Gaetano Ciuppa

IL MARSALA DI NELSON


Lettera di Casimiro Schepis a Giuseppe Re, suo amico.

Palermo, 2 Marzo 1798 

Perdonatemi, caro amico, se non vi ho ancora scritto da quando sono giunto a Palermo, l’unico luogo da cui io potessi aver l’opportunità di farlo. E sebbene il cattivo lume per poco non mi ha offeso la vista, ho voluto egualmente riferirvi su questo mio disgraziatissimo viaggio i cui accadimenti sono stati così copiosi che, al posto di una lettera avrei certamente potuto scrivervi un volume. Tutto ha avuto inizio un mese addietro quando, nella qualità di contabile di primo rango e di fiducia, ho ricevuto nella mia casa la visita del signor John Woodhouse. Si tratta di un mercante di Liverpool, gran conoscitore di vini spagnoli e portoghesi, stabilitosi da qualche tempo dalle mie parti che, come voi ben sapete, è terra d’antica civiltà vinicola. Il signor Woodhouse mi onorò dell’importante officio di recarmi a Palermo per consegnare direttamente nelle mani dell’ammiraglio inglese Horatio Nelson, un cedolone commerciale, nonché una cassetta contenente sei bottiglie di un vino liquoroso, detto per l’appunto “Marsala” che egli ha iniziato a produrre da qualche tempo nel baglio di una vecchia tonnara. L’occasione d’intraprendere un siffatto viaggio per la felicissima Palermo, il venire ricevuto da un ammiraglio da tutti considerato come un eroe del nostro tempo, oltre al compenso di trentacinque onze, aggiunte d’altre dodici per spese di locanda e di carrozza, mi riempì l’animo di gioia. Ma come ben sapete, mio caro amico, non v’è felicità perfetta in questo mondo se pure s’affaccia qualche buon astro, esso non porta con sé annesso che un groppo d’amarezze. La notizia della mia prossima partenza giunse, manco a dirlo, alle orecchie della zia Genoveffa. Questo era già un primo segno di sciagura e foriero d’altri disgraziatissimi avvenimenti. La vecchia zia, infatti, non si limitò a tormentarmi per diversi giorni con le sue solite paure, (ella vedea difatti ad ogni passo agguati di briganti che m’attendevano alla macchia, pericoli nel guatare torrenti grossi o nel transitare su ponti rotti, del freddo, del fango e di mill’altre avversità) ma fece molto di più e di peggio. Insistette affinché mi facessi accompagnare nel mio viaggio da Amilcare Valguarnera. Si trattava di un mio cugino alla lontana, che non vedevo da un paio d’anni, ma che sapevo trascinare da qualche tempo un andazzo di vita oziosa, noiosa e senza la benché minima soddisfazione. L’insistenza della zia Genoveffa fu così petulante che al fine stufo e arcistufo accettai. Avete mai visto cadere sulle spalle di un povero uomo così tante disgrazie? Vi faccio tale domanda, amico mio, per conoscere se dopo gli avvenimenti che vi starò per narrare, avrete la forza più di ridere o di piangere. Nel tanto atteso giorno della partenza, Amilcare si presentò agghindato come un damerino di corte, impettito come un tacchino e con una quantità inverosimile di bagagli, bauli, ceste e fagotti. Egli mi disse subito che, per evitare le noie del trasbordo dei bagagli ad ogni stazione di posta, aveva pensato di prendere a nolo una carrozza. Trattavasi di uno sgangherato calesso scoperto (sebbene ci trovassimo in pieno inverno) condotto da un tale dal portamento asinesco, la parlata da furbo ed i modi di fare quantomeno di un ladro. Quella canaglia ebbe per giunta la dabbenaggine d’attaccare al calesso una pariglia di cavalli non domati i quali, dopo poche leghe, diventarono tanto irrequieti e ingovernabili che finirono per rotolare nella polvere tirando calci così furiosi da far temere seriamente per le nostre ossa ed i nostri bauli. Saltammo fuori dal legno e, se si eccettua per lo spavento, non soffrimmo alcun male, sebbene quei poveri cavalli rimanessero tutti pesti e sanguinanti e poco mancò che finissero strangolati dai finimenti. Tuttavia un’amara sorpresa doveva attendermi: nell’urto ben due bottiglie del pregiato Marsala erano andate in frantumi. Potete comprendere, caro amico, come a quella vista sentii il mio cuore come trafitto da una spada. Giunti come i Santi vollero alla stazione di posta sulla strada per Salemi, mio cugino Amilcare, pensò di farmi cosa gradita d’invitare in calesso con noi l’abate Baldone, alla cui vista ebbi un moto di raccapriccio. Il perché è presto detto: tale abate era massimamente noto per le sue lunghissime e terribili prediche. Egli, preso posto nel calesso, non perse un attimo di tempo nell’infrascarmi le orecchie (giacché Amilcare s’era posto beatamente a dormire) con una violenta reprimenda sulla rilassatezza dei costumi, appuntandosi in particolar modo sui pericoli del vino.
