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  1.6 Dante tra Platone e Aristotele: per una lettura di Paradiso IV

 
 




In un saggio pubblicato sul «Giornale critico della filosofia italiana» nel 1924, Bruno Nardi indicava agli studiosi la necessità di intraprendere «una più ampia ricerca intorno all'influsso neoplatonico su tutto il pensiero filosofico di Dante», insistendo altresì sull'opportunità di abbandonare il cliché dominante che dipinge il Sommo Poeta come un aristotelico pedissequamente allineato alle dottrine tomistiche. In tempi più recenti Zigmunt Baransky, ricollegandosi agli studi di Bruno Nardi, Cesare Vasoli, e Maria Corti, ribadiva che il carattere pluralista del pensiero dantesco rifulge nella sua capacità di far coesistere all'interno di un medesimo quadro speculativo tesi di autori che spesso erano stati in guerra fra di loro. Tommaso d'Aquino assieme a Sigieri di Brabante, Bonaventura da Bagnoregio con Gioacchino da Fiore, Alberto Magno con Avicenna. Al termine del suo excursus Baransky arriva a sostenere che «fare di Dante un neoplatonico piuttosto che un aristotelico significa andare contro la linea dominante degli ultimi due secoli di dantismo». Forse non è il caso di arrivare a un rovesciamento di questo genere, commettendo un errore di unilateralità speculare a quello da cui ci si vorrebbe emendare. Ma è anche vero che tra i tanti pregiudizi storiografici che si sono addensati nel corso del tempo attorno alla sua opera, quello di un Dante che segue in tutto e per tutto la lezione dell'aristotelismo è forse il più tenace e inossidabile. Il quarto canto del Paradiso ci offre un dimostrazione tra le più splendide circa gli influssi che il platonismo ha esercitato in Dante, e ci mostra anche come questo influsso non contraddica affatto, bensì integri e completi, quanto di Aristotele confluisce nella Commedia attraverso i più disparati canali filosofici.

Terminato l'incontro con Piccarda Donati nel cielo della luna, oggetto del canto precedente, Dante è assalito da due dubbi di forza eguale, e non sa quale esporre prima a Beatrice. Egli ha già attraversato la sfera della Luna dove ha incontrato le prime anime beate. Questo significa che è vero il mito platonico secondo cui ogni anima dopo la morte torna alla stella da cui era discesa? Si tratta di ciò che Platone dichiara nel Timeo, un principio in conflitto con la dottrina cristiana secondo cui le anime sono create singolarmente da Dio e non preesistono in alcun modo all'atto creativo. Nel concilio di Costantinopoli del 540, undici anni dopo la chiusura delle scuole filosofiche ateniesi voluta da Giustiniano nella sua lotta contro il paganesimo, la tesi di Platone sarà ufficialmente condannata dalla Chiesa come eretica. La tesi della preesistenza dell'anima al corpo era stata assimilata da alcuni Padri come Origene, alla scuola di Alessandria, e venne combattuta dai Cappadoci nel IV secolo, in particolare dal grande Gregorio di Nissa. Il dibattito teologico di questo periodo contribuirà a determinare il profilo di quell'ortodossia dottrinaria che in seguito al concilio di Costantinopoli giungerà fino a Tommaso d'Aquino.

