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L’inganno - ovvero l’importanza di chiamarsi Renato - Mi sovviene or ora il ricordo di una vicenda
occorsami diversi anni fa. E’ proprio vero che a volte, ed anche piu’ spesso,
la realta’ puo’ superare la fantasia. La vicenda si svolse il quella torrida
estate del 1985, quando per mesi, se ben ricordo tre, non piovve e la calura
porto’ pena a molte persone mentre ad altre porto’ il sapore dell’ ”estate
come era una volta”. La vicenda si svolse in un tardo pomeriggio d’estate
quindi; un cielo cupo e carico di nubi come non si vedevano da mesi, aria
calda di scirocco che prometteva, una pioggia torrenziale che pero’ da cento
giorni non si decideva a precipitare. Ero andato alla stazione per la mia
solita fermata bi-settimale di acquisto sigarette. Non che manchino i negozi
di tabaccai nei paraggi di casa, pero’ il tabaccaio della stazione ha sempre
esercitato un certo fascino su di me. Quasi che fosse paragonabile ad un
pronto soccorso del viaggiatore: accendini, regali dell’ultimo momento con le
loro caratterisctiche assurde, caramelle alla menta di tutti i tipi e per i
piu’ speranzosi lotterie varie per altrettante improbabili vincite. Tornavo
alla macchina passando per il sottopassaggio che come ben si sa non sarebbe
accessibile alle persone non munite di biglietto ferroviario. Dicevo che
tornavo verso la macchina rigorosamente in divieto di sosta, lasciata li’
dopo un furtivo sguardo nel raggio dei pochi metri circostanti e confidando
che con l’imminente pioggia anche i nostri beneamati tutori dell’ordine
sarebbero stati piu’ clementi se non per i possessori delle auto, almeno verso loro stessi. L’atrio
principale della stazione era praticamente deserto, e scesi le scale del
sottopasso, gingillando con le dita un pacchetto di sigarette ancora chiuso.
La luce del sottopasso era di quel giallino scialbo, come in tutte le
stazioni, e il tunnel vuoto apriva ad intervalli regolari le rampe che
salivano ai vari binari. Binario uno, binario due binario tre e cosi’ via
fino all’ottavo. Piu’ in la’ era l’uscita verso “piazza del popolo” dove
avevo, per l’appunto, parcheggiato la macchina. Era li’ che mi dirigevo.
Quasi in fondo al tunnel una donna camminava tirandosi a presso un trolley.
Non era certo facile giudicarne ne’ l’eta’ ne’ tantomeno l’aspetto. Di spalle
poi sarebbe stato ancor piu’ difficile !
Camminava con un’andatura calma, quasi flemmatica di chi ha tempo e
non ha mete se non se stessi. Non so di preciso cosa successe in quel
momento, certo e’ che cominciai a correre verso di lei. Le suole delle scarpe di gomma, sul fondo
sintentico antiscivolo del pavimento mi davano l’impressione del pantano,
come in quei sogni dove l’affanno a correre e l’immobilita’ sono un tutt’uno.
Forse un passo svelto sarebbe stato piu’ che sufficiente a raggiungerla,
eppure correvo. Poi, d’improvviso urlai : “madame, madame!” Rimasi sorpreso dalla mia voce e
dal significato della mia voce rotta e persa: il mio corpo che accelerava
verso di lei, il cuore che batteva, il respiro affannato. Si era voltata verso
di me, con una torsione del busto e il trolley sempre nella solita direzione
di prima. Prima uno sguardo attonito, poi un magnifico sorriso e io li’, che
ansimavo senza neanche piu’ voce per dire qualcosa, una qualsiasi cosa.. Non avevo davvero piu’ fiato. La donna lascio’ il bagaglio e con
uno slancio subito frenato mi abbraccio’ esclamando: “Rrrrrrrrrenatooooo”. Ora , puo’ essere alquanto
interessante sapere che io mi chiamo Luca. La “R” cosi forte del suo “renato”
seguito dalla maniera calda di pronunciarlo indicavano una provenienza di
certo straniera, ma quale fosse questa provenienza davvero non lo so. Insomma
forse la parola “renato” era portatrice di piu’ informazioni di “luca”
tuttavia mi si apriva una fila di domande tutte senza alcuna risposta.. Mi aveva riconosciuto come Renato,
forse un suo amico che non vedeva da tanti anni e con qualche rassomiglianza
con la mia persona? Oppure qualcuno che non aveva mai visto e aspettava dopo
una “combine” di qualche agenzia di cuori solitari ? Non so. No, questa
ultima ipotesi non mi pareva possibile, non mi convinceva: una cosi’ bella
donna non poteva certo andare in un’agenzia matrimoniale e certo non ne aveva
bisogno. L’unica cosa certa e’ che io non ero, e non sono renato. Lo so, ne
sono certo: io sono LU-CA. Non mi baleno’ neanche per un attimo l’idea di
dover chiarire l’equivoco con la donna, visto che ero stato io ad innescarlo
con quella folle corsa cominciata senza significato. E cosi’, preso dalla
foga di quella situazione assurda capii che dovevo agire in maniera repentina
