Il Naviglio pavese

A collegare Milano e Pavia con una via d’acqua, i milanesi ci pensavano già dal Duecento. E spesso nel più vasto sogno di arrivare dalla capitale lombarda al mare. Ci pensarono ancora i Visconti nel Trecento e poi gli Sforza che nel 1457 fecero scavare un canale a Binasco. Ma solo molto più tardi, sotto il governo spagnolo, si riuscì a progettare un vero e proprio canale fra Milano e Pavia.

Nel 1579, Giuseppe Meda era stato incaricato di studiare la costruzione del nuovo Naviglio. Si riteneva che l’opera fosse ormai urgente, specie dopo che il ricostruito Naviglio di Bereguardo cominciava ad assorbire quel traffico che prima percorreva la strada pavese.

Il progetto di Meda fu approvato dal re di Spagna nel 1598, e il costo dell’opera fu stimato in 76.500 scudi. Ma la morte prima di Filippo 11 e poi dello stesso Meda, sembrò rimandare sine die l’esecuzione del progetto.

A Milano però nel 1600 andò come governatore don Pedro Enriquez Acevedo conte di Fuentes, che il Cantù non esita a definire «borioso», ma che in realtà, accanto ai vizi, aveva molte qualità positive dei grandi del suo tempo e del suo paese. Prendendo a cuore il mandato affidatogli da Madrid, il nuovo governatore s’interessò sinceramente dei problemi del Milanese; e diede molta importanza al progetto interrotto della nuova via d’acqua. Tanto che, riottenuta l’approvazione dal nuovo re Filippo III, ordinò nel 1601 l’inizio dei lavori. Il progetto iniziale fu appena modificato da Alessandro Bisnati e Francesco Romussi, i due ingegneri cui fu data la direzione dell’opera.

I lavori andarono avanti per alcuni anni: ingrandita dapprima la Darsena di Porta Ticinese da cui il canale partiva, fu poi costruito il primo tronco che arrivava sino al Lambro meridionale.

A questo punto i costruttori e i funzionari addetti alla vigilanza delle acque invitarono il conte di Fuentes a una solenne inaugurazione e commissionarono allo scultore Giacomo da Novi un monumento celebrativo, che fu collocato sul ponte dove il Naviglio si stacca dalla Darsena. Quest’opera fu poi chiamata «il Trofeo» e resistette fino al 1865, anno in cui fu demolita. Ne rimasero i due bassorilievi e la lapide. L’iscrizione sul monumento diceva: «Philippo III Hispaniarum et Indiarum rege, Mediolani duce, regnante, D. Petrus Enriquez Azevedius, Fontium comes, provinciae Mediolanensis gubernator, Verbani et Larii huc deductas aquas irriquo navigabilique rivo Ticino ac Pado immiscuit, ubertatem et iucunditatem agrorum, artificum studia, publicas ac privatas opes accessu et commercio facili amplificando». Iscrizione che ci fa ben comprendere l’appellativo di «borioso» dato al conte di Fuentes dal Cantù, che senza dubbio riteneva il governatore ci avesse messo le mani.

Sembrava così agli interessati di continuare a stimolare l’attenzione del conte che solo fra tutti poteva trovare i fondi per proseguire i lavori, fondi che cominciavano a scarseggiare.
L’opera continuò, ma con varie difficoltà. Si lamentavano i pavesi che dal nuovo Naviglio si sentivano relegati a stazione di transito verso il porto di Milano; si opponevano in tribunale i proprietari dei terreni dove il nuovo canale sarebbe passato e sui quali il governatore spagnolo aveva stabilito una salata imposta. In tale situazione, la morte del conte di Fuentes, avvenuta nell’estate 1610, portò alla sospensione dei lavori.

