Massimo Viola

I CROCINI E I SARMONI


"Vuole un vino veramente eccezionale? Un vino da favola?"
Mi punta addosso uno sguardo complice, poi volta le spalle e si dirige verso la cantina. Pochi istanti dopo stringe tra le mani una bottiglia scura e polverosa - negligentemente polverosa, secondo me - verso cui sforzo invano la vista per decifrare l’etichetta, nella luce fioca. - Vin du Monat - dice - il più grande del mondo, e mi regala un sorriso ampio; gonfio d’orgoglio e già del tutto consapevole che non lo comprerò, visto il prezzo da infarto. Neppure mi lascia il tempo di dare un’occhiata più precisa o di maneggiare la bottiglia come vorrei, mentre si gode la cupida curiosità che ho negli occhi e richiude la porta verde con due rapidi giri di chiave.
Tornati in superficie, mi addita il Wine Spectator, che ha definito il Monat ‘88 migliore vino del secolo, e mi lascia, tra scaffali di vini ben allineati, che adesso mi attirano come potrebbe attirarmi una bottiglia d’acqua minerale.

Mi sono ricordato del Monat e del vinaiolo che me l’aveva mostrato, durante le lunghe vacanze di Natale, bloccato in città a bighellonare senza meta per le vetrine e i caffè. Nella lussuriosa gastronomia di Piazza Duomo, al vertice di una piramide di cibi, come se fosse lì a comandarli, a metterli in riga, troneggiava una austera bottiglia, col cartellino del prezzo sotto, in bella evidenza. Nessun dubbio: mi trovo nuovamente al cospetto del vino che aveva strabiliato il Wine Spectator.
Il signore di fianco, che perlustra come me la vetrina, col naso rosso per il freddo, quando si imbatte nella targhetta del prezzo, non riesce a trattenere la sorpresa e si volta con uno sguardo perplesso, e anche divertito: “E’ impossibile, c’è un errore”. E io gli spiego, benevolo: “E’ il miglior vino del mondo, è giusto che costi tanto!”
La regione di Monat è compresa tra la costa atlantica meridionale e il corso dei due fiumi Bellieu e Douceau, i quali, intersecandosi e correndo poi verso l’oceano, fanno di quella regione una sorta di isola, sospesa nel cuore della dolce Francia. Dice l’enciclopedia che è tutto un susseguirsi di soleggiate colline, che vanno al mare, e, si può dire, ci si perdono dentro; nel cui seno si rimpiattano minimi villaggi di case dai mattoni gialli, come gialla è la terra dove si coltiva la vite e gli alberi da frutto, in tenimenti definiti dai padri dei padri attorno a caseaux (cioè piccole fattorie autosufficienti) che nei mattini dell’autunno sorgono, coi loro svettanti comignoli, dal molle strato di nebbia a fior di terra. Vi si produce, secondo l’enciclopedia, un vino celebratissimo.

Fu dopo il Natale che mia moglie penetrò decisa dentro lo studio, nell’ora che sa di poter più agevolmente passare sopra a ogni mia resistenza. E mentre io sono ancora lì a metterla a fuoco da dietro le mie lenti spesse, e una punta di sospetto già mi si infila dentro il colletto, come stanno per fare le sue dita gelide - e mi vengono i brividi, appunto - mi chiede con apparente noncuranza se non mi sembra il caso, finalmente, di concretizzare la cena con i Crocini e i Sarmoni, dopo tanti mesi e mesi che se ne parla. A quel punto, le dita fuoriescono dal colletto, dopo avermi ghiacciato il collo a dovere, e io so già per certo che la partita è irrimediabilmente persa.