Il secondo dubbio di Dante riguarda la sorte assegnata dalla Provvidenza a queste anime, che stando a quanto Beatrice aveva spiegato nel canto precedente sono «qui rilegate per manco di voto» (Par. III, 30), collocate in questo cielo inferiore per non essere state in grado di adempiere ai voti fatti in terra. Ma vi è anche un motivo di carattere astrologico, stante il vecchio adagio per cui «astra inclinant, non necessitant»: durante la loro vita terrena questi spiriti sono andati soggetti all'influenza del primo cielo, da cui hanno ricevuto una naturale inclinazione alla volubilità. Piccarda fu figlia di Simone Donati e sorella di Forese, l'amico di gioventù con cui Dante aveva scambiato parte del vivace rimario all'epoca delle 'petrose'. Piccarda entrò giovinetta nel monastero di Santa Chiara in Firenze. Il fratello Corso Donati, capo della parte nera dei guelfi di Firenze, l'aveva tratta a forza dal monastero per darla in sposa a Rossellino Della Tosa, noto per essere stato uno dei più violenti e facoltosi seguaci del partito dei Neri. L'episodio avvenne tra il 1283 e il 1293, ed è ricordato dai più antichi commentatori della Commedia. Nel caso di Piccarda, quindi, è accertato che il mancato adempimento dei voti fu dovuto a un atto di costrizione, a una violenza da lei subita, che quindi non può essere imputata a un difetto di volontà. Perché allora la giustizia divina la colloca qui in basso? E se le anime del primo cielo fruiscono di un grado di beatitudine inferiore rispetto a quelle dei cieli superiori, non si ammette implicitamente che esse subiscono una sorta di punizione? Si tratta di un dubbio che riguarda da un lato il problema della giustizia divina, dall'altro il problema del libero arbitrio. Beatrice viene incontro a Dante togliendolo dal suo stato di incertezza e iniziando col risolvere il dubbio più grave, quello che riguarda la vera sede dei beati. Occorre premettere che il problema discusso in questo luogo cruciale del poema assume una triplice valenza. È soprattutto una questione teologica attinente al tema della giustizia divina, apparentemente incommensurabile con il concetto umano della giustizia. Più in generale è una questione che investe il dissidio tra ragione e fede, tema centrale in tutto il Medioevo, che dal punto di vista gnoseologico mette in gioco la domanda su come possa la mente umana, finita e mortale, elevarsi alla contemplazione della verità ultima. Contemplazione della verità e salvezza, nel cristianesimo, coincidono. La salvezza consiste infatti in quella visio Dei facialis che è oggetto della promessa escatologica, insegna San Paolo nella prima lettera ai Corinzi (13, 12): «nunc videmus per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem». Il terzo aspetto del problema, infine, è quello, potremmo dire, metaletterario, e concerne la costruzione del Paradiso dantesco, come diario di bordo di un pellegrino che ha avuto il privilegio straordinario di visitare il regno dei cieli prima di morire.