Agli ingegneri che avevano diretto le opere il governo spagnolo ordinò di presentare una dettagliata relazione su quello che era stato fatto e il rendiconto della spesa. Risultò che, oltre al primo tronco fra Milano e il Lambro,

anche altri canali erano stati scavati verso Pavia. Si erano spesi 111.450 scudi, ma la Regia Camera aveva ancora 114.505 scudi per pagare i debiti contratti e portare il Naviglio fino a Pavia. Gli ingegneri ritenevano dunque che l’opera poteva continuare fino al suo compimento oppure, almeno per ora, fino alle porte della città di Pavia.

Non fu dello stesso avviso la Regia Camera che, intendendo soddisfare altri impegni, non poteva dedicare al Naviglio di Pavia la cifra che gli ingegneri avevano indicato. Così, con decreto del 28 agosto 1611, i lavori furono definitivamente sospesi. Si pagarono i debiti vendendo licenze sulle acque e i materiali di costruzione che giacevano nei magazzini lungo il percorso del nuovo Naviglio. I canali già scavati vennero destinati ad uso di irrigazione. Il popolo diede significativamente il nome di «Naviglio fallato» e di «Conca fallata» (denominazione quest’ultima tuttora esistente) al nuovo canale fra Milano e il Lambro e alla conca non ultimata. Abbandonare un’impresa arrivata a circa la metà del suo corso e dove si erano profusi energie, sudore e danaro, fu un tipico esempio di spreco di quella pessima amministrazione che la Spagna aveva impiantato in Lombardia.

Vari anni di silenzio pesarono sul Naviglio di Pavia; poi coloro che credevano nell’opera ricominciarono a sollecitare il governo perché fosse compiuta. Fra i primi Giovan Paolo Bisnati, figlio di Alessandro.

Nel 1637, i fautori dell’impresa ottennero l’istituzione di una Giunta governativa col compito di esaminare a fondo tutto il problema. Si effettuarono ispezioni, si scrissero rapporti, si sostennero infinite discussioni, poi tutto fu dimenticato.

Nel 1646, vari imprenditori riunitisi in società tentarono una nuova strada: domandarono al governo la proprietà provvisoria dei canali navigabili del Milanese con l’impegno di restituirli alla scadenza fissata arricchiti del Naviglio pavese. Il progetto di questa gente era vasto e intelligente perché, oltre alla costruzione definitiva del nuovo canale, prevedeva la situazione di tutti gli altri, visti come un complesso unico, ordinato e interdipendente. Il Magistrato delle acque sembrò favorevole a questo contratto; motivi militari e politici decisero però il governo spagnolo a bocciare la proposta.

Ancora nel Seicento tentò di realizzare il progetto l’ingegnere Andrea l3igatti. E più volte se ne interessarono il Magistrato delle acque, i governatori, gli stessi re di Spagna. Ma tutto si riduceva come al solito a esami, controlli e chiacchiere. Non toccava al governo spagnolo realizzare il Naviglio pavese.

Soltanto nel 1772 infatti, se ne comincia a parlare. Dopo che per decenni Milano e la Lombardia avevano risentito delle guerre fra le potenze europee, una volta tornata la pace, all’imperatrice Maria Teresa e al governatore, l’arciduca Ferdinando, premeva la ripresa economica del territorio lombardo. E in primo luogo si pensava di sistemare e potenziare la navigazione interna.

Particolare attenzione venne dunque rivolta al Naviglio di Paderno e al Naviglio di Pavia. Per quest’ultimo fu affidato al Frisi il compito di preparare un regolare progetto, avvalendosi dei piani tecnici già proposti dal Nosetti, che si stava interessando del Naviglio di Paderno.