prima che arrivasse renato, quello vero. Le dissi che avevo la macchina
parcheggiata li’ fuori e lei mi segui’ senza indugio. Le nuvole, sempre li’,
sempre stessa storia, tanto buio e niente acqua; caldo e afa: a piacere. Salimmo
in macchina, e li’ guardai lei negli occhi, sorridendo e sentendomi sempre
piu’ renato e sempre meno luca. La baciai. Siamo onesti, tentai solo di
farlo, cercando altresì in maniera goffa di prendere la sua tetta destra
nella mia mano sinistra. Il risultato fu disastroso. Non rispose al bacio e
si fece buia in viso. Era evidente che non si aspettava cio’ da renato. Mi
sentii per un momento perduto e poi, per sdrammatizzare come nulla fosse
avviai la macchina e partii. Cosi’ ero certo almeno che non sarebbe fuggita. “Dove mi porti?” mi chiese. “non so, fra un po’ piove” buttai
li’… “dimmi dove preferisci” proseguii. “al ponte, al nostro ponte” disse. Quale che fosse il nostro, o meglio
“loro”, ponte non lo sapevo davvero, pero’ pensai subito al ponte del diavolo
situato nelle vicinanze. Risalente al 1200 compariva in un sacco di
pubblicita’ ed era la prima cosa che mi venne in mente: mi diressi la’. Circa
cento metri prima del ponte, sulla sinistra c’era una piazzola dove spesso mi
recavo a leggere. Posteggiai li’ e scendemmo dall’auto. Stava per piovere. Il
ponte con le nubi scurissime che facevano da sfondo era bellissimo,
specialmente con i raggi di luce radente che filtravano e lo illuminavano nel
suo slanciarsi sul fiume con tre campate ad arco. Accennai qualche cenno storico
alquanto improbabile e folcloristico al riguardo di quest’opera
architettonica, mi venne cosi’, e poi
chiesi: “come va a casa? “ “bene” rispose. “fortunatamente bene” continuo’ “niente di eccezionale ma le cose
vanno decisamente meglio”. Era tutto cosi’ assurdo: cercare di
capire quali domande fare e cosa volessero dire le risposte.Dopo il rapido
giro andammo in un bar li’ vicino.Si bevve del vino quasi in silenzio poi mi
chiese: “non vuoi vedere i miei lavori?” “si certo” risposi, sperando di avere qualche informazione di piu’ sulla sua
persona. Dalla sua borsa tiro’ fuori un catalogo con le foto dei suoi lavori
e ritagli di giornale in cui era citata. Li’, su quei fogli lessi, accanto alla sua foto, il suo nome: “Artemisia”. Il giornale era in lingua tedesca, tuttavia il suo aspetto piuttosto esotico mi dava da pensare a qualcosa di piu’ mediterraneo. La sua pronuncia indubbiamente straniera non mi lasciava capire la provenienza, una pronuncia come quella della persona che parla diverse lingue. La donna era tutta infervorata a mostrarmi ed illustrarmi le foto dei suoi lavori: foto di vestiti e sfilate a cui le sue opere avevano partecipato. Si rivolgeva a me sempre in tono molto amichevole e confidenziale: quasi di complicita’. E chiamandomi sempre renato, ovviamente. Al quarto bicchiere di rosso eravamo davvero grandi amici. Cosi’ almeno avrebbe detto chi, per caso, passando di li’ ci avesse visto assieme. Per quel che mi riguardava cercavo di ascoltare e parlare poco, spiegavo cose futili che qualsiasi persona avrebbe detto: della siccita’, sulla crisi lavorativa che investiva il mio settore (rimasi sul generico) e cose cosi’ veramente senza senso. Comincio’ a diluviare: doveva essere veramente un giorno speciale ! Quando ripasso di li’ il barista volle fare la foto assieme, mi sentivo imbarazzato. Gia’ mi vedevo in un album con la didascalia: “Artemisia e Renato”. Un vero falso. Mi spiego’, subito dopo, che doveva essere di nuovo alla stazione per le otto e cosi’ uscimmo. Volevo andare alla macchina e venire a prenderla per non farla bagnare. Lei, invece corse sotto la pioggia e rideva ed era contenta bagnandosi tutta. Era una bambina. La cosa mi lasciava sempre piu’ allibito: sapevo solo il nome di quella donna e di li’ a poco sarebbe ripartita. Forse diventai taciturno, e anche lei lo era e guardava fuori la campagna che passava nel breve tragitto verso la citta’. Arrivati al parcheggio mi guardo’ e mi sorrise, mi bacio’ sulle labbra e disse : “ti telefono fra una settimana, quando torno, al solito numero, quello di ieri, va bene?” “si certo” risposi. E salto’ giu’ veloce con il suo
trolley e spari’. Mi sono sempre chiesto cosa disse una settimana dopo al
telefono a renato e magari della foto. O forse la foto non la mostro’ a nessuno? Sono rimasto 2 ore con lei
chiedendomi chi fosse e mi piace pensare che la settimana seguente fosse
rimasta lei a chiedersi chi fossi io. E chissa’, forse anche ora guardando
quella foto si chiede in quale buffa storia fosse capitata. | Home Page | Racconti Vecchi | Racconti Brevi | Racconti Nuovi | Racconti di altri | Il libro degli Haiku | La pagina dei Link | Archivio | |