LA SCELTA DEL TASSO
Tratto da "Il Metodo Reddiruale per la Valurazione delle Aziende" – Luigi Guatri Ed. EGEA 1996


Il presente capitolo, dedicato al tema dei tassi deve riprendere dalle argomentazioni già presentate con riguardo alla misurabilità del rischio; e quindi alla possibilità od impossibilità di tenerne conto nella scelta dei tassi. Come si è già detto, l’opinione prevalente, ma non esclusiva, a livello internazionale è che esistono possibilità di misurazione del rischio. In tal senso è tutta la dottrina anglosassone e gran parte di quella europea, tuttavia con la rilevante eccezione di alcune correnti della dottrina germanica. La pratica, che non attribuisce troppa importanza alla distinzione concettuale tra incertezza e rischio, non si pone quasi neppure il problema: essa è per la misura del rischio e la sua « traduzione » nei tassi.

Da tale decisione preliminare discende l’ovvia conseguenza che, se il rischio è giudicato misurabile, l’eventualità negativa che i flussi attesi non si producano, o si producano in entità diverse rispetto alle aspettative, si riflette sul tasso. Nel caso opposto, il tasso è scelto guardando agli investimenti « senza rischio »; e la variabilità si sconta nella misura attribuita ai redditi attesi.

È proprio su quest’ultima tesi che dobbiamo portare la nostra attenzione, per sgombrare il campo da possibili equivoci. L’idea di fondo è l’equivalenza teorica delle due formule:

W = Rce/r; W = R/(r+s)

in cui:

Rce è il « reddito certo equivalente »;
r è il tasso di capitalizzazione « senza rischio »;
s è la maggiorazione per il rischio.

Secondo l’impostazione in esame, la stima di s, cioè in sostanza la misura del rischio attraverso una serie di maggiorazioni portate ad r, sarebbe impraticabile: ciò in quanto le diverse «maggiorazioni» che lo esprimono sarebbero, se non pure invenzioni, così approssimative ed incerte da renderle inattendibili. Tanto varrebbe, allora, tradurre il reddito medio atteso, o meglio la fascia dei redditi attesi, in un valore certo: il « reddito certo equivalente » è una grandezza compresa nella fascia dei redditi attesi, per la quale i rischi di ottenere risultati superiori ad essa e le possibilità di ottenere risultati inferiori « si compensano perfettamente secondo le preferenze di rischio del soggetto interessato ».

Pur riconoscendo l’impossibilità di tradurre in poche note i complessi ragionamenti sulla pretesa preferibilità della via del « reddito certo equivalente », non vediamo in qual modo essa possa consentire di risolvere approssimazioni ed incertezze meglio di quanto possa la via delle « maggiorazioni » del tasso senza rischio. Si può al massimo e per brevità consentire che si abbiano gli stessi problemi, o problemi analoghi; con una sostanziale differenza, però: che sulla via delle maggiorazioni del tasso hanno da lungo tempo lavorato teorici e pratici in tutto il mondo, elaborando soluzioni ingegnose e sofisticate (dal CAPM in avanti) e soprattutto creando un’ampia base sperimentale.

La via dell’« equivalente certo» non ha analoghi attributi. Essa, almeno per ora, non ha perciò alcuna ragione per essere accolta; né — a mio parere — rappresenta un concreto progresso sulla via della migliore dimostrabilità dei metodi reddituali. Forse l’unico merito potrebbe ravvisarsi nell’esplicitazione delle incertezze che, in ogni modo, circondano questi calcoli.

Non si può peraltro disconoscere che uno stretto (anche se spesso non misurabile) collegamento esiste tra tasso e reddito atteso con riguardo all’aspetto del rischio. È intuitivo, ad esempio, che misure di reddito prudenziali e presso che certe (in quanto scelte in relazione a scenari ispirati al pessimismo) si collegano a tassi contenuti; e viceversa.

