Monsampolo del Tronto - Costume e Società nell'Ottocento aaaaa

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La festa di Santa Teopista, vigilata dai gendarmi locali (dal 1830 a Monsampolo), era per tutti un appuntamento fisso, irrinunciabile, un ponte che la fede cristiana lanciava a tutti i cittadini affinché il suo messaggio diventasse fecondo di aggregazione.

In tale coinvolgimento gioioso, quasi nessuno rimaneva ai margini sentendosi lontano. In chiesa nessuno apriva bocca, ma Io smanioso indagare degli sguardi era un rito assai diffuso.
Fuori, cessate le funzioni, le frotte dei ragazzi assordavano il paese con lazzi, scherzi e vecchi divertimenti da cortile che aiutavano a socializzare, lontani dai severi provvedimenti correttivi del loro maestro.

Si pensi, con brivido, alle sferzate sulle mani secondo gli errori che si commettevano, allo stare in ginocchio ed anche colle mani sotto il ginocchio, al cosiddetto cavalletto per gli errori più gravi e al fare le croci per terra colla lingua per ogni parola cattiva pronunciata.
A Monsampolo, nel 1832, il comportamento di questi fanciulli veniva indagato col massimo rigore: si accertava infatti la loro frequenza quotidiana alla Santa Messa, la devozione appassionata, l'attaccamento al Vangelo, il comportamento morale, il rispetto verso i sacerdoti, i politici, ecc.

I nostri bisavoli, invece, nei giorni festivi si divertivano col Gioco del Formaggio così detto a stecco nell'ampio spazio all'aperto accanto al convento del SS. Crocifisso (oggi impropriamente detto di San Francesco); mentre nei fumi delle bettole, tra i giri di bevute e le confidenze condivise, essi prediligevano il gioco delle carte e della conta, ossia la Passatella.
Non mancavano tuttavia attaccabrighe e persone fior di canaglie che per futili motivi, in un lampo, scatenavano risse da saloon facendo esplodere vecchi e nuovi rancori. Altre persone erano invece viziosissime nei giochi siano pubblici e leciti, siano occulti e proibiti. Il loro accento era molto acuto, le parole tronche e molte regnicule stante il confine.

 

I soprannomi, riservati ai poveri e ai contadini di sesso maschile, costituivano uno stimolo alla burla ironica di paese venato di evidente canzonatura:

ecco allora Vincenzo Nespeca detto Cretì, Luigi, Serafino e Giuseppe Schiavi detti Crivello, Paolo, Giuseppe, Luigi e Angelo Schiavi detti Mignì, Antonio e Luigi Fazzini detti Croce, Ernidio Fazzini detto Terrancà, Angelo Fazzini detto Trippocchio, Sante Forlini detto Turco, Filippo Camaioni detto il Moro, Domenico Di Girolamo detto Pappò, Francesco Di Girolamo detto Ricottò, Pietro Di Girolamo detto Patacca, Antonio Di Girolamo detto Sticchiò, Nicola Di Girolamo detto Olè, Pietro Andrea Neroni detto Ciciò, Antonio Di Girolamo detto Butta, Antonio Ciabattoni detto Bocciò, Nicola Travaglini detto Schioppetto, Nicola Capriotti detto Trippa, Giovanni Trivelli detto Merlino, Antonio laconi detto Cretò, Antonio laconi detto Monte Fiore, Loggi Giovanni detto Pagnottò, Giovanni Leonetti detto Fioretta, Filippo Leonetti detto Ancellotto, Antonio Leonetti detto Cardellì, Giuseppe Leonetti detto Bracco, Serafino Leonetti detto Leppò, Orsetti Luigi detto Trescioli, Capecci Pietro detto Petrazza, Alfonsi Antonio detto Ferrò, Carlini Giacomo detto Orlando, Canini Francesco detto Cappucci, Ottaviani Giuseppe detto Chicchierello, ecc.. Tutti appellativi scherzosi, ironici o malevoli ma di grande valore storico-sociologico che derivarono l'etimologia dalle attitudini lavorative, dagli aspetti fisici, dalle qualità morali e da altre caratteristiche dei singoli individui ai quali veniva affibbiato.

