Metodi e modelli.
Walter Picco, Orazio Pistono, Plinio Pinna Pintor
Fondazione Arturo Pinna Pintor - Torino
fondazione@pinnapintor.it
L'accelerazione del progresso tecnologico degli ultimi decenni, sia delle strutture impiantistiche e delle strumentazioni, sia nelle procedure sanitarie ha prodotto una altrettanto rapida obsolescenza delle tecnologie passate. Tutte le aree delle attività sanitarie sono state interessate da questo fenomeno e, pertanto, anche i modelli di riferimento ed i metodi per la determinazione della sicurezza microbiologica delle sale operatorie. Ogni epoca ha avuto i suoi modelli, considerati in quel tempo ottimali, come quello rappresentato nella bella stampa del 1605, che veniva considerato tale dal Dalla Croce Giovanni Andrea nel suo trattato "Cirugia Universale e perfetta di tutte le parti pertinenti all'ottimo Chirurgo…" in Venetia, appresso Roberto Meglietti, 1605.
Sarebbe quasi umoristico se si riproponesse come modello di sala operatoria
quello della stampa riprodotta. Ma proprio per l'accelerazione del progresso,
anche modelli e metodi di trenta anni fa possono essere inattuali oggi
se si vuole garantire ai Pazienti la sicurezza in sala operatoria ed una
ottima o buona qualità dei risultati.
Le Infezioni Ospedaliere
La prevenzione delle infezioni iatrogene pone le sue fondamenta sulla intuizione di Ignaz Semmelweis, che nel 1840 dimostrò l’importanza dell’igiene delle mani nella trasmissione delle infezioni negli ospedali, e sul lavoro di Joseph Lister che, introducendo i principi dell’antisepsi intorno al 1860, permetteva una drastica riduzione delle drammatiche conseguenze delle infezioni postoperatorie. Questi importanti passi in avanti della pratica medica facevano seguito a secoli di tentativi empirici di controllo delle infezioni delle ferite (chirurgiche e non): a partire dai Babilonesi che irrigavano ferite e bende con birra e terebinto, ai Greci che cospargevano le ferite con limatura delle spade di bronzo, fino ad arrivare al 1400-1600, quando pomposi cerusici rinascimentali irroravano le ferite con olio bollente e con applicazioni di rosso d’uovo, o come si può vedere dalla figura citata nell’introduzione, dove in una improvvisata sala operatoria della Venezia del 1600 le uniche precauzioni anti-infettive sono individuabili nella presenza di un tenda a baldacchino che protegge il campo operatorio dalla caduta della polvere dal soffitto e nella presenza di un braciere per la "sterilizzazione" delle bende (ma dove possiamo anche notare un notevole affollamento: parenti affranti, bambini curiosi e cani e topi in evidente attesa di "bocconi").
Dopo l’era pioneristica di Semmelweis e Lister, quando era lo Streptococco a creare i maggiori problemi, sono seguiti decenni di relativo torpore nella ricerca e nel controllo delle Infezioni ospedaliere, fino ad arrivare alle pandemie degli anni 1940-50 quando si denunciava lo Staphylococcus aureus come il maggiore responsabile delle infezioni nosocomiali. Solo negli ultimi 15-20 anni si è cominciato a produrre - soprattutto negli Stati Uniti, nei paesi del Nord Europa ed in Francia - una discreta quantità di documenti su questo problema: linee guida, raccomandazioni, leggi e decreti finalizzati alla riduzione del rischio infettivo per il paziente ospedalizzato.
In Italia l’eco di queste informazioni è spesso giunta in ritardo o attenuata, e non sempre alle sollecitazioni e raccomandazioni degli organismi normativi è corrisposta una pronta risposta da parte degli operatori della sanità. Ci si è spesso mossi sotto la spinta emotiva dell'urgenza o del caso eclatante, come è avvenuto dopo i quattro casi di endoftalmite da Bacillus Cereus occorsi all’inizio di Aprile 1998 a danno di pazienti sottoposti ad intervento di cataratta presso l’ospedale Umberto I di Roma, dovuti alle inadeguate condizioni igieniche delle procedure chirurgiche. Si è allora improvvisamente risvegliata l’attenzione e l’interesse dei mass media ("Malasanità: otto pazienti su cento ogni anno tornano a casa con un disturbo più grave", "Corsie killer: 25.000 morti", "Morire d’ospedale, la strage delle infezioni tra i ricoverati") e dell’opinione pubblica sul tema delle infezioni nosocomiali.