Del pari, misure di reddito puramente contabili e riduttive rispetto alle reali performance (escludenti, ad esempio, una favorevole dinamica dei beni immateriali, il formarsi di rilevanti plusvalenze su beni materiali, ecc.) consentono talvolta l’adozione di tassi particolarmente ridotti, che sarebbero inspiegabili in riferimento a misure di risultato economico integrato.

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Il tema della misura (per gli aspetti quantitativi) e della scelta (per gli aspetti soggettivi) dei tassi sarà affrontato solo in alcuni aspetti. Saranno cioè esaminati i concetti base, specie negli aspetti controversi o sui quali comunque non vi sono ancora opinioni definitive e di generale accettazione. Si rinvia ad altri testi per un esame compiuto della materia.

A titolo di premessa, va ricordato che spesso l’elemento soggettivo ricopre un peso non trascurabile nella definizione del tasso. Ciò nel senso, come meglio risulterà in seguito, che la componente obiettiva e dimostrabile soffre inevitabilmente di limitazioni, che si traducono nell’assunzione, con varie modalità, di convenzioni semplificatrici o basate sull’intuito, o comunque carenti di dimostrazione.

Talvolta queste limitazioni sono così pesanti e complesse, che gli operatori evitano semplicemente ogni dimostrazione, affidandosi a scelte imitative, con criteri di pura soggettività e senza nessun’analisi a supporto della decisione assunta. E appena il caso di sottolineare che questo non raro atteggiamento è irrazionale e va stigmatizzato; eppure esso è molto diffuso.

LA MISURA DEL TASSO:
La prima rilevante distinzione concettuale, con riguardo alla misura dei tassi, è tra i criteri del tasso-opportunità e del costo dei capitali.

Il primo criterio assume, com’è ben noto, che la misura del tasso debba essere ragguagliata al rendimento offerto da investimenti alternativi, a parità di rischio. Il criterio è caratterizzato dall’assunzione del punto di vista dell’investitore, il quale giudicherà conveniente un certo tasso di rendimento finché — a parità di rischi — non abbia la possibilità di trovare un investimento più redditizio.

Fondamentale caratteristica del criterio è dunque l’omogeneizzazione dei rendimenti rispetto al rischio. Il fatto, in altri termini, che si abbiano investimenti diversamente rischiosi esige che i differenziali di rischio siano misurati e tradotti in una corrispondente variazione di tasso.

Il criterio dei costo dei capitali ricerca invece un tasso corrispondente ai « costo » del capitale proprio, o al costo medio ponderato dei mezzi investiti in una specifica impresa (mezzi propri e mezzi attinenti ai credito). La specifica impresa è quella oggetto di valutazione; ma in talune circostanze può essere anche il soggetto che si propone di effettuare l’acquisto di quell’impresa (tale ultima ipotesi, oltre che applicata solo in particolari circostanze concrete, è anche contestata in dottrina).

Mentre sul piano logico il concetto preferibile è il tasso-opportunità, sul piano pratico esso presenta serie difficoltà di calcolo e di dimostrazione. Ciò fa sì che il criterio del costo dei capitali, che in modo più semplice può trovare riferimenti oggettivi ed elementi di dimostrazione nel mercato, gli sia talvolta preferito nella pratica di alcuni Paesi.

Sul tema corrono però, non di rado, preconcetti che vanno sfatati ed imprecisioni che debbono essere rettificate.

Il criterio del tasso-opportunità si presenta secondo tre possibili approcci, di diverso peso e di differente credibilità:

  1. l’approccio quantitativo;
  2. l’approccio qualitativo (omissis);
  3. l’approccio intuitivo o imitativo (sintetico-soggettivo).

Nella pratica americana, tali approcci si applicano al tasso di attualizzazione (i’, con la nostra simbologia), destinato a riportare al momento t0 della stima una serie di flussi incerti f1, f2, ... fn che si prevedono ottenibili ai momenti t1, t2, ... tn, della quale il valore capitale W0 rappresenta l’equivalente certo al momento.