In una lettera del 4 febbraio 1773, Maria Teresa scriveva all’arciduca Ferdinando che si erano prese «tutte le più esatte misure e livellazioni e descritta la qualità delle opere necessarie da un canto per la formazione di un canale navigabile da Milano a Pavia sino al Tesino e dall’altro per assicurare la navigazione dell’Adda da Lecco fino al Naviglio della Martesana che conduce a Milano». E nella stessa lettera, l’imperatrice d’Austria prosegue: «Quindi vogliamo e ordiniamo col presente nostro... che si debba formare il canale navigabile da

Milano a Pavia fino al Tesino e che si debba pure intraprendere quanto sarà necessario per rendere navigabile l’Adda da Lecco sino al Naviglio della Martesana» Era l’ordine ufficiale di costruzione dei due Navigli. Alla direzione di tutti i lavori, Maria Teresa destinava il Sopraintendente delle acque, strade e confini, Giuseppe Pecis, insieme al professor Paolo Frisi. Quest’ultimo aveva stimato la spesa, per il Naviglio di Pavia, in lire milanesi 2.646.000.

A Vienna, il ministro di Maria Teresa principe di Kaunitz esaminò con cura i progetti e i preventivi di spesa dei due Navigli che gli venivano da Milano. Sostenitore del nilancio della navigazione interna milanese e convinto della necessità di costruire i due canali, Kaunitz doveva però cedere a chi consigliava di dare la prionità ai lavori del Naviglio di Paderno.

Lo stesso atteggiamento dell’appaltatore Nosetti, più favorevole alle opere dell’Adda, la necessità che si fece strada ben presto di non mettere mano alle due opere contemporaneamente per questioni economiche; e altri motivi, non escluse le risentite lagnanze dei pavesi, tuttora convinti di rimanere relegati in secondo piano con la realizzazione della nuova opera, convinsero Vienna a rimandare per il momento la costruzione del Naviglio pavese. Come scrive il Bruschetti: «Perduto così quel momento propizio all’intrapresa del Canale di Pavia, il suo progetto in tutto il resto del passato secolo è sempre stato un puro voto dei popoli, un ardente desiderio delle persone dell’arte e nulla più; mentre il decreto di Maria Teresa per la sua esecuzione è stato sospeso e messo interamente da parte dal Governo di Milano fin da quel momento».

Il canale di Paderno, fu completato nel 1779. All’impresa del Naviglio di Pavia non si pensò subito dopo la sistemazione della navigazione sull’Adda. E gli anni passarono.

Ben altro rilievo doveva acquistare il progetto del Naviglio pavese, quando la Lombardia passò dagli Austriaci ai Francesi di Napoleone. Milano diventò dapprima capitale della Repubblica Cisalpina, poi della Repubblica Italiana e infine, seguendo l’evoluzione politica diretta da Napoleone, del Regno d’Italia. Il territorio intero conobbe allora un fervore d’iniziative e lavori, che il dinamismo di quegli anni imprimeva per sua natura a uomini e cose. Si era ben lontani dalla tranquilla e ordinata, e perciò non rapida, burocrazia austriaca; ma soprattutto dalla stagnante palude dell’amministrazione spagnola.

Si progettò una grande strada fra Italia e Francia attraverso il Sempione. Concepita dapprima come strada militare, essa estese ben presto le sue possibilità ai traffici e agli scambi in zone tradizionalmente attive e operose. I lavori della strada erano diretti da un ingegnere italiano, Carlo Gianella, che fu dopo Ingegnere Capo della Provincia di Milano.

Da questa nuova via di comunicazione al pensiero di collegare successivamente Milano col Ticino e col Po, il passo fu breve. Tornò subito alla ribalta il progetto del canale di Pavia: nel 1805 se ne ordinò la costruzione. Il decreto relativo, steso da Napoleone a Mantova il 20 giugno 1805, nella sua laconica essenzialità è tipico e di chi lo dettava e di quei tempi movimentati e fattivi. Dice l’Imperatore dei Francesi e Re d’Italia: «Abbiamo decretato e decretiamo quanto segue: «Il Canale da Milano a Pavia sarà reso navigabile. Mi sarà presentato il progetto avanti il primo ottobre ed i travagli saranno diretti in modo da essere terminati nello spazio di 8 anni. 20 Il nostro Ministro dell’interno è incaricato dell’esecuzione del presente decreto».