Nel periodo immediatamente successivo all’incidente, dal Ministro della
Sanità era stato promesso l’avvio di un piano di Prevenzione e Controllo
delle Infezioni Ospedaliere nella convinzione, suffragata dagli esperti
dell’Istituto Superiore di Sanità, che almeno 35 infezioni su 100
possano essere prevenute. A tutt’oggi non si ha notizia dell’attivazione
di alcuna misura o emanazione di una qualche nuova legge o direttiva. E’
in questa situazione di relativo immobilismo dell'amministrazione della
Sanità centrale e periferica che va inquadrata l’attività
di controllo che il Procuratore della Repubblica ha programmato per valutare
le condizioni di sicurezza microbiologica delle sale operatorie piemontesi.
Ma qual è il quadro della situazione? Esistono riferimenti normativi
immediatamente utilizzabili? Quali sono i modelli applicativi di riferimento?
Quante Infezioni Nosocomiali?
I dati Italiani attuali possono essere solo estrapolati, in quanto risale al 1984 l'ultima indagine campione sul territorio nazionale: nel 1996 erano stimati 475.000 casi di infezioni ospedaliere, con 15.000 morti associate e una spesa di 1760 miliardi [1] , mentre stime dell’anno in corso segnalano che dal 5 all' 8% dei pazienti ricoverati contrae una infezione nosocomiale che può portare al decesso (media di 17 morti ogni 1000 posti letto). Punte molto elevate di incidenza sono state segnalate in rianimazione e terapia intensiva (31% di infezioni contro il 20% della media europea). Il costo è stato calcolato in circa l'1% della spesa sanitaria complessiva (oltre 1000 miliardi su 106.000 miliardi) [2] .
Negli Stati Uniti da 25 anni il NNIS (National Nosocomial Infections Surveillance) del CDC (Centers for Disease Control and Prevention, Atlanta) riceve mensilmente reports di infezioni nosocomiali da un campione nonrandom che coinvolge più di 270 istituzioni [3 - 4]:
Infezioni nosocomiali negli USA (CDC Atlanta)
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(x 106) |
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nosocomiali (x 106) |
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1975 |
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1995 |
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Come si può notare, negli USA negli ultimi 20 anni il tasso di Infezioni Nosocomiali è rimasto praticamente immutato (intorno al 5%), mentre, a causa del progressivo accorciamento della durata della degenza, il tasso di Infezioni Nosocomiali per 1000 giorni paziente ha avuto un incremento del 36%. Sulla base di questi dati si è stimato per il 1995 un costo pari a 4,5 miliardi di $ e 88.000 morti all’anno (uno ogni 6 minuti).
Negli ultimi anni (1990-1996) la maggior parte (34%) delle infezioni nosocomiali sono state causate da cocchi Gram+ (S. aureus, stafilococchi coagulasi-negativi, enterococchi), mentre i quattro più comuni patogeni Gram- (E. coli, P, aeruginosa, Enterobacter sp e K. pneumoniae) sono responsabili del 32% delle infezioni. Dopo un periodo (gli anni 70) in cui i bacilli Gram- erano diventati sinonimo di infezione ospedaliera, viene segnalato un ritorno sulla scena dei "blue bugs", come familiarmente vengono chiamati i batteri Gram+ dai batteriologi americani, ed in particolar modo l’emergenza di S. aureus meticillino resistenti (MRSA) ed enterococchi vancomicino resistenti (VRE).
Prevalenza delle localizzazioni delle infezioni
nosocomiali (CDC Atlanta)
anno | Tratto
urinario |
Ferita
chirugica |
Tratto respiratorio | Sangue | altro |
1975 |
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1990-1996 |
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Nello studio delle localizzazioni delle infezioni ospedaliere viene segnalata la difficoltà, insorta negli ultimi anni, di interpretare i dati, dovuta ai sempre più ridotti tempi di degenza. Ad esempio la degenza media postoperatoria, negli USA ora ridotta approssimativamente a 5 giorni, è usualmente più corta dei 5-7 giorni di incubazione per lo sviluppo di una infezione della ferita chirurgica da S. aureus, per cui si può ragionevolmente ritenere che i dati raccolti durante il ricovero sottostimino la prevalenza delle infezioni di questo e altri germi a lento sviluppo.