Attraverso appropriati correttivi, dal tasso d’attualizzazione, si passa al tasso di capitalizzazione (i con la nostra simbologia): esso, com’è noto, va inteso come il divisore che, applicato alla grandezza espressiva di un flusso medio annuale atteso e perciò incerto, determina l’equivalente certo W0.

Nella pratica europea, viceversa, nella quale non sono usate formule per il collegamento automatico tra i’ ed i gli approcci suddetti si applicano anche direttamente ad i (oltre che ad i’): le divergenze tra i ed i’ essendo originate dalla differente ampiezza dei periodi futuri di riferimento e perciò dai differenti livelli di rischio considerati.

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L’approccio quantitativo esprime il tentativo, nel quale sia i teorici sia i pratici si sono più volte cimentati, di fornire una dimostrazione del modo come il tasso viene scelto: dimostrazione che si vorrebbe analitica ed oggettiva.

Tutti i tentativi condotti assumono universalmente, come punto di partenza, il principio che il tasso sia costituito da due componenti:

Questo principio si traduce nella nota espressione concettuale

i = r+s

in cui

r è la remunerazione finanziaria di investimenti «senza rischio», cioè legata solo al decorrere del tempo; s è la remunerazione per il rischio dell’investimento specifico.

Il calcolo di « r » (variabile da un Paese all’altro, oltre che variabile a breve termine) non presenta sostanziali difficoltà. Sul piano tecnico la scelta si orienta sempre verso investimenti a tasso fisso con soggetti sicuramente solvibili (l’esempio classico è quello dei titoli di Stato); e la preferenza va ai rendimenti di titoli a lungo termine, in quanto più omogenei rispetto agli investimenti nell’impresa (durata da 3 anni in avanti). In periodi di forte variabilità dei tassi di rendimento dei titoli pubblici la scelta di una media riferita ad un certo periodo (da 3 a 6 mesi) è spesso preferita ad una scelta puntuale (riferita cioè al momento della stima).

Sul piano metodologico, un problema rilevante è se il « tasso senza rischio » debba assumersi al netto od al lordo dell’inflazione. La risposta logica è che « debba contenere una misura d’inflazione corrispondente a quella contenuta nei flussi (di reddito o di cassa) che esso serve ad attualizzare. La coerenza ed omogeneità, sotto il profilo dell’inflazione, tra le due variabili impiegate nel calcolo è essenziale.

Le vere difficoltà s’incontrano nella determinazione’ della componente « s ». I tentativi di quantificazione di questa componente sono generalmente ispirati dall’idea di variabilità dei flussi attesi.

Una prima interpretazione concettuale parte dall’osservazione che il rischio è una sorta di qualità dei flussi attesi. Essa consisterebbe, appunto, nel vario grado di certezza o di credibilità dei flussi futuri quantitativamente espressi. Per cui, date due imprese A e B con redditi attesi eguali (e per ipotesi anche identicamente distribuiti nel tempo), il loro valore può essere sostanzialmente diverso se la loro qualità in termini di rischio è pure molto diversa. Se la probabilità che associamo ad A è del 90% e quella che associamo a B è del 70%, al reddito B si dovrà applicare un tasso sensibilmente più elevato (e proporzionale al coefficiente di probabilità), poiché la sua qualità è peggiore rispetto a quella del reddito di A.

L’idea della qualità del reddito è però solo un espediente espositivo (essa si contrappone dialetticamente alla quantità del reddito). Molto più preciso concettualmente, oltre che operativamente più significativo, è il richiamo alla variabilità del reddito atteso, o se vogliamo alla probabilità di scostamento in definite misure rispetto alle quantità attese.

L’approccio intuitivo o imitativo (detto anche sintetico-soggettivo) rappresenta una soluzione frequente, specie nella pratica meno esperta od accurata. Esso in sostanza non stima « s », bensì direttamente i (anche se « s » è ottenibile per differenza, sottraendo la componente « r ».