“Esso fa da sprone ai misfatti sentenziò, “al turbamento della testa, alla tempesta della lingua, al naufragio della castità, alla volontaria pazzia, al vergognoso languore, alle turpitudini dei costumi ed alla corruzione dell’anima” concluse alzando minacciosamente il dito. Devo confessarti, caro amico, che sebbene avessi una velenosa risposta pronta sulle mie labbra, ebbi cura di non proferire parola, poiché se l’abate Baldone avesse saputo del vero motivo del viaggio,
nonché del Marsala che trasportavo nel bagaglio, gli sarebbe venuto per lo meno il morbo sudatario.. Fatto il nostro bravo ingresso a Salemi, città dove la magnificenza delle strade e dei palazzi la rendono ragguardevole, e preso congedo con gran sollievo dall’abate Baldone, avrei voluto recarmi dritto dritto alla locanda dell’Angelo. Disgraziatamente mio cugino Amilcare fu subito del partito opposto. Secondo il suo alto pensiero, infatti, la locanda di Dentecane avrebbe certamente fatto di più al caso nostro e con gran risparmio per la mia borsa, cosa non del tutto trascurabile dal momento che Amilcare aveva avuto la sfrontatezza di partire carico di bagagli ma senza in tasca il becco d’un tarì. Voi, amico caro, saprete certamente che molti sono i locandieri degni di lode quando aprono le porte ai forestieri bisognosi di ristoro. Tuttavia proprio quella locanda si mostrò come un luogo della peggior specie dove ci fu riservato un trattamento da veri e propri impiccati. All’interno e presso l’uscio, due musici girovaghi con violino e trombetta intrattenevano i convitati, mentre una sciatta cantante di strada, vistosamente incinta, intonava una ballata sconcia. La cena ci fu servita su di un tavolaccio zoppo e ricoperto d’una tovaglia unta, l’arrosto proveniva da qualche sventurato cane, l’osso del prosciutto risultò rancido e la frutta colta dall’albero il mese innanzi. Il tutto innaffiato da un vino acconciato con acqua a bella posta. Come se ciò non bastasse, mi toccò udire lo schiamazzo degli altri avventori fatto d’orrende bestemmie e di liti furibonde, di subire gli sguardi sfacciati di donne volgari e le domande da ruffiano del locandiere che io ormai consideravo alla stregua d’un miserabile assassino. Un servo dalle maniere selvatiche e villane ci accompagnò infine al nostro alloggio: un tugurio mezzo smantellato, con il letto freddo e duro come il marmo, le lenzuola sudice e le coperte rappezzate. Mi addormentai maledicendo Amilcare e rimpiangendo la locanda dell’Angelo dove la volta precedente ero stato accarezzato con buona tavola, buona servitù, buon letto ed infinite cortesie dall’oste, da sua moglie e dalle loro figlie. Alla punta del giorno successivo lasciammo quell’orrida locanda, non senza prima di aver pagato un conto tale da scorticarmi la pelle di dosso. Malgrado ciò Amilcare, non contento d’avermi fatto patire già abbastanza per i suoi dannati consigli, iniziò a tormentarmi per quelle cinque onze del conto che a suo dire si sarebbero potute risparmiare. Continuò così a ciaramellare, fin tanto che la mia pazienza traboccò e, afferratolo per il bavero, lo minacciai che se non la smetteva di parlare, gli avrei rotto il mio bastone sulla testa senza alcun’esitazione. Fui certamente convincente, se per tutto il resto del viaggio e fino al nostro arrivo a Calatafimi, Amilcare non proferì più alcuna parola. In quella cittade trovammo posto alla locanda dei Tre Re, luogo ben conosciuto dagli amici del fiasco e del boccale per i molteplici vini prelibati che si mescevano. La locanda, infatti, si mostrò ai nostri occhi come una meravigliosa cantina occupata quasi per intero da maestose botti di rovere, botticelle e barilotti, panciute damigiane, tini e tinozze, bigonce, barili, e centinaia e centinaia di bottiglie, che ricoperte di polveri e ragnatele facevano