Occorre osservare che nella risposta al primo quesito Beatrice cita espressamente il Timeo di Platone, che per molto tempo fu l'unico suo testo conosciuto nel Medioevo attraverso la traduzione parziale di Calcidio affiancata da un ampio commento. Il Timeo entrerà anche a far parte del patrimonio iconografico della grande pittura rinascimentale come il testo che compendia in sé tutto il pensiero platonico. Pensiamo alla Scuola di Atene di Raffaello (1509), ma anche al dipinto collocato nella chiesa di santa Caterina a Pisa che raffigura Tommaso d'Aquino tra Platone e Aristotele nell'atto di ricevere il Timeo dall'uno e l'Etica Nicomachea dall'altro. Un'immagine che il De Wulf considerava un emblema di tutto il pensiero medievale. La prima citazione del dialogo la si trova nel Convivio III, v, 6, all'interno di un ulteriore rimando al De Coelo aristotelico. Questa del IV canto è la seconda e ultima ricorrenza presente in tutto il corpus dantesco. È noto altresì che la lettura del Timeo si diffuse a partire dal XII secolo per merito degli esponenti della scuola di Chartres, uno dei centri intellettuali più vivaci in questo periodo così ricco di fermenti innovativi. Autori come Guglielmo di Conches, Teodorico di Chartres, Bernardo Silvestre, ma anche Alano di Lilla, che gli studi di Ernst Robert Curtius hanno dimostrato essere punti di riferimento obbligati per la comprensione della Commedia, diedero anche un importante contributo al rinnovamento del genere letterario degli Exameron, proponendo un raffronto sistematico tra il testo di Platone e il racconto biblico dei sei giorni della creazione. Siamo nel periodo storico in cui l'Occidente latino cominciava da poco a impadronirsi della fisica di Aristotele grazie alle traduzioni dall'arabo redatte a Toledo proprio in quel periodo cruciale, sul finire del XII secolo. A Chartres commentare il racconto dei sei giorni della creazione secundum physicam significava darne una spiegazione articolata sulla base del testo platonico, nel tentativo di scorgere, al di là della lettera, un significato scientifico e razionale. Nel Timeo Platone espone il mito dell'Artifex mundi, l'essere divino che ha plasmato la materia primordiale traendola dal caos per conferirle un ordine intelligibile. Per far ciò egli ha tenuto presente dinanzi agli occhi il modello di perfezione assoluta costituito dal mondo delle Idee, oggetto di quella stessa visione intellettuale che la filosofia aspira a conseguire. Egli pertanto si limitò a conferire ordine a un materiale eterno preesistente, quasi come un vasaio aggiunge Platone, a differenza, quindi, del Dio della tradizione monoteista che ha creato il mondo ex nihilo. Per mantenere saldo l'ordine immanente alla materia, il Demiurgo conferì inoltre al corpo del mondo un'anima diffusa ovunque. È il grande tema pagano dell'anima del mondo che ritorna anche nel VI libro dell'Eneide, in un passo che un autore come Macrobio, il grande neoplatonico pagano di qualche decennio posteriore a Calcidio, sarà tra i primi a interpretare come un segno della sapienza filosofica di Virgilio. In questa visione pampsichistica di matrice empedoclea, l'anima del mondo è la medesima da cui derivano le singole anime di tutti gli esseri viventi, compresi animali e piante, secondo gradi di perfezione decrescenti man mano che si procede dalle forme superiori, dotate di ragione, alle inferiori che ne sono prive. Le anime degli uomini, sostiene il Timeo, sono dotate di un 'carro aereo', una sorta di veicolo cosmico costituito da un materiale leggerissimo e luminoso che permette loro di attraversare le sfere celesti: «E quando l'intera macchina dell'universo fu composta, il Demiurgo scelse delle anime in numero uguale a quello delle stelle, e mise un anima su ogni stella […] e a quelle che avessero dominato le loro passioni sarebbe stata aperta la via del ritorno alla sede della loro stella, e avrebbero vissuto da quel momento una vita giusta e felice». È l'idea che a Dante viene in mente appena incontra le prime anime nel cielo della Luna. Prima di nascere, secondo Platone, esse risiedono negli astri. Al termine della loro vicenda terrena tornano alla patria, chiamate da una nostalgia irriducibile. Quello che Dante ha visto nel cielo della Luna incontrando Piccarda sembra confermare la tesi di Platone che la Chiesa ha invece condannato come eretica. Qual è allora la verità? Beatrice risponde che le anime dei beati hanno la loro vera sede nell'Empireo, il cielo divino che avvolge come un mantello di luce tutte le sfere celesti, e tuttavia si mostrano a Dante distribuite nei diversi cieli per adeguarsi alle capacità di comprensione del suo intelletto mortale. Quello che Dante vede è quindi una sorta di illusione ottica necessaria per consentirgli di salire di cielo in cielo fino alla visione del volto di Dio, che avverrà al termine del viaggio per intercessione della Vergine invocata da San Bernardo nel XXXIII canto. Difficile, comunque, comprendere esattamente cosa voglia dire «essere nell'Empireo». L'Empireo non è un luogo nel senso aristotelico, non è una parte del cosmo, è non è un cielo al modo degli altri cieli. Dante ha già discusso questo problema nel secondo libro del Convivio. I cieli sono 'luoghi' in quanto sfere disposte in ordine concentrico, ma l'Empireo è al di là delle sfere, un luogo senza un 'dove' che le include e le trascende al tempo stesso. Forse può essere assimilato all'iperuranio di Platone, o forse ancora è un luogo interiore, la trascendenza delle anime che fruiscono della visio Dei. Ricorda quel paradossale Nirgends ohne Nicht di cui parla il grande poeta mistico novecentesco Rainer Maria Rilke nelle Elegie Duinesi. Si tratta senz'altro di un concetto che ci sospinge al limite del pensabile lasciandoci con questo paradosso: i cieli sono dei 'luoghi', eppure sedi apparenti delle anime. L'Empireo non è un «luogo», e tuttavia è la sede reale delle anime.

