Tavola Rotonda
La pubblicizzazione dell'errore medico e l'aumento del contenzioso influenzano la qualità delle cure?
Intervento del dott. Maurizio Laudi
Procuratore Aggiunto presso il Tribunale di Torino
Riprendo alcuni dei temi già posti nel corso di questa tavola
rotonda, per fornire chiarimenti e tentare risposte dal punto di vista
giuridico rispetto alle domande prospettate.
Primo problema: un eccessivo ed indiscriminato intervento della
magistratura inquirente, cioè dei Pubblici Ministeri, in materia
di responsabilità professionale medica, specialmente a seguito
di una denuncia presentata da un paziente o dai suoi familiari. Si
lamenta, in particolare, che la magistratura intervenga “ a
pioggia “ raggiungendo con avvisi di garanzia un numero
sproporzionato di medici la cui estraneità ai fatti viene poi
dichiarata in modo tardivo con conseguente danno rilevante sia sul
piano dell’immagine che su quello patrimoniale (spese legali;
rescissione dei contratti di assicurazione).
Fermo restando che in determinati singoli casi queste critiche possono
essere fondate perchè il P.M. ha esercitato i suoi poteri in
modo non sufficientemente equilibrato, va ricordato che per obbligo
costituzionale il P. M. in Italia deve esercitare l’azione penale
in presenza di una qualsiasi notizia di reato giunga a sua conoscenza.
E’ un sistema diametralmente opposto a quello dei paesi
anglosassoni nei quali l’esercizio dell’azione penale
è facoltativo, legato cioè anche a valutazioni
discrezionali di opportunità da parte del prosecutor
(intervenire o non intervenire; intervenire soltanto nei confronti di
Tizio e non di Caio).
Ciò significa che il nostro P.M. ha l’obbligo di avviare
un procedimento penale in presenza di un esposto, di una querela o di
una notizia comunque raccolta dal suo ufficio per una vicenda asserita
di responsabilità professionale medica. Con l’unica
eccezione per i casi nei quali fin da subito risulti l’assoluta
infondatezza della denuncia: casi non del tutto rari, ma neppure troppo
frequenti.
Da questa premessa, che discende non da una facoltà ma
dall’obbligo imposto al P.M. dall’art. 25 Costituzione,
deriva una conseguenza rigida, alla luce delle regole vigenti del
nostro processo penale. Il P.M. deve notificare l’informazione di
garanzia a tutti coloro che risultano, sulla base della notizia di
reato, aveva avuto un qualche ruolo, attivo od omissivo, nella vicenda
oggetto della denuncia, ogni volta che debbano essere compiuti
accertamenti non ripetibili. Nel campo medico, accertamenti non
ripetibili sono ad esempio una autopsia o lo svolgimento di una
indagine tecnica su reperti o tracce che devono necessariamente essere
utilizzate, e quindi inevitabilmente distrutte, in sede di accertamento
tecnico.
Quindi, un P.M. coscienzioso non correrà mai il rischio di
effettuare o far effettuare questo genere di accertamenti senza aver
prima “informato” tutti i sanitari una cui
responsabilità potrebbe emergere dall’esito di tali
accertamenti. In caso contrario infatti, il medico non avvisato
dell’esistenza dell’indagine potrebbe giustamente dolersi
di non essere stato messo a tempo debito nelle condizioni di difendersi
sin dall’inizio, ad esempio attraverso la nomina di un suo
consulente di fiducia, autorizzato a seguire e partecipare al lavoro
dei consulenti nominati dal Pubblico Ministero.
Mi rendo perfettamente conto che questo meccanismo è produttivo
di conseguenze anche pesanti, sul piano dell’immagine e sul piano
patrimoniale, per il medico che viene ad essere indagato nella fase
iniziale delle indagini, per vedersi poi prosciolto da ogni accusa al
termine delle indagini stesse. A maggior ragione concordo su un
giudizio di totale iniquità della prassi che – secondo
quanto è già stato detto da altri in questa tavola
rotonda – è adottata dalle compagnie di assicurazione che
rescindono il contratto con un medico per il solo fatto che egli abbia
ricevuto una informazione di garanzia. E’ però un problema
che non può essere risolto dall’Autorità
Giudiziaria, ma chiama direttamente in causa i rapporti tra
l’Ordine professionale dei Medici e Associazioni delle Compagnie
Assicurative. Un problema che tutti auspichiamo sia definito un modo
equo per i medici, ma al quale non si può far fronte con
soluzioni di scorciatoia quale l’elusione da parte del Pubblico
Ministero dei suoi obblighi procedurali.
Secondo problema: quello di una indebita pubblicità attraverso i
giornali di notizie relative alla pendenza di indagini preliminari in
materia di colpa medica.
Sono il primo a riconoscere che si tratta di una situazione patologica
perchè le notizie su procedimenti in fase di indagini sono
coperte da segreto e quindi non dovrebbero uscire sui giornali o alla
televisione.
Non ho difficoltà ad ammettere che più di una volta la
responsabilità di queste indebite violazioni del segreto di
indagine ricade sull’ufficio giudiziario che tratta quel
determinato caso. Ritengo che in generale i rapporti tra Pubblici
Ministeri e organi di informazione dovrebbero avvenire con molta
maggiore avvedutezza e cautela da parte dei magistrati.
Aggiungo peraltro, dopo questa ammissione di colpa per la categoria,
che più di una volta l’uscita giornalistica non è
frutto di condotte scorrette da parte dei magistrati, ma passa
attraverso altri canali, specialmente nel campo dei processi per
responsabilità medica.
Talora si tratta di vicende che, per la loro gravità, hanno una immediata risonanza pubblica esterna.