bella mostra su mensole e scaffali. Colà si potevano trovare tutti i più rinomati vini, anche se noi quella sera bevemmo un rosso di Salaparuta dal gusto forte, al tempo stesso delicato e certamente degno della tavola di un re. Mastro Liborio, il panciuto padrone della locanda, dopo averci dato il benvenuto, si diresse nella vicina cucina dove riprese ad avvolgersi nel profumo degli arrosti, a dilettarsi allo stridore delle padelle e delle scodelle, arrostendo, friggendo, e girando di tanto in tanto un grosso spiedo del tutto incurante del fumo agli occhi e del fuoco alle dita. Ingannai l’attesa della cena intavolando una dotta conversazione con due onesti monaci di passaggio, circa i conigli e le lepri di Favarotta, le salsicce e i capicolli di S. Ninfa, i lardi e le trippe d’Alcamo, i carciofi di Cerda nonché le triglie e i polpi di Mazara e di S. Vito. Per transitare poi sulle varie specie di minestre, di brodi e di potaggi dai più diversi sapori. Quando infine Maestro Liborio portò in tavola una sfilza di meravigliose vivande, ci buttammo a capofitto su di esse come all’assalto del nemico e con uno strepito di mascelle e di stoviglie pari al fracasso di una terribile battaglia. Non so dire se la causa fu l’abbondante cibo o il bere in strabocchevole maniera, ma fu cosa certa che , stesomi nel letto, cominciai ben presto a dar nelle smanie e ad aver le visioni e il sudore freddo. Le budella mi si torcevano, il ventre ululava come un lupo inferocito, ed il mio povero corpo iniziò ad essere squassato da una furia come se tutti i diavoli dell’inferno si fossero accampati lì dentro. Fu una notte di tregenda, ed il mio passeggiar per la stanza fu accompagnato dal soffiar del vento, dallo scrosciare violento della pioggia, e da tutto uno sbatter di finestre, un cigolar di cardini, uno sprangar di porte ed un serrar di catenacci, mentre quel disgraziato d’Amilcare dormiva russando come può russare un orco dopo aver divorato una dozzina di bambini. Il mattino dopo il dolore mi affliggeva ancora in maniera tale che spaventò Amilcare, che allarmò mastro Liborio e che fece accorrere nella mia stanza i due reverendissimi monaci, gli altri ospiti della locanda e tutto il vicinato. Una robusta dose di sciroppo di cardomomo propinatomi dallo speziale del posto compì il miracolo, ed in capo a qualche ora ritornai nelle forze per riprendere il viaggio, anche se la notizia che Amilcare aveva donato allo speziale una delle bottiglie di Marsala, mi gettò nel più nero sconforto. In vista di Partinico uno dei cerchi del nostro calesse s’allentò e fummo costretti a restar fermi due ore alla stazione di posta per la riparazione. Il ritardo produsse molto disturbo irritazione e fatica, ma certamente non per Amilcare, il quale pensò bene d’accompagnarsi per tutto il tempo ad una signorina da prezzo, lasciandomi nelle grinfie di un lenone al quale dovetti scucire senza fiatare, la somma di ben due onze e tredici tarì per evitare l’incommodo di dover menare le mani. Ma il colpo mortale alla mia borsa Amilcare lo sferrò quando, arrivati a Carini insistette molto affinché la serata terminasse con una buona partita a dadi. Finimmo alla bisca di “pezza lorda”, luogo malfamato quanto mai, dove non si facevano domande se non con i coltelli, non si rispondeva se non con i pugni, e non si discuteva se non a colpi di sedia e di paloscio. Non appena entrati, infatti, fummo assaliti da un tumulto di voci sgarbate, dal fumo pesante delle pipe e da una zaffata d’aria puzzolente. In quel lurido stanzone, dove tutti erano intenti a contar monete, vincere, perdere, litigare e barare, c’era tanta gente in piedi o seduta che a stento ci si poteva muovere. Fui sul punto di svignarmela bellamente, lasciando quel testone d’Amilcare finalmente al suo destino, allorquando un uomo volgare e che puzzava orribilmente sbucò alle nostre spalle. Egli ci spinse senza complimenti verso il fondo della stanza dove parecchi giocatori dalle facce sinistre si stringevano in fitto cerchio attorno ad un tavolaccio. Ci costrinsero a forza a giocare a dadi contro un tale dagli occhi loschi ed il naso rincagnato che, tra un tiro e l’altro, s’attaccava al collo di una bottiglia tracannando rumorosamente grandi