Beatrice spiega perché le anime si mostrino a Dante come se fossero distribuite in cieli diversi. Si è detto che questo è un espediente necessario per adeguarsi alla sua capacità di comprensione. Dante infatti è ancora un uomo fatto di anima e corpo, tutto ciò che egli comprende deve passare attraverso il filtro dei suoi sensi, pur potenziati a livello di sensi spirituali, come è stato illustrato nel primo canto. Noi sappiamo che l'intelletto umano «solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d'intelletto degno» (vv. 41-42). Per formare il concetto astratto la mente umana ha bisogno di partire dalle immagini concrete offerte dagli oggetti empirici singolari. L'immagine è sempre l'inizio della conoscenza umana, in questa vita. Essa procede dal concreto all'astratto, dal sensibile all'intelligibile, per sensibilia et phantasmata. I versi 41-42 del canto traducono il celeberrimo teorema scolastico «nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu». Che l'esercizio della conoscenza sia una pratica che va dal sensibile all'intelligibile grazie a un termine medio, il cosiddetto 'phantasma' della immaginazione, è una concezione che sarà oggetto di infinite variazioni nel Medioevo. La troviamo in Avicenna, in Alberto Magno, in Bonaventura da Bagnoregio, in Sigieri di Brabante, Boezio di Dacia, e infine anche in Tommaso d'Aquino. Al contrario di quanto ancora si legge in molte chiose alla Commedia, quel teorema è un topos, un locus communis che circola trasversalmente alle scuole costituendo un elemento tra i più diffusi della koinè filosofico-linguistica della scolastica, al di là di ogni divisione tra platonici e aristotelici. L'immagine è il luogo in cui l'Invisibile si rende visibile allo sguardo del mistico lungo un percorso che solo una parola fratturata e balbuziente può registrare, e soltanto un canto di lode ricordare nel dominio di un immaginario sottratto alle misure del mondo sublunare. Quello che a noi ora interessa rilevare, comunque, è il fatto che nel IV canto Dante trae da questo presupposto epistemologico due conseguenze: la prima di carattere esegetico, rinviante al problema dell'allegoresi dei testi sacri; la seconda, strettamente connessa a questa prima, di carattere costruttivo, afferente alla struttura narrativa del 'sacrato poema'. Beatrice prosegue nella sua spiegazione: l'apparizione delle anime nei diversi cieli è un processo analogo a quello per cui le Sacre Scritture si adeguano alla capacità di comprensione della mente umana, anche della più 'grossa', attribuendo mani e piedi a Dio, per intendere altro da ciò che la lettera esprime. Aliud dicitur aliud demonstratur, come suona la formula classica con cui nel Medioevo si definiva l'allegoria. Anche le Scritture adottano immagini concrete, corpulente a volte, per innalzare l'intelletto umano alla conoscenza delle verità spirituali. Sant'Agostino ci ha insegnato, già nel De doctrina christiana, che si deve sempre ricorrere alla lettura allegorica dei testi sacri quando un cieco assenso al significato letterale del testo porterebbe a trarre conclusioni assurde sul piano della ragione e incompatibili con i dettami della fede. La lettera uccide, lo spirito vivifica. Dante quindi ci sta dicendo, attraverso Beatrice, che la struttura allegorica del Paradiso è fatta a immagine e somiglianza della Sacra Scrittura. Ma lo stesso criterio dev'essere esteso anche alla lettura di Platone, come afferma Beatrice in modo sorprendente a corollario della sua disquisizione. Quando nel Timeo egli scrive che dopo la morte le anime tornano alla loro stella d'origine, «forse sua sentenza è d'altra guisa / che la voce non suona, ed esser puote / con intenzione da non esser derisa» (vv. 55-57). La credenza di Platone non è del tutto fallace, e contiene un seme di verità. Si tratta solo di interpretarla in senso allegorico. Il 'ritorno' delle anime alle stelle non riguarderebbe il loro destino individuale, bensì quell'insieme di influenze astrali che contribuiscono a creare il 'profilo psicologico' del singolo, secondo una dottrina condivisa dallo stesso Alberto Magno. Platone non voleva affermare che le anime sono eterne e risiedono nei pianeti prima di incarnarsi, ma ha adottato una veste mitica per esprimere quella dottrina degli influssi celesti che era assai comune tra i pagani. Ecco quindi che il testo di Platone, le Sacre Scritture, e la Commedia vengono a costituire una costellazione di 'poemi' allegorici tali da configurare una sorta di patrimonio universale comune all'umanità pagana e cristiana. E questo è soltanto un suggerimento per studi che dovranno essere oggetto di ulteriori approfondimenti.

L'operazione dantesca riconosce importanti precedenti. Guglielmo di Conches, uno dei maestri della scuola di Chartres del XII secolo, aveva già studiato il problema dell'allegoria nei testi platonici elaborando le nozioni di involucrum e integumentum. In un passo delle sue Glosae al Timeo leggiamo: «se uno riesce a comprendere non solo le parole, ma il significato delle affermazioni di Platone, non soltanto non vi troverà dottrine eretiche, ma vi scoprirà una profondissima filosofia, nascosta sotto il velo delle parole (integumentis verborum tectam)». Al solito, non siamo sicuri del fatto che Dante abbia letto Guglielmo, ma quanto Beatrice afferma in questo canto corrisponde esattamente al senso delle tesi formulate dal grande platonico di Chartres. Nelle sue opere principali, Philosophia mundi e Dragmaticon philosophiae, egli torna spesso ad analizzare i possibili significati allegorici degli insegnamenti platonici espressi sotto il velame dei miti, così come sotto il velame 'delli versi strani' sono espressi i concetti della Commedia. Nella cultura classica, del resto, il mito ha avuto lo stesso ruolo che l'allegoria ha per i medievali. Ma un altro precedente su cui vorrei portare l'attenzione si ritrova in Pietro Abelardo, il dialettico del XII secolo che leggeva in Platone addirittura delle prefigurazioni del dogma trinitario avvolte nell'involucro del mito. Abelardo sosteneva che la filosofia evita di esporre i propri arcana in parole esplicite, nudis verbis, e si è sempre riservata il diritto di parlare per fabulosa involucra. A proposito del Timeo Abelardo sostenne che l'anima del mondo, intesa dai platonici come un'entità intermediaria tra intelligibile e sensibile, andasse interpretata allegoricamente e letta come una prefigurazione dello Spirito Santo. Come Guglielmo di Conches, anche Abelardo negava che la dottrina della preesistenza delle anime nel Timeo dovesse essere intesa alla lettera.
L'aspetto che emerge con forza nel IV canto, è l'idea per cui sia le Scritture sia i testi platonici, al di là delle distinzione tra allegoria dei poeti e dei teologi che veniva proposta nel Convivio, ci impegnano in una analogo sforzo di lettura allegorica, necessario per sfuggire alle insidie dell'eresia. Dante non teme di dichiarare espressamente per mezzo di Beatrice che le difficoltà presenti nel Timeo in relazione alla dottrina delle anime sono le medesime che incontreremmo in molti passi biblici, qualora volessimo prendere alla lettera le diffuse rappresentazioni antropomorfiche che gli agiografi hanno profuso nel descrivere la natura divina. Ma c'è un altro elemento da tenere in considerazione. Attraverso la risposta di Beatrice ai dubbi di Dante agens, Dante Auctor ci mette a conoscenza del fatto che l'architettura allegorica del Paradiso, dove le anime si presentano ripartite nei diversi cieli pur avendo la loro sede effettiva nell'Empireo, è un retaggio del Timeo. L'insieme dei dispositivi retorico - allegorici che mettono in relazione i gradi di beatitudine, i meriti delle singole anime, le loro caratteristiche psicologiche in vita, e le sfere celesti con le influenze che esse esercitano nel mondo sublunare, è quindi il risultato di una complessa costruzione filosofico - letteraria che trae origine proprio dalla grande opera cosmologica di Platone che tanta influenza ebbe sulla scuola di Chartres e che fa parte di un complesso dottrinale precedente l'ingresso di Aristotele nell'Occidente latino. Ecco quindi che la dissertazione dottrinale di Beatrice si risolve in un appello metanarrativo al lettore offrendogli una chiave di lettura e insistendo ancora una volta sulla necessità dell'allegoria.

Dopo questo grande tributo reso a Platone, Dante si volge ad Aristotele per rendergli omaggio nella risposta al secondo dubbio che lo tormentava al termine dell'incontro con Piccarda. La risposta alla seconda questione è fondata sui concetti filosofici sviluppati nel terzo libro dell'Ethica Nicomachea. La giustizia divina può essere difficilmente riconoscibile agli occhi dei mortali, del resto gli abissi della Mente Infinita sono insondabili anche per il più ardente dei serafini. Tuttavia, prosegue Beatrice, riguardo al problema del minor grado di beatitudine concesso alle anime che hanno ceduto alla violenza venendo meno ai voti, l'umano «accorgimento» può penetrare la verità. Si ha vera violenza soltanto quando chi la patisce non dà alcun contributo all'azione di chi la compie. Queste anime non possono ritenersi giustificate in nome di una violenza siffatta, perché in qualche modo assecondarono l'opera dei malvagi, non avendo il coraggio di tornare al chiostro da cui erano state rapite. La violenza è quindi un fatto esteriore che di per sé non tocca la volontà libera: la volontà può essere piegata solo quando è l'individuo stesso a permetterlo per mancanza di fermezza. In questo, Dante sottoscrive la convinzione di Aristotele dimostrandone la totale compatibilità con la dottrina cristiana del libero arbitrio. In maniera del tutto conseguente, Dante passa quindi in rassegna alcuni esempi di virtù scelti dalla tradizione dei martiri cristiani, come san Lorenzo, accostandoli ai grandi pagani tramandati da Livio, quali Muzio Scevola e Attilio Regolo. Piccarda Donati e Costanza d'Altavilla non ebbero invece un «volere intero», ed è per questo motivo che la giustizia divina le ha relegate nel cielo della luna «per manco di voto».
Come ha sottolineato Peter Dronke nella sua importante monografia sulle fonti latine del pensiero dantesco, esiste un legame stretto tra le due obiezioni discusse nel canto: entrambe riguardano il problema della libertà e del determinismo. Se il mito platonico del ritorno delle anime è funzionale alla discussione del problema a livello del macrocosmo, l'analisi di Aristotele intorno alla volontà umana sposta l'attenzione sul piano del microcosmo. Ecco ripresentarsi uniti «il nostro Platone» e «il mio Aristotele», secondo le formule che Boezio fissava nella Philosophiae Consolatio, realizzando un progetto concordistico che Dante ebbe modo di meditare lungo tutto il suo itinerario intellettuale.
Vi è un ultimo punto da segnalare, che riguarda la sezione conclusiva del canto. Per Dante «fede è sostanza di cose sperate / e argomento de le non parventi» (Par. XXIV vv. 34-65) così egli affermerà nel corso del suo esame sulle tre virtù teologali quando sarà al cospetto di San Pietro, nel cielo delle stelle fisse. Questa formula, come noto, è una palese traduzione di San Paolo (Lettera agli Ebrei 11, 1). Tuttavia ciò non vuol dire affatto che la fede sia coscienza pacificata, accettazione passiva del dogma, indottrinamento. Come tutto il Paradiso dimostra, e in particolare la chiusa del IV canto, la fede in Dante non è mai disgiunta dal dubbio, dal desiderio e dal continuo interrogare. La fede si alimenta dello stesso desiderio di conoscenza che è connaturato nell'uomo, come si legge nelle prime righe del Convivio in ripresa dell'ideale aristotelico, ma anche platonico. L'intelletto umano è insaziabile, e può trovare pace al tormento divorante che lo agita solo quando arriva a riposare nel seno di quella Luce al di fuori della quale non può darsi altra verità. Sotto i versi conclusivi del IV canto pulsa il ricordo di quell'inquietudine descritta da Sant'Agostino nelle Confessioni: «inquietum cor nostrum donec requiescat in te». Il canto si congeda dal lettore con una nuova domanda, a cui Beatrice darà risposta nel successivo. Dante chiede se l'uomo possa compensare dinanzi a Dio i voti non adempiuti commutandone l'oggetto con altre opere meritorie. Beatrice risponderà in maniera negativa: ciò che Dio apprezza maggiormente è il libero arbitrio di cui furono dotate tutte le creature intelligenti, angeli e uomini, all'atto della loro creazione. Se l'uomo ha rinunciato all'esercizio del suo libero arbitrio non c'è modo di compensarlo altrimenti, benché la Chiesa in materia di voti possa concedere delle dispense. Anche in questo continuo rilancio della domanda, che nasce da quell'autentico desiderio di conoscenza che fa dell'uomo l'essere creato 'a immagine e somiglianza' del Padre, si rintraccia un elemento platonico troppo spesso trascurato dalla critica. Ciò che fa della Commedia un'opera profondamente permeata dallo spirito platonico è il suo carattere di dialogo itinerante, che fonde insieme l'esigenza razionale e la dottrina teologica con una forza di sintesi che nella storia della poesia occidentale non conosce termini di paragone.



 

 

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