Erano tempi in cui la morale veniva dettata dalla Chiesa, la quale, nel 1828, vietò nel suo Stato ogni esibizione speculatrice degli stranieri che proponevano ginnastiche acrobatiche, prove di forza, balli con corde, serragli di animali, canzoni e musiche per le strade, fantasmagorìe, giochi con cavalli, cani, orsi, scimmie e tanti altri esercizi che potessero esercitare una grande attrattiva sui popolo.
Ricordiamoci che tutte queste attrazioni non vengono mai restituite dalle testimonianze documentarie di Monsampolo, dove nelle circostanze nuziali solo il basso ceto e i contadini erano soliti allestire lauti banchetti; mentre il primo ceto festeggiava le nascite e i periodi puerperali con trattamenti in paste, confetti e rosolio.

 

La condizione della normalità paesana era assicurata da tutta una serie di doveri da rispettare: ad esempio le allegre riunioni danzanti in case private, musicate da pifferi, violini e chitarre francesi, veniva inteso dalla municipalità come una pubblica festa che implicava l'autorizzazione da parte delle autorità ecclesiastiche e la vigilanza dei gendarmi.

Va anche detto che a Monsampolo il gioco del pallone, che certamente aveva dato il nome all'omonima via (de' morti, o sia del Pallone, oggi Mazzini), procedeva nel segno di un beffardo e fastidioso rumoreggiamento: ad esempio nel 1846 troviamo Nicola Gaetani Tamburini con i fratelli Pietro, Francesco e Fortunato Tassetti e Felice e Giuseppe Rainaldi, a fare il così detto gioco del Pallone nell'interno dell'abitato, e precisamente nella strada del Pallone Municipale, adunando studiosamente una buona ciurma di ragazzi, ed altro non fanno che un riprovevole baccano, con insopprimibili grida, disturbando così la quiete pubblica di tutto il vicinato.

Fino al 1825 nel paese regnarono scandali e indecenze di vario genere, nonché l'abuso di tenere aperte le bettole in occasione delle sacre funzioni dei giorni festivi (Santa Teopista incluso). Ci volle la determinazione del vescovo di Teramo per reprimere gli audaci disordini con un decreto straordinario emesso nell'ambito della sua visita pastorale.

Bisogna intanto dire che nella sola via del Corso, a differenza di altre vie dei paesi limitrofi, nel 1839 esistevano ben 5 bettole e spacci di liquori, mentre, nel 1862, 15 attività commerciali e artigianali (caffetteria, farmacia, drogheria, panetteria, osteria, pizzicheria, falegnameria, ecc.).
La popolazione viveva stipata in 220 case del paese, 242 del circondario e in 5 casini di campagna. Le dimore rurali citate nei nostri documenti, rimanevano comunque gli
atterrati e le pinciare, elementari casupole costruite con argilla, paglia e acqua, simbolo della povertà più estrema, testimonianza di una vita contadina durissima, degradante, priva dei servizi elettrici, idrici e igienici. Alcune abitazioni di questo tipo erano ancora in uso agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso.
La famiglia era del tipo patriarcale-plurinucleare, composta cioè di varie coppie coniugaIi che in campagna assicuravano la totale gestione dei fondi rustici. E di notevole interesse soffermare l'attenzione anche sui mezzi di trasporto e di lavoro che si associano all'attività lavorativa della massa dei contadini. Nel
1831 troviamo nel circondario del Comune 20 carri tirati da bovi, 13 corretti tirati da cavalli e muli e 8 treggie tirate da bovi.
L'aspetto igienico di Monsampolo però, lasciava molto a desiderare ma non era dissimile da quello delle altre città italiane.