sorsate di vino, pulendosi poi la bocca dai denti neri e marci, con i lembi di un elegante parrucca che sfoggiava e che doveva appartenere a qualche sprovveduto gentiluomo caduto tra le sue grinfie. Inutile dirvi, caro amico Giuseppe, che fummo spennati come polli ed in maniera tale che, finiti tutti i denari disponibili, fui costretto a dare in pagamento al locandiere, affinché ci lasciasse partire, la mia parrucca da viaggio (giacché quella d’Amilcare non risultò di suo gusto) con la dolorosa aggiunta di una bottiglia del prezioso Marsala. Come se ciò non bastasse, lungo le dieci leghe che ci separavano ancora da Palermo, la pioggia prese a cadere così fittamente e la strada divenne talmente fangosa, che i cavalli non potevano andare più avanti sebbene il calessiere frustasse quei poveri animali con la massima crudeltà. Amilcare ed io fummo costretti a scendere dal calesso per rimanere in piedi sotto la pioggia e nel fango fino alle caviglie. A questo punto potete ben immaginare la mia spedizione, caro amico! Io tutto chiuso nel mio pesantissimo pastrano col bastone in mano al buio ed in un luogo dove non si vedeva un’anima e non si sentiva un suono: tutto era muto, lugubre e spaventoso ed io oppresso da funesti pensieri, rimpiangevo la sventura di non aver con me la mia pistola con la quale non avrei esitato un’istante a bucare da banda a banda chiunque avesse cercato d’alleggerirmi di borsa, bagaglio e bottiglie. Per colmo di disdetta Amilcare con l’unica lanterna che avevamo, prese a camminare tanto speditamente che spesso lo perdevo di vista. In quei momenti non potevo fare altro che chiamarlo con quanta voce avessi in gola e trafiggerlo con orribili minacce, dato che non avevo altro mezzo per tenere in soggezione quella canaglia di mio cugino. Era quasi mezzanotte quando finalmente entrammo a Palermo, infilandoci nella prima locanda che trovammo, infangati fino ai capelli e in uno stato a dir poco miserando. La padrona era un donnone grossolano del quale non saprei dire se erano più sudici e unti i suoi capelli o il suo grembiule. Ma poco importava, desideroso com’ero d’un giusto riposo, dal momento che erano quasi due giorni che non mi toglievo i vestiti di dosso. Avevo anche fondate speranze di poter mettere qualcosa sotto i denti, ma poiché dopo due ore non si trovò neanche un pollo a cui tirare il collo, mi dovetti rassegnare ad andare a letto senza cena. Il giorno appresso mi recai a richiedere udienza all’ammiraglio Nelson ma, al mio ritorno, m’accorsi con sgomento che mancava una bottiglia. Sceso di corsa al piano basso, deciso a chiedere spiegazioni all’ostessa, vi trovai invece la giovane domestica (che avevo visto la sera prima ramazzare tra le sedie e i tavolacci della sala) ed Amilcare così ubriachi del Marsala destinato all’ammiraglio, che non sapevano più né quel che dicevano né quel che facevano. Dovrei a questo punto darvi un ragguaglio sugli avvenimenti successivi ed attraverso quali vie ho dovuto transitare per potermi finalmente liberare una volta per tutte dell’incomodo cugino.
Ma ormai sarete certamente spossato per la lettura di questa epistola e perciò la concluderò senz’altri complimenti.

  sempre vostro

       Casimiro Schepis

 

P.S. Ho appena ricevuto notizia che domattina sarò ricevuto in udienza dall’ammiraglio Nelson: mi presenterò con l’ultima bottiglia di Marsala rimasta e che il cielo me la mandi buona!

 

A Lord G. Keith

Comandante della flotta nel Mediterraneo.

 

 

Palermo, 20 Marzo 1798

 

Nei giorni scorsi ho ricevuto tale Casimiro Schepis, incaricato del sig. John Woodhouse. Egli mi ha consegnato una bottiglia di Marsala prodotto dallo stesso Woodhouse, ed un cedolone commerciale relativo alla fornitura di cinquecento botti di detto vino da consegnare alle nostre navi a Malta, al prezzo di uno scellino e cinque pence al gallone. E siccome il signor Woodhouse scrive d’essere pronto ad assumersi tutti i rischi, a pagare il trasporto, eccetera, non credo che si tratti di un cattivo affare. Del resto il vino è così buono che è degno della mensa di qualsiasi gentiluomo, e sarà una vera manna per i nostri marinai.

 

Horatio Nelson

Barone di Bronte

 

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