In Europa lo studio più attuale e di maggiori dimensioni è l’ "Enquête nationale de prévalence des infections nosocomiales" realizzato in Francia nel 1996 dal Comité Technique National des Infections Nosocomiales e dal Ministero della Sanità [5]. L’inchiesta ha coinvolto 830 centri di cura tra quelli ospedalieri pubblici, ospedalieri regionali ed universitari, ospedalieri specializzati, privati partecipanti al servizio pubblico, altri (privati, ospedali locali, ospedali militari) rappresentanti mediamente il 73% dei posti letto disponibili. Secondo i risultati di questo studio, la prevalenza di pazienti affetti da una infezione contratta durante la permanenza in ospedale è risultata essere del 6,7%. Le infezioni urinarie rappresentano più di un terzo delle infezioni ospedaliere (36,3%). Le altre infezioni riscontrate più frequentemente sono state: infezioni polmonari (12,5%), infezioni del sito operatorio (10,6%), infezioni della pelle e dei tessuti molli (10,5%), infezioni respiratorie diverse (8,2%), setticemie (5,9%). I microorganismi isolati sono stati: 53% bacilli Gram- (principalmente Escherichia coli e Pseudomonas aeruginosa); 33% cocchi Gram+ (principalmente Staphylococcus aureus, il 57% dei ceppi isolati sono risultati resistenti alla meticillina); 14% microrganismi diversi (anaerobi, bacilli Gram+, cocchi Gram-, micobatteri, funghi, parassiti e virus). Il reparto con il più alto tasso d’infezione ospedaliera è risultato essere quello di rianimazione (22%). [Questo dato preoccupante emerge anche da altre ricerche e viene associato ad una forte presenza di atti invasivi in questo tipo di attività e ad una caduta di attenzione alle condizioni igieniche durante le procedure d’urgenza -ndr]
Non esistono dati epidemiologici piemontesi. Un documento dell'Assessorato Sanità del 25.11.97 stimava una morbilità di almeno 40-50 mila casi/anno con una mortalità dell'1% ed un costo (sempre stimato) intorno ai 100 miliardi.
Come prevenire e tenere sotto controllo queste infezioni?
Modelli Applicativi di riferimento
Normativa Americana
Basata principalmente sulle direttive e linee guida che provengono da organismi nazionali o federali quali: Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organizations (JCAHO)[6], Occupational Safety and Health Administration (OSHA)[7 - 8] e Centers for Disease Control and Prevention (CDC)[9 -10 - 11 - 12 - 13 - 14].
In tutti i documenti viene enfatizzata la necessità di adottare le precauzioni universali e misure per migliorare la ventilazione degli ambienti a rischio, la sterilizzazione degli strumenti e del campo operatorio, lo studio dei percorsi, la tecnica chirurgica e la preparazione del paziente. Con particolare attenzione vengono trattati i temi dell’isolamento del paziente e del lavaggio delle mani. Il riferimento, sino ad oggi, pertanto è solo a standard strutturali e procedurali.
Normativa Italiana
La normativa italiana su questo argomento trova il suo cardine in due
circolari che il Ministero della Sanità, recependo raccomandazioni
e linee guida europee e statunitensi, ha emanato nel 1985 e nel 1988: la
Circolare Ministeriale n° 52/1985 "Lotta contro le Infezioni Ospedaliere"
la Circolare Ministeriale n° 8/1988 "Lotta contro le infezioni ospedaliere:
la sorveglianza". Le succitate circolari "di indirizzo e sensibilizzazione"
prevedono, tra l’altro, la costituzione di "Comitati di Infezione Ospedaliera"
(CIO) e l’introduzione della figura della "Infermiera addetta al controllo
delle infezioni". Infine, nel Decreto Ministero Sanità 24/7/1995
viene proposto come indicatore di risultato il rapporto tra il N° casi
di infezioni ospedaliere e il N° di dimissioni.
Normativa Regione Piemonte
Attualmente rappresentata dal documento: "Indicazioni per l'attuazione
di programmi di sorveglianza e controllo delle Infezioni ospedaliere nella
Regione Piemonte" del 25/11/1997. I criteri utilizzati nel documento
sono stati ispirati all'Accreditation Manual for Health Care Organisation
della JCAHO e prevedono l'istituzione di un CIO in ogni ospedale piemontese.
Come si può vedere, esistono - anche a livello nazionale e regionale - documenti ufficiali, elaborati ed aggiornati in base alle conoscenze scientifiche del settore, che, pur senza l’autorevolezza della legge, avrebbero potuto negli anni favorire una presa di coscienza degli operatori sanitari e una crescita culturale dei soggetti interessati. Purtroppo risultano essere molto pochi i centri ospedalieri che si sono attivati per costituire i CIO e renderli operativi, inserire le figure professionali specifiche e per attivare i sistemi di sorveglianza. La situazione non è molto diversa da quella del 1980 quando Pitzurra[15] scriveva: "In Ospedale gli opportunisti patogeni e gli stafilococchi continuano a mietere le loro vittime. Ma, nel nostro clima, niente di razionale si fa contro di essi. I controlli, che si pongono in atto solo quando è alle porte il Procuratore della Repubblica, vengono improvvisati sul più elementare empirismo".
A proposito dell’attività di controllo degli Organi Giudiziari, si è accennato alla verifica delle condizioni di sicurezza microbiologica delle sale operatorie piemontesi. A quali modelli di lotta alle infezioni fanno riferimento?
L'attività di controllo si è basata principalmente sul campionamento di aeriformi (sopra il lettino operatorio ed in prossimità dei bocchettoni di aerazione) e di superfici (lettino operatorio e pavimento) delle sale operatorie con determinazione della carica batterica totale e dei patogeni più comuni. La metodologia di campionamento prevede l'utilizzo di campionatore SAS per aeriformi e piastre da contatto da 24 cm2 per le superfici.