Molto interessanti sono le notizie che si ricavano dai documenti sugli antichi mestieri artigianali, numerosi dei quali nei settori delle calzature, degli indumenti, del ferro e dell'edilizia. Basti pensare che nel 1849 erano attivi 14 calzolai, 18 sarti, 6 fabbri ferrai, 3 falegnami, 2 calderai, 6 muratori, 3 tinazzari, 2 canapini, un funaro, 2 materassai e un pittore.
Tutti questi mestieri, parte dei quali oggi perduti, affondavano le loro radici nella stessa storia esistenziale del paese e si tramandavano di padre in figlio con ogni cura e segreto di esecuzione, al fine di ottenere la migliore risposta clientelare.
Senza contare, poi, quella eccezionale lavorazione dei fichi secchi che a Monsampolo veniva praticata da molti secoli secondo una ricetta segretissima ma con cifre di modesto fatturato. Il paese viveva essenzialmente di agricoltura e pochi erano gli spazi lasciati incolti, Il grano, in particolare, si smerciava neIle piazze circonvicine, mentre il vino, giustamente rinomato, veniva ricercato anche dai paesi stranieri, tanto vero che si san fatte diverse spedizioni in Dalmazia.

 

Dobbiamo registrare anche con piacere che nel 1861 a Monsampolo la produzione bacologica era fiorentissima.

Nel paese lavorava un maestro per eccellenza, quel Nicola Gaetani Tamburini - che già conosciamo - famoso per le sue ricerche e sperimentazioni seriche da quando, nel 1850, si dette al miglioramento dell' educazione de' Bachi sì per giovare il proprio Paese sì per togliersi dall'inerzia della vita nella quale lo avevano posto il Governo Clericale e Tedesco [era infatti un sorvegliato politico che non trovava nella Monsampolo pontificia la patria stabile della sua vocazione liberale].

Deve a lui il Paese, e i Paesi circonvicini, il miglioramento educativo del Baco... e di tali studii si è avvantaggiato in un modo veramente civile questa industria nel Paese, ed oggi è la prima e più sentita utilità di tutte le famiglie.

Nel 1882 lo stabilimento bacologico dei Tamburini, premiato dall'istituto di Scienze ed Arti Umberto I, emergeva nel tessuto castellano in linea gradevolmente sobrio.
Si trattava, comunque, del palazzo storico della famiglia che in seguito venne venduto a certo Renzi Pasquale di San Benedetto dal quale, nel 1894, lo acquistò il Comune.

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Elaborazione grafica tratta da una carta intestata dell'epoca

I documenti non ci privano altresì delle caratteristiche geografiche, idriche e climatiche di questo periodo, certamente importanti per un quadro generale dell'epoca trattata: La natura del suolo è in parte sedimentaria fluviale, ed in parte siliceo-argillosa. il prodotto è sufficiente e si distingue a preferenza quello dei cereali e del vino... Il clima è mite in modo che la maggiore elevatezza è di 26 e la minore di 2 gradi... dei due torrenti Fiobbo e Icona che solcano il territorio, il primo si estingue del tutto nell'estate, ed invece il secondo denominato icona è sempre provvisto di acqua perenne e costante tanto nell'inverno che in tutte le altre stagioni... lungo la via dal mare ad Ascoli non vi è torrente che nell'estate porti acqua ad eccezione dell'icona.

Da ultimo vale lo pena ricordare che lo comunità di Monsampolo rimase legata al suo ricco patrimonio di tradizioni religiose in ogni epoca storica di violenta mutazione politica (invasione francese, Regno italico, ecc .); ma la festa di Santa Teopista trovò la sua conclusione negli anni che fecero seguito all'ultimo conflitto mondiale. Ancora nel 1947 la processione votiva sfilava per le vie del paese iuxta solitum, vie ancora impregnate della magica atmosfera che in origine le caratterizzava.

Forse i giovani di oggi e i nuovi cittadini si sono accorti di Santa Teopista solo adesso, ma gli anziani del paese ne parlano da sempre, come la più importante e la più amata dai tempi andati e dal paese tutto. Il suo culto, oramai, tra alti e bassi conta quasi 350 anni e risale al 1665, quando don Giovan Battista Corradi fece traslare le sue spoglie da Roma a Monsampolo.

 
 

Testo e immagine tratti da:
SANTA TEOPISTA
LA STORIA E LA FIERA
Paolo Schiavi - Luigi Girolami
Comune di Monsampolo del Tronto
1999