I Crocini e i Sarmoni non sono veri amici miei, e neanche di mia moglie, a voler vedere. Mia moglie è schietta e sta volentieri con le persone semplici: in genere, ci troviamo d’accordo sulla gente che ci piace frequentare. Ma i Crocini e i Sarmoni sono un riconosciuto punto di riferimento della vita sociale cittadina e ospitarli a cena (pardon, Signora Crocini, a pranzo, non mi crocifigga, la prego, con quello sguardo compassionevole) è l’amaro (e caro) prezzo da pagare per soddisfare la propria brama di mondanità.
Ora mia moglie che è schietta e semplice e, a volte, anche adorabile, lo fa per noi, per me e i nostri figli, cioè, di sobbarcarsi una cena con quei signori là; e quei signori là, i Crocini e i Sarmoni, coniugi con allegata prole, lo fanno per lei, che un pò è loro parente, alla lontana, di sopportare, per tutta la sterminata durata di una cena (pardon: pranzo, Sig.ra Sarmona), la mia grossolana presenza. Ma io, sotto gli sguardi ai raggi x delle signore Crocisarmoni, mi sento come un nudo verme sotto la lente di un distinto studioso, e non sapendo poi come contrastare la presuntuosa sentenziosa verbosità dei loro mariti sarmocrocini, mi ritiro nel mio scontroso silenzio, nel mio guscio, dice mia moglie, e va a finire che ci litigo. Lo sento, che ci litigo.

Si farà per venerdì 30, è fissato. Sabato no, sabato non si può: i Crocini e i Sarmoni, che si muovono sempre di concerto come le chele di un nobile astice, li avevano già tutti impegnati, i sabati, da qui all’eternità. Ma venerdì va benissimo; anzi, è più chic.
Mia moglie comincia le raccomandazioni con due settimane di anticipo, come sanno fare le mogli quando vogliono assomigliare alle loro suocere. Mi raccomando, mi dice con quel sorriso che a volte le viene così incantevole, cerchiamo di fare bella figura. Parla al plurale, bontà sua.

Mi aggiro con discrezione dalle parti di Piazza Duomo. Passata l’ondata natalizia, l’inaccessibile Monat si è ritirato, presumo, in un tranquillo rifugio dietro le lucide piastrelle del banco, dove regna, sovrana dispensatrice di delizie incartocciate, la figura rotonda e placida della commessa, con le maniche rimboccate e il cerchietto ai capelli. La vetrina schiera adesso soltanto comuni bottiglie, assediate da espressionistiche giardiniere. Per un paio di volte descrivo un inconcludente semicerchio davanti alla drogheria e mi allontano poi a rimuginare sulla cena incombente dei Crocini e Sarmoni.
La terza volta entro, mi pianto a muso duro davanti al banco. Ma al mio turno di dire le cose, la voce mi si spezza a metà, e devo ricominciare daccapo. Intanto, dietro il banco, la morbida dispensiera ha già mandato a cercare per le chiavi, e io mi sento addosso gli occhi del mondo, mentre guardo i polpastrelli unti che afferrano indifferenti la bottiglia dalla bacheca e l’accantonano, intanto che dalla cantina arrivi il garzone con la cassettina in legno.
Compilo l’assegno sotto gli occhi silenziosi della cassiera, e esco col mio sacchetto, pesante come piombo.

Il Monat ha un’etichetta giallognola, su cui il nome e la denominazione di Premier Grand Cru sono incisi a caratteri severi. Solo una piccola foglia di vite, riprodotta con tenuissime sfumature di verde, ricorda la generosa natura della terra da cui proviene. E anticipa, prima che si possa goderne il profumo e il colore, la ricchezza del vino.