L’approccio si basa essenzialmente sulle conoscenze e sulla sensibilità di chi conduce la valutazione, cui compete, infatti, di identificare, tra le varie alternative d’investimento a valore noto, quelle giudicate equivalenti in termini di rischio. Se il loro rendimento è x%, questo sarà il tasso scelto. Ciò significa fondarsi concettualmente sulla convinzione che l’apprezzamento del rischio sia possibile solo sinteticamente, comparando nell’insieme la situazione specifica con altre, delle quali sono noti i prezzi e stimabili almeno approssimativamente rendimenti e rischi. La conduzione di tali raffronti e l’attribuzione di misure ai rischi degli investimenti alternativi avvengono peraltro in modo del tutto informale; nel senso che non si esige alcuna dimostrazione e non è quindi possibile nessun riscontro analitico delle decisioni assunte.

Il procedimento è perciò altamente soggettivo e necessariamente sintetico: e consente poco spazio alle spiegazioni, che comunque non vanno quasi mai di là dell’aspetto descrittivo. Non possono, insomma, contenere una vera dimostrazione della conclusione raggiunta, poiché l’equivalenza del rischio tra l’azienda da valutare e le alternative d’investimento considerate è affermata per intuito. Vale, in sostanza, più la credibilità di chi fa la scelta che non la dimostrazione, sempre sommaria e descrittiva, che egli può fornire.

Proprio perciò l’approccio si presta ad errori e abusi, come accade per tutto ciò che non deve essere dimostrato: qualsiasi scelta contenuta nei limiti delle esperienze note è infatti possibile. Ne derivano due pericoli:

Ciò nonostante, l’approccio sintetico-soggettivo riceve nella pratica non poche adesioni. Questo si deve alla circostanza che i metodi analitici esigono un impegno giudicato eccessivo rispetto ai risultati giudicati modesti; o richiedono un massa di informazioni non disponibili o inesistenti; oppure non ottengono una sufficiente credibilità.

Ad esempio, i tassi di capitalizzazione più frequentemente assunti negli ultimi anni nella esperienza di alcuni Paesi europei sono contenuti nei seguenti limiti:

— per l’industria, dal 6 al 10% (valori tipici: 7-8%);
— per il commercio, dall’8 al 15% (valori tipici: 10-12%);
— per la banca ed il parabancario, dal 6 all’8%;
— per le società immobiliari, dal 4% al 6%;
— per le assicurazioni, dal 5% al 7% e così via;

(nel mondo americano si fa invece riferimento a tassi alquanto più elevati, anche perché di solito non depurati dall’inflazione).

IL COSTO DEI CAPITALI
Come si è detto, il secondo rilevante criterio per la definizione e la misurazione del tasso è rappresentato dal « costo dei capitali ». Questa espressione viene a volte riferita ai capitali dell’azienda oggetto di valutazione; altre volte ai capitali dell’acquirente effettivo o potenziale di quell’azienda. I due punti di vista sono concettualmente molto lontani.

Il secondo, a ben vedere, non serve per valutazioni di capitale economico, ma per giudizi soggettivi di convenienza ad investire. Come accade, ad esempio, se un potenziale compratore attualizza i flussi derivabili da un’acquisizione in base al costo dei capitali che egli dovrebbe impiegare: ciò alfine di giudicare la convenienza dell’investimento ad un certo livello di prezzo ottenibile. Esaminiamo dapprima questo caso. In proposito va particolarmente sottolineato che esso, assumendo il costo del capitale afferente allo specifico acquirente-investitore, non collega in alcun modo il tasso ai rischi insiti nell’azienda oggetto di valutazione. Il valore dell’azienda perciò, almeno apparentemente, non dipende più, attraverso il tasso, dal rischio che la caratterizza.