I risultati vengono espressi per gli aeriformi in Unità Formanti Colonia/m3 e in UFC/24 cm2 per le superfici.
La misura delle cariche batteriche dell'aria e delle superfici non è però unanimemente riconosciuta come un efficace marcatore del rischio infettivo. Tale metodo ha goduto della sua maggior fortuna nel periodo che va dal 1960 al 1970 e fa riferimento ai lavori di Kethley (1966)[16]e di Galson e Goddard (1968)[17]. Ma già a partire dal 1973/75 venivano posti seri dubbi sull'efficacia dei controlli microbiologici ambientali a tappeto: Eickoff (1973)[18] affermava: "..The Commitee on Infections within hospitals concludes that routine enviromental sampling is unnecessary and wasteful...", due anni dopo Lowbury (1975)[19] sosteneva: "…Unless there is an outbreak of infection, routine bacteriological sampling of floors, surfaces and air is rarely indicated…" e in Italia, Pitzurra (1980)[20]: "...Non è il campionamento microbiologico che risulta inutile, quanto il modo col quale viene fatto. E’ da ritenere che la mancanza di una chiara visione del problema e la mancanza di standards di riferimento li renda inutili. Anche in caso di esplosioni epidemiche: quando si realizza una caccia alle streghe in cerca di responsabilità, si tratti di un germe o di una persona". Nel loro libro dedicato alla pulizia in ospedale Finzi e Sassoli (1991)[21] riportano la posizione dell’OMS sull’argomento, in base alla quale: "… I risultati ottenuti dai tests batteriologici di routine dell'ambiente non ne giustificano l'applicazione generalizzata. Questi tests dovrebbero essere effettuati solo: a) quando vengono introdotti nuovi metodi di pulizia o nuovi detergenti, b) in presenza di un'epidemia, c) ogniqualvolta ci sia il desiderio di motivare o di verificare il personale…". E infine riportiamo il più recente ed autorevole giudizio, quello del Department of Health and Human Services - Centers for Disease Control (1998)[22]: "...Because there are no standards or acceptable parameters for comparison of microbial levels for ambient air or enviromental surfaces in operating room, routine microbiologic sampling cannot be justified. Such enviromental sampling should only be perfomed as part of an epidemiologic investigation."
CONCLUSIONI
Sin dalla più remota antichità erano in uso metodi per curare le infezioni delle ferite, pur non conoscendone la causa. Solo nello scorso secolo, con la nascita della microbiologia, sono stati razionalizzati i trattamenti e proposte le prime misure di prevenzione. E' da pochi decenni che vengono introdotti metodi di rilevamento del rischio basati inizialmente sui campionamenti dell'aria degli ambienti a rischio, che, però, dopo pochi anni hanno perso credito in quanto non si sono rese disponibili ricerche che documentino una correlazione significativa fra la concentrazione batterica di aeriformi e sulla superficie e la prevalenza di infezioni ospedaliere.
D’altra parte si deve anche dire che perfino nei Paesi, come gli USA, dove i Centri di cura sono stati sottoposti a rigidi controlli da parte delle Commissioni di accreditamento, basati su indicatori di procedure e strutture, la prevalenza delle infezioni ospedaliere non è diminuita negli ultimi 20 anni in modo significativo. Ciò probabilmente è imputabile alla multifattorialità che concorre alle infezioni ed alla difficoltà di individuare le variabili indipendenti più importanti da tenere sotto controllo.
L'introduzione di standard strutturali procedurali da parte della JCAHO, diffusasi recentemente anche in Europa e da pochi mesi in Piemonte, migliorando i metodi di controllo e le procedure comportamentali, potrebbe produrre un abbattimento delle infezioni nosocomiali.
E' auspicabile che la recentissima introduzione di indicatori e standard di "esito" (outcome), tra cui la prevalenza delle infezioni chirurgiche, nel manuale di accreditamento degli Ospedali americani con il progetto ORIX[23], renda possibile l'accertamento delle variabili più importanti associate al rischio di infezione, fra queste le procedure comportamentali (percorsi puliti, controllo della sterilità di strumenti e liquidi, igiene degli operatori ed eventualmente anche carica batterica ambientale).
In ogni caso, la necessità di studiare la prevalenza delle infezioni corredata da precisi dati ambientali e personali dei pazienti conferma l’importanza di disporre in ogni ospedale di strumenti conoscitivi forniti dai CIO (già previsti dalla non più recente normativa italiana) come primo passo per la verifica di qualità delle cure prestate dagli ospedali sotto il profilo della sicurezza microbiologica e per i provvedimenti correttivi.
Bibliografia