Altre volte sono le stesse parti lese, o i loro difensori, a ritenere
di loro interesse pubblicizzare la notizia rendendola di pubblico
dominio.
Altre volte è dallo stesso ambiente medico, ospedaliero o
accademico, che filtrano notizie che riguardano altri medici, secondo
una logica che certamente non è ignota di contrapposizioni,
gelosie, invidie professionali che trovano sfogo censurabile nel far
giungere ai media notizie comunque idonee a danneggiare
l’immagine di uno o di un altro medico.
Terzo problema: l’importanza di una
“pubblicizzazione” dell’errore medico, o comunque di
una circostanza anomala nel corso di una terapia, al fine di farne
oggetto di riflessione comune nell’ambito della struttura
sanitaria interessata onde evitare il ripetersi dell’errore
stesso.
E’ una tematica relativamente nuova, di grandissimo interesse non
solo sul piano dell’organizzazione sanitaria ma anche su quello
dei profili legali connessi alla prassi dell’incident reporting.
Va dato atto in termini di grandissimo apprezzamento dell’impegno
su queste tematiche di alcune direzioni sanitarie e per Torino voglio
citare il nostro moderatore, il dottor Rapellino, che tanto sta facendo
in questo senso all’interno del suo ospedale.
Ragionando in termini di inevitabile sintesi, mi sembra che il problema
principale connesso al sistema dell’incident reporting ruoti
attorno al timore dell’operatore sanitario di compiere un atto
autoincriminante che un domani, vicino o lontano, possa giocargli
addirittura contro, trasformando quindi un suo gesto di scrupolo
professionale in una fonte di pregiudizio, legale ed economico, per lui.
E’ sicuramente un problema vero e sentito. Questa settimana ho
partecipato ad un convegno medico durante il quale un illustre clinico
universitario ha ricordato che durante i suoi primi anni di
insegnamento, l’ultima lezione del corso era appunto dedicata
agli errori compiuti durante il trattamento terapeutico, mentre ora non
vi è più nessuno che si prenda la responsabilità
di tenere una lezione di tal genere per la paura che
dall’esposizione pubblica di casi caratterizzati da errori
possano derivare dei pregiudizi. Se questo timore è avvertito
con riferimento ad una attività didattica, possiamo ben
figurarci quanto ancora di più sia sentito in rapporto alla
quotidianità professionale.
Da un punto di vista giuridico il problema non è stato ancora
studiato in modo organico e approfondito e da parte mia posso portarvi
il frutto di mie riflessioni, che peraltro sto sviluppando già
da qualche tempo.
Non ravviso nessun rischio di autoincriminazione, quando il report su
un errore riguardi una vicenda fortunatamente conclusasi senza
conseguenze lesive per il paziente sottoposto a trattamento medico. Per
fortuna, non tutti gli errori o le manchevolezze che comprensibilmente
possono caratterizzare l’attività professionale medica
(come qualunque altra attività umana caratterizzata da
complessità) comportano necessariamente un danno al paziente. In
questi casi, quindi, non ravviso nessun pericolo di autoincriminazione
per il medico che abbia segnalato un suo errore, o comunque una
situazione di non corrispondenza tra la pratica concreta di un certo
caso ed il modello ideale.
Il discorso diventa più complicato, invece, nell’ipotesi
in cui il report riguardi un caso nel quale il paziente ha subito, per
effetto dell’errore, un danno alla sua salute, più o meno
rilevante.
Si ritiene normalmente che l’anonimato del report, e la mancanza
di riferimenti di immediata individuazione specifica del caso concreto,
costituiscano una garanzia assoluta per l’operatore sanitario
interessato alla vicenda, sulla base della considerazione che un
documento anonimo non può essere utilizzato come fonte di prova
in un processo penale.
La considerazione è corretta da un punto di vista legale, ma parziale.
Infatti l’articolo 240 del codice di procedura penale nello
stabilire la non utilizzabilità da parte del giudice di uno
scritto anonimo, fa una eccezione: il caso in cui lo scritto anonimo
provenga da chi è stato autore del reato (o abbia comunque
concorso nel reato stesso).
Da ciò deriva che ad pubblico ministero non è vietato
acquisire scritti anonimi, e poi utilizzarli, se vi sono ragioni per
ritenere che lo scritto stesso provenga da persona in qualche modo
coinvolta nella commissione di un reato.
Quindi un profilo di un possibile effetto autoincriminante di un report
per quanto anonimo, non può a mio giudizio essere escluso.
Sono consapevole che queste mie considerazioni possono in qualche modo
ostacolare la prassi assolutamente virtuosa ed apprezzabile delle
segnalazioni di errore nel corso dell’attività
professionale, specie all’interno delle strutture ospedaliere. Ma
mi sembrerebbe venir meno ad un obbligo deontologico di chiarezza se
tacessi su questi profili, che devono invece essere conosciuti per
approntare le migliori soluzioni.
Personalmente sarei favorevole, proprio in considerazione del grande
valore positivo dei report a fini di prevenzione degli errori nella
pratica medica , ad una specifica previsione legislativa che impedisse
di utilizzare in ambito processuale documenti di tal genere. Ciò
può avvenire solo attraverso un intervento legislativo e credo
che gli ordini professionali interessati e in generale il mondo della
sanità dovrebbero farsi portavoce di una tale esigenza.
In mancanza di ciò, credo che la strada giusta sia quella di un
impegno congiunto della comunità medica e di quella giudiziaria
per elaborare una soluzione di fatto che consenta di valorizzare e
quindi rafforzare le prassi positive di incident reporting , garantendo
che da esse non derivino pregiudizi proprio ai medici che dimostrano di
avere un alto senso di responsabilità e di coscienza
professionale.
last
update:
2005/12/01 |
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