo al
ruolo determinante dell’educazione e della cultura della comunità d’origine)
causerebbero gli stati mentali che ci hanno condotto alla scelta di quegli
atti, mentre in un mondo casuale, non vi è alcuna possibilità di considerare i
nostri atti come “causati” da noi.
È la nozione stessa di
libero arbitrio a dover essere ridefinita. Il problema del libero arbitrio
(seppure si possa ancora considerarlo come un problema reale, piuttosto che un
gioco di parole o un insieme di idee apparentemente corretto, ma probabilmente
logicamente incoerente, così come viene formulato) è in realtà un insieme di
tanti problemi non sempre facilmente analizzabili.
Dal pubblico una voce
imperiosa chiede qualche applicazione pratica al mondo reale. Ringrazio per la
domanda.
Dal punto di vista operativo
è relativamente semplice stabilire se un essere possieda o no libero arbitrio:
è sufficiente chiedersi se sia possibile o no prevedere esattamente le sue
azioni.
Sicuramente tale
possibilità ci è preclusa, sia in un mondo deterministico, per motivi di
incalcolabilità, che in uno indetermininistico.
Di conseguenza la
categoria morale del libero arbitrio sembra essere solo un'utile
approssimazione, o una necessità psicologica, per gestire il comportamento
umano.
Attribuendo a noi stessi
il libero arbitrio, il discorso passa dal terreno strettamente scientifico a
quello etico-morale.
La maggior parte dei
moralisti ha da sempre sostenuto che il concetto di libero arbitrio, e quello
strettamente connesso di responsabilità individuale, costituiscono il
fondamento di ogni società civile.
Il modello di società
basato sulla responsabilità potrebbe sembrare infinitamente ingiusto, una volta
dimostrata l’inconsistenza del concetto di libero arbitrio. Tuttavia il sistema
in pratica funziona, poiché, a livello psicologico, vi siamo educati da sempre.
Si potrebbero ipotizzare
altri modelli di ordine della società umana non basati sulla responsabilità, in
quanto derivante da scelte libere, bensì basati su concetti più utilitaristici.
Per esempio, a nessuno
verrebbe in mente di considerare un lupo come “cattivo” o “responsabile” delle
sue eventuali malefatte nei nostri confronti. Si può tuttavia abbattere (o,
meglio, mettere in fuga) il lupo solo in base al valore negativo delle sue
azioni, senza investigarne le cause.
Riteniamo tuttavia che
modelli simili, basati sulla valutazione oggettiva delle azioni, non siano bene
accolti nei sistemi che chiamiamo democratici.
Stando così le cose, il
libero arbitrio dell'uomo consiste probabilmente solo nel grado d’ignoranza nei
confronti del futuro.
Questo può essere dovuto
in parte all’incalcolabilità, come si è detto, ed in parte all’inadeguata
comprensione dei processi mentali.
Aggiungo che, secondo
alcuni, il concetto di libero arbitrio scaturisce probabilmente dall’interazione
del simbolo del sé con gli altri simboli del cervello. In particolare, il
simbolo del sé sarebbe una proprietà emergente della mente, nel momento in cui
la sua complessità raggiunge un livello tale da far emergere, a sua volta, la
consapevolezza.
Non vado oltre perché
ritengo che sia uno di quei concetti dei quali, non potendosene parlare, è
meglio tacere.
A domanda, preciso che
non si può parlare di “dono” da parte di Dio (che a sua volta non lo possiede):
il libero arbitrio sarebbe una conseguenza necessaria della complessità della
mente.
Nessuno potrebbe pensare
di “donare” tre angoli a una figura geometrica delimitata da tre lati (il
triangolo): i tre angoli sono la conseguenza necessaria dei tre lati, che
nessuno può aggiungere o eliminare.
È quasi l’ora. Devo
finire, ma voglio tentare di dare una soluzione al problema del cerchio
quadrato.
Intendo dimostrare che
certe questioni diventano problemi solo se formulate in modo ambiguo e che, una
volta ridefinite in termini appropriati, diventano talmente chiare e
risolvibili che ci si chiede come mai non ci si era pensato prima.
Il pubblico sente che lo
chiamo all’ultima fatica, e accetta la sfida. Accendo la lavagna luminosa e
disegno un cerchio così come lo conosciamo e un cerchio quadrato cioè una
figura geometrica perfettamente concepibile nelle condizioni che descriverò. Le
figure soddisfano le seguenti definizioni:
per “cerchio” si intende
l’insieme dei punti equidistanti da un punto interno definito “centro”;
per “quadrato” si
intende la figura geometrica con 4 lati e 4 angoli uguali.
La figura a sinistra
mostra il classico cerchio, disegnato nel reticolo cartesiano della geometria
euclidea che abbiamo imparato nelle scuole medie. È l’insieme di tutti i punti
equidistanti dal centro, e la distanza è definita R, che assumiamo pari a 1.
Non è possibile scorgere
alcunché di quadrato in questa figura, né alcuna delle proprietà del quadrato,
così come le abbiamo definite.
Il problema della quadratura del cerchio è stato dimostrato insolubile con metodi elementari solo nell’ottocento, dopo innumerevoli tentativi da parte dei migliori geometri nel corso degli ultimi duemila anni.
Immaginiamo, ora, uno
spazio governato da una geometria non euclidea, in cui l’unità di lunghezza
varia secondo la direzione in cui sono prese le misure.
In particolare, R passa
dal valore “1” nella direzione Nord al valore “radice quadrata di 2” nella
direzione NE, secondo la funzione R = Sec(a), per ritornare a 1 nella direzione
Est, e così via, in modo ciclico e simmetrico, nei 4 quadranti della figura.
L’esistenza matematica
(e forse anche fisica) di un tale spazio è perfettamente concepibile; anzi,
secondo la teoria della relatività, lo spazio fisico possiede effettivamente la
proprietà di variare le unità di misura, in modo anche più complesso, secondo
la velocità degli oggetti, le accelerazioni e i campi gravitazionali.
Appare evidente che la
figura di destra, osservata da un punto sopra il centro, soddisfa la definizione
di quadrato (4 lati e 4 angoli uguali); e anche la definizione di cerchio, in
quanto il perimetro della figura è costituito da punti tutti distanti dal
centro una quantità pari a “1”, sia pure misurata con un regolo che varia la
sua lunghezza secondo la direzione delle misurazioni.
Concludo con voce
stentorea che la mia soluzione non toglie nulla all’argomento del cerchio
quadrato come azione impossibile, ma specifico: impossibile nella geometria
euclidea.
Tutti si alzano e
applaudono. Applaudono mentre sfollano camminando all’indietro, come gamberi
travestiti da uditori. Il segretario mi mormora all’orecchio che è mezzanotte
suonata.
Su ciò di cui non si può parlare si deve
tacere.