Fu nominata una commissione d’esperti: il professor Vincenzo Brunacci dell’Università di Pavia, e i due ingegneri dello stato Ferrante Giussani e Angelo Giudici.

Il progetto da questo preparato, che riprendeva in parte le idee del Frisi, fu terminato il 21 ottobre 1805. Il preventivo di spesa fu stabilito in lire milanesi 6.200.388. Dopo l’esame, favorevole, del governo italiano, il piano fu inviato nella primavera successiva a Parigi. Sottoposto qui al controllo del famoso scienziato Prony, il progetto fu definitivamente approvato nel giugno 1807.

Nominati alla direzione Brunacci, Giussani e Giudici, i lavori furono presto cominciati. Ma intervennero a ritardarli controversie fra i direttori che portarono dapprima a una modifica del progetto, di cui s’incaricò l’ingegner Carlo Parea, allora Ingegnere Capo del Dipartimento d’Olona; e dopo, allo allontanamento del Brunacci, che si era reso colpevole anche di abuso di autorità, ordinando nuove opere senza la superiore approvazione. Successivamente, nel 1809, anche il Giudici si dimise dall’impresa; il suo posto fu preso dall’ingegner Carlo Parea.

I lavori poi procedettero speditamente ed era speranza comune di realizzarli nei tempi previsti. Ma gli avvenimenti politici del 1813, la caduta di Napoleone e il ritorno degli Austriaci in Lombardia, portarono nuovi ritardi alla travagliatissima, è il caso di dirlo, costruzione del canale. E interessante notare però che, a parte una interruzione vera e propria dei lavori nel 1815, essi non vennero del tutto fermati dal nuovo governo, ormai deciso a realizzare un’opera che si era portata così avanti.

Verso l’inizio del 1817, la costruzione riprese quella speditezza che era ormai indispensabile per compierla. Vienna ora insisteva con Parea, rimasto alla direzione, di veder terminato il canale per la fine del 1818. La nuova via d’acqua fu pronta a metà del 1819: l’arciduca Ranieri, Vicerè del Lombardo-Veneto, la inaugurò solennemente il 16 agosto 1819.

La navigazione sul canale era già cominciata prima di quel giorno, anche se ovviamente limitata ai tronchi già aperti; dalla Darsena di Porta Ticinese all’incontro col Lambretto nel 1809, sino a Moirago nel 1810 e a Binasco nel 1811. Nel 1814 i servizi regolari di barche arrivavano già a Torre del Mangano, sette chilometri prima di Pavia.

Anche sul Naviglio pavese navigarono barche caratteristiche. Il magano innanzitutto, o barca pavese, presente anche sul Ticino e sul Po, lunga 26 metri e larga 5,60 metri, che portava un massimo di 100 tonnellate. Il burchiello o saranno, simile al burchiello dell’Adda ma di maggiori dimensioni e con prora e poppa più basse sull’acqua; lungo 24 metri, largo 5, portava 55 tonnellate di merci; era pure presente sul Ticino, sul Po fino a Piacenza, sul Naviglio Grande. E infine il Corriere Pavese, molto simile ai battelli della laguna veneta, la cui caratteristica era un «casotto» centrale, una specie di grossa tuga, che serviva a riparare le merci dalle intempenie.

Le merci che risalivano il Naviglio pavese erano costituite per lo più da legnami da ardere, sabbia, laterizi, legnami da costruzione, grano. Lo scendevano invece carbone, calce, concimi, beole, granito.

L’attività del Naviglio pavese non ebbe soste nel secolo XVIII e continuò ancora nel XIX, possiamo dire, fino a qualche anno fa. Negli ultimi tempi, anche se il grosso delle merci arrivato alla Darsena di Porta Ticinese proveniva dal Naviglio Grande, il Naviglio di Pavia vi portava ancora la sua parte.


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