Questa peculiare situazione trova una possibile attenuazione negli atteggiamenti prudenziali che possono essere assunti nella stima dei redditi attesi. Ma tali prudenze non possono annullare totalmente, sul piano logico, i dubbi sollevati dal totale svincolamento del tasso di attualizzazione e di capitalizzazione dai rischi che si accompagnano ai flussi attesi per il futuro.

L’altra possibile interpretazione del criterio del costo dei capitali investiti consiste nell’assumere non già il punto di vista del possibile acquirente, bensì della stessa azienda oggetto di valutazione. Il tasso di capitalizzazione diventa allora il costo atteso dei mezzi finanziari per tale azienda. Qui la discussione attiene a ciò che deve intendersi per « mezzi finanziari »: considerando congiuntamente e mediando il costo di capitali propri e dei debiti onerosi; o considerando solo i capitali propri?

La prima scelta ha senso quando oggetto diretto di valutazione, attraverso il processo di attualizzazione o di capitalizzazione dei flussi, non sia il capitale economico ma l’investimento complessivo; fronteggiato quest’ultimo sia dal capitale proprio sia dai debiti onerosi (tanto che per passare dal valore I al valore W, il primo deve essere depurato dai debiti finanziari). Ovviamente, se il flusso da attualizzare è al lordo degli interessi passivi, il tasso di attualizzazione è una media ponderata tra il costo del capitale proprio (i) ed il costo dei debiti (i); nella quale i « pesi » corrispondono alla entità del capitale proprio e dei debiti al momento della valutazione. In tal caso la logica che si applica nel calcolo e le formule nelle quali esso si traduce corrispondono a quelle adottate per il calcolo del WACC (Weighted Average Cost of Capita!).

Com’è noto la formula-base per la valutazione della componente s, con riguardo al costo del capitale proprio, è:

s = b (rm — r)

in cui:

r = tasso degli investimenti senza rischio;
rm è un indice espressivo del rendimento generale medio del mercato azionario;
b = è il coefficiente beta, che misura il rischio della specifica azienda, espresso dalla volatilità del suo rendimento rispetto a quello dell’intero mercato.

Il punto focale del metodo è il coefficiente beta, l’espressione tipica del CAPM. Il CAPM stabilisce che la «maggiorazione per il rischio azionario » vada moltiplicata per il beta di ogni specifica società, per misurare così i cosiddetti rischi « non diversificabili ». Questi ultimi possono essere definiti partendo dall’assunto che l’investimento in azioni di una qualsiasi società quotata genera due tipi di rischio. Un primo tipo legato all’andamento della stessa società (come si comporteranno i suoi prodotti: manterranno od accresceranno la quota di mercato? Saranno o non saranno remunerativi? Quali risultati deriveranno dalla ricerca in corso? e così via). Un secondo tipo di rischio è legato all’andamento generale dell’economia, che si ripercuote variamente sui settori e sulle singole aziende.

Il rischio del primo tipo può essere eliminato dai singoli investitori tramite la diversificazione del portafoglio; il secondo non può essere eliminato dalla diversificazione (ed è detto perciò rischio non diversflabile). Il coefficiente beta sarebbe, appunto, la misura del rischio non diversificabile, che quindi non è riflesso dalla maggiorazione (media) per il rischio azionario.

Valori di beta > 1 corrispondono, com’è ben noto, ad alti rischi per il titolo considerato, nel senso che esso eccede il rischio medio di mercato; valori di beta < 1 hanno ovviamente il significato opposto. Le 500 società americane comprese nell’indice Standard and Poor’s hanno nell’insieme, per definizione, beta = 1. Così come in qualsiasi mercato il campione di società rappresentativo assume beta = 1.

I valori dei coefficienti beta sono oggetto di continui calcoli e di pubblicazione da parte di Merchant Banks e altri operatori specializzati, con riferimento a numerose aziende quotate ed a settori di attività. In tal modo, anche se l’azienda oggetto di stima non è quotata, è possibile il riferimento ai « beta » di aziende similari. Nel nostro Paese quest’ultima è spesso la via seguita.