“E’ pronto il vino?” chiede mia moglie, mentre con lo sguardo dirige tutte le mosse della Conchita, indaffarata come mai a stegamare tra la cucina e la sala. “Certo che è pronto”. Ho già provveduto a sturare la bottiglia e scaraffare fino all’ultima goccia dentro la brocca di cristallo che mi ha venduto il vinaiolo, a cui mai e poi mai, però, avrei osato confessare che ero diventato anch’io felice possessore di un Monat.
Vin du Monat!,, annuncio solenne sulla soglia, con la brocca in una mano e la bottiglia vuota nell’altra. Vorrei anche compiere un giro dei commensali a far ammirare la bottiglia; ma mi trattengo, non mi sembra di aver raccolto un interesse sufficiente.
Il Sarmone marito afferra la bottiglia e si porta gli occhiali sulla punta del naso: “E’ francese questo?” Il Crocini tracanna subito mezzo bicchiere, poi gonfia le gote come un rospo, e strizza gli occhi e, dopo aver ingoiato, se ne sta mezzo minuto a fissare il vuoto. “Per buono e buono, ma a me questi vini invecchiati...”
Sarmoni a ruota: “ I vini francesi per me sono troppo duri, non li digerisco”, e rivolto alla moglie gliene versa un sorso e ammonisce paterno di stare attenta, è alcolico questo.

Il muschio e le fragoline selvatiche del Wine Spectator non riesco a sentircele. Forse ci vorrebbe un calice a tulipano, alto mezzo metro come quelli che ti danno nei ristoranti. Sento un misto di profumi indecifrabili che si levano dal bicchiere, a piccole onde. Mi ricordano certi pomeriggi assolati dell’infanzia, in campagna, col sole che dalle persiane picchia sul pavimento di legno e sulle pareti.
Anche mia moglie se n’è accorta, e sfodera uno dei suoi più bei sorrisi: “Che profumo, Massimo, che vino è questo?”
“ Vin du Monat. Il miglior vino del secolo.”

Esagiarum mia, cioè: Non esageriamo.” E’ il Crocini: sta guardando in faccia il Sarmoni, come a dire: Tu che ne pensi della sparata di questo giovanotto? Il Sarmoni tuffa il naso nel bicchiere. Ne pensa che al mondo non ci sono vini pari al suo Montagostino. E il Crocini lì che si esalta, si rianima tutto; e si, il Montagostino, che vino quello, un vino delle nostre colline, un vino sano, vin d’ca nossa, cioe: di casa nostra. “Altro che questi francesi, non sono mica vini per noi...” . Questo però lo dice Sarmoni.

- Ma lo sapete voi quanto costa questa bottiglia?
Il Sarmoni prende a beccheggiare sulla seggiola con tutti i suoi chili. - “Oh, fa, capace che hai speso anche centomila lire.”
-” Cosa?, fa la Sarmona”, centomila lire per una bottiglia di vino?”
E il Crocini, didattico, rotolando sulle ci e sulle esse: “Ma è un vino francese...” .
Mi allungo sullo schienale, porto la mano agli occhiali e sparo la verità: “Costa tre milioni”. Non so come mai, ma mentre lo dico strizzo un occhio negli occhi sempre così attenti di mia moglie.
Su Sarmoni, su Crocini, sulle signore Sarmoni e Crocini, sulle loro mani bianche composte a bordo tavola e anche sui loro figli, che sono all’altro tavolo con la Conchita, scende il gelo.
Solo mia moglie sorride: “ Via, non vedete che scherza? Stasera è così, ha voglia di scherzare. Figurarsi se spende tutti quei soldi per una bottiglia di vino”; E ride. Io annuisco.
I volti in sala si ravvivano. Il Crocini, soprattutto: “ Bé, già centomila è tanto! Sì, lo so che ci sono bottiglie che costano milioni, ma via sono vini rari...  nettare degli dei...” . E vuota il bicchiere tutto contento.
La Sarmoni  femmina  artiglia  la  mano a mia moglie, con aria di confidenza: “ Elena, vi vanno bene, eh, gli affari”.

Il Vin du Monat è lì. Ne è rimasto poco più di un dito, sul fondo della caraffa panciuta. Come un rubino, manda i riflessi vermigli, che ha ereditato dalle bacche nere delle uve cresciute sulle colline del suo paese.


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