Amando si ingrassa?


Quando il Di Capua, nel vivo della riunione, si rