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  1.5 Dante e Petrarca si confrontano con Averroè

 
 


Il testo che segue è l'estratto di una relazione seminariale tenuta presso il Monastero del Corvo di Ameglia (SP) il 5 dicembre 2004, in occasione degli Stati Generali del Centro Lunigianese di Studi Danteschi per la preparazione delle celebrazioni dantesche del 2006




Il capitolo dei rapporti tra Dante e Averroè è uno dei più discussi e complessi che la dantistica di ogni tempo si sia trovata ad affrontare. Ibn - Rushd, conosciuto nel Medioevo latino col nome di Averroè, fu uno dei massimi intellettuali mediterranei del XII secolo (1126 - 1198). Vissuto nell'Andalusia degli Almohavidi, oltre che filosofo fu anche medico, astronomo, e giurista di grandissimo livello. Il problema del rapporto tra Dante e Averroè si complica ulteriormente se teniamo conto, più in generale, del legame esistente tra la filosofia del Sommo Poeta e le propaggini storiche dell'averroismo che prendono piede nella cultura europea a partire dalla seconda metà del XIII secolo. In particolare per quanto concerne la scuola dei cosiddetti "averroisti latini", i cui esponenti più noti furono Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia. Tuttavia, nel contesto di questa particolare occasione, lo scopo del mio intervento sarà quello di mettere in evidenza la grande distanza che separa Dante da Petrarca in merito alle rispettive valutazioni della figura di Averroè. Il Theologus e il Laureatus, come entrambi vengono rispettivamente identificati da Benozzo Gozzoli nelle didascalie del celebre ciclo di affreschi di Montefalco, si collocano su prospettive diametralmente opposte. All'apertura di Dante, che in ogni passo della sua opera esalta il filosofo arabo dimostrando altresì una completa padronanza dei principi dell'averroismo, fa riscontro l'atteggiamento di chiusura e di livore manifestato da Petrarca soprattutto in un'opera latina di carattere polemico in cui egli delinea la sua concezione dell'intellettuale umanista: il trattato Invective contra medicum.

Ma partiamo innanzi tutto da Dante, e da un esempio piuttosto noto. Nel IV canto dell'Inferno, Dante scende nel Limbo, il primo cerchio del regno di Lucifero. Qui incontra le anime dei non battezzati, che non poterono salvarsi in quanto vissero prima o fuori del cristianesimo, ma che per la nobiltà della loro condotta nel corso dell'esistenza terrena furono comunque esenti da peccati specifici. La loro pena consiste quindi nell'impossibilità di vedere Dio, nell'impossibilità di realizzare quel desiderio che è connaturato in ogni animale razionale. Il Limbo è il medesimo cerchio da cui proviene Virgilio, la dimora di coloro che son sospesi: una folla di spiriti costituita da bambini, donne, "gente di molto valore", statisti, eroi dell'antichità classica, e infine, in una condizione di tutto privilegio, poeti, filosofi e scienziati. Per questi ultimi Dante immagina una dimora a se stante, il nobile castello “sette volte cerchiato d'alte mura” al cui interno risiedono coloro che egli celebra come “spiriti magni”. Che tra costoro vi siano anche dei musulmani è cosa che non trova nessuna giustificazione dal punto di vista della teologia cristiana, come già ebbero a osservare i più antichi commentatori. Basti pensare alla figura del Saladino, già celebrato nel IV libro del Convivio come esempio di liberalità. Nella parte conclusiva del canto, dopo aver onorato “il maestro di color che sanno” insieme a Socrate e Platone, ai filosofi tragici (quei pensatori che ancor oggi vengono malamente definiti “presocratici”), e a poeti mitologici come Orfeo, Dante mette in risalto un gruppo di scienziati/filosofi nella terzina costituita dai vv. 142/144:

Euclide geometra e Tolomeo,
Ipocrate, Avicenna e Galieno,
Averois, che 'l gran comento feo.

Sono gli ultimi nobili ingegni ricordati nel IV canto, come al termine di un climax. Sei nomi disposti in un ordine di due più quattro: due matematici e quattro medici/filosofi, nel segno di una salda continuità ideale tra l'episteme greca e la scienza araba. Occorre anche notare che Ippocrate, il fondatore della medicina occidentale, autore del celebre giuramento in cui vengono fissati i principi deontologici cui deve ispirarsi chiunque eserciti la professione, è affiancato da Avicenna, quell'Ibn - Sina, autore del Canone che rimase il testo fondamentale di medicina in tutte le università europee fino, addirittura, al XVI secolo. La seconda coppia è costituita invece dall'erede di Ippocrate, ossia Galeno, vissuto nel II d.C., che a sua volta è affiancato da Averroè, il continuatore della medicina avicennista. La disposizione dei quattro segue una precisa regola analogica (proporzionale): anche dal punto di vista storico è indiscutibile che Ippocrate stia ad Avicenna come Galeno ad Averroè. Tutti parte integrante di un'unica grande cultura, filosofica nel senso ampio del termine, che sta al di qua di quella distinzione tra discipline umanistiche e scientifiche alla quale ancora oggi siamo abituati. E a questo proposito è necessario sottolineare che mentre oggi ci stupiremmo di incontrare riferimenti medici, anatomici o fisiologici, in un trattato di filosofia o di epistemologia, il sistema intellettuale del Medioevo è articolato in maniera tale che spesso è quasi impossibile distinguere tra il medico e il filosofo. Le due più grandi università di medicina del Medioevo, Montpellier e Salerno, furono anche grandi scuole filosofiche. La prima fu anche un importantissimo centro di traduzione di opere scientifiche e filosofiche. E nessuna delle due sarebbe sorta senza il contributo decisivo degli arabi. In questo senso la terzina del IV canto dell'Inferno testimonia, come sempre in Dante, la lucidità di una percezione esatta anche sotto il profilo strettamente storico. [...]

Se lasciamo le pagine dantesche e ci volgiamo al Petrarca troviamo un panorama completamente diverso: un atteggiamento di dura condanna nei confronti del "barbaro" Averroè, accusato non solo di aver corrotto il significato autentico delle dottrine aristoteliche, ma addirittura di non averne correttamente inteso neppure il senso letterale. Anche se siamo a poco più di vent'anni dalla morte di Dante, ci troviamo già in un contesto storico mutato. Ma ci troviamo anche nell'ambito di una visione unilateralmente umanistica del sapere che Dante non avrebbe mai condiviso. In un suo studio recente, Cesare Vasoli ha analizzato la polemica del Petrarca in rapporto alle istanze dell’umanesimo nascente. Vasoli ricorda che l'intento dei primi umanisti è quello di porre fine a una lunga età di corruzione e imbarbarimento della cultura per favorire una nuova nascita che restituisca al mondo degli uomini la sua perfezione originaria. Per far questo occorre tornare ai grandi exempla della classicità. I bersagli contro i quali si indirizzano gli strali del Petrarca sono i dialettici delle scuole (scoti e britanni) e soprattutto quei teologi che hanno dimenticato l'insegnamento degli Apostoli e dei Padri per accettare le dottrine dei moderni, prendendo il "maledetto" Averroè come loro unica guida (Cesare Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, p. 122 e sgg.). Ma il segnale di maggior distanza tra Dante e Petrarca, lo possiamo cogliere tenendo conto del fatto che il Laureatus indirizza contro la cultura medica alcune delle sue pagine polemiche più astiose, proprio in considerazione del legame molto stretto che esisteva ancora a quel tempo tra cultura medica e averroismo. Benché Petrarca sia personalmente amico di professionisti come ad es. Giovanni Dondi, Tommaso del Garbo, o Francesco da Siena, in una delle sue opere latine meno frequentate, le Invective in medicum (1352 - 53), lancia un attacco durissimo contro la medicina a lui contemporanea, rimproverando ai suoi adepti di non essersi mantenuti nei limiti propri di un'arte meccanica - perché tale era ancora considerata secondo la classificazione risalente a Ugo di San Vittore cui Petrarca si attiene -, ma di essersi proposti come portatori di una visione generale del mondo, trasformando la medicina in una forma di sapere totalizzante. Con la deprecabile conseguenza di confondere una disciplina subalterna, che ha come scopo la guarigione dei corpi, con la regina delle scienze, la filosofia, che ha come fine precipuo la guarigione delle anime. Secondo Petrarca questa degenerazione è dovuta in larga misura all'influsso nefasto di Averroè, materialista eretico che dev'essere respinto in quanto “nemico di Cristo”. In una tarda senile del 1373 all'agostiniano Luigi Marsili (XV, 6), Averroè viene descritto come “un cane rabbioso che agitato da un furore indicibile latra contro Cristo e contro la fede cattolica”, ricordando al destinatario: vera autem sapientia Christus est - dove è facile riconoscere il riferimento al Christus unus Magister di Bonaventura da Bagnoregio, particolarmente appropriato trattandosi di un'epistola indirizzata ad un agostiniano. Ma l'antitesi tra Cristo e Averroè, ricorre già in diversi passi delle Invective. Nel primo libro Petrarca stigmatizza il disprezzo della poesia, propria ed altrui, manifestato dal medico contro cui si volge la polemica, ed aggiunge: Cur autem indigner audere te aliquid adversum me, cum adversus Cristum, si impune licet, sis ausurus, cui Averroim, tacito licet iudicio, pretulisti? (Invectivae in medicum, Liber primus, ed. critica a cura di A. Bufano, Torino, Utet, p. 843). L'ottica all'interno della quale si muove Petrarca è quella di un autentico scontro di civiltà: Cristo contro Averroè, la tradizione latina occidentale di matrice agostiniana contro l'aristotelismo della cultura greco - araba. Da cui consegue il ripudio del sapere naturalistico e l'affermazione di un soggettivismo introspettivo fedele a una versione assai riduttiva del concetto agostiniano di verità in interiore homine. Occorre altresì osservare che la stessa battaglia di Tommaso d'Aquino contro Averroè non si colloca sul piano della contrapposizione tra fedi diverse. Tommaso si era opposto all'averroismo in quanto interpretazione razionalistica della filosofia di Aristotele destinata a entrare in conflitto con qualsiasi religione monoteistica, anzi, in conflitto con la stessa forma mentis della fede intesa come accettazione di principi ricevuti immediate a Deo per revelationem. In altri termini, Tommaso vede in Averroè l'interprete di un aristotelismo laico che si oppone alla fede cristiana non più di quanto si opponga all'ortodossia islamica. Il bersaglio polemico del tomismo non è nemmeno tanto quella dottrina che si è voluto in malo modo definire della “doppia verità”, quanto quel ghibellinismo laico e spregiudicato di cui l'imperatore Federico II è stato la massima incarnazione. Tutt'altra prospettiva, appunto, da quella del Petrarca, che in un altro passo delle Invective scrive: hunc [scilicet: Averroim] vos colitis, hunc amatis, hunc sectamini, non aliam ob causam nisi quia Christum, veritatem vivam, adversamini et odistis. […] At tu, miser, erroneus post idolum tuum confragosis anfractibus delectare, venturus ad finem impietati debitum, ad quem tuus venit Averrois. […] O infelix! Vilem tibi metam, dialecticam, statuisti, […] (Invective in medicum, cit. pp. 878 - 880). Petrarca conclude questa sezione ribadendo che la filosofia non ha nulla a che fare con la dialettica, arte del trivio subalterna e fuorviante coltivata da medici ciarlatani incapaci di guarire alcunché. E citando il Didascalicon di Ugo di San Vittore sentenzia che la filosofia correttamente (cioè cristianamente) intesa è cogitatio mortis. La forte matrice agostiniana che sta alla base del progetto umanistico del Laureatus sortisce così un effetto paradossale: un atteggiamento antiscientifico e retrivo che getta non poche ombre sul presunto scopritore della “coscienza moderna” – mi riferisco all’interpretazione del Petrarca esposta nell’omonimo saggio di Ugo Dotti. E se volgiamo l’attenzione a un altro testo polemico, intitolato De sui ipsius et multorum ignorantia (1367), il contrasto appare ancora più stridente. Al sapere naturalistico degli aristotelici viene contrapposto il soggettivismo introspettivo, accumulando rimandi ad Agostino alternati ad altrettanti rimbrotti verso i seguaci di Averroè. Dopo aver stigmatizzato gli errori più gravi imputabili ad Aristotele, ossia la dottrina dell’eternità del mondo e quella della “doppia verità”, Petrarca tesse le lodi di quelli che a suo parere vanno considerati come veri filosofi: Platone, Cicerone, Paolo e Agostino, coloro che hanno guidato l’umanità alla conoscenza della più sicura e più felice delle scienze, la fede. Inebriato da una sorta di furore mistico – umanistico, il Laureatus si spinge fino al punto di sostenere che essere aristotelici equivale ad essere anticristiani.


Voglio chiudere il mio intervento citando una nota di Ernst Cassirer tratta dalla sua celebre opera “Individuo e cosmo nella filosofia italiana del Rinascimento” (1935): “La ricerca petrarchesca non è, come l’averroistica, cosmologica, ma è orientata in senso puramente psicologico […] Si comprende da ciò come il Petrarca, nella sua lotta contro l’averroismo, ponga continuamente in rilievo la sua fede; come egli si possa sentire, in questo, cristiano e ortodosso, egli che difende l’ingenuità della fede contro le usurpazioni della ragione umana” (p. 206). Si comprende anche di segno sia la svolta rispetto alla prospettiva dantesca, capace di integrare cosmologia e interiorità in una concezione unitaria ma polifonica al tempo stesso.




 

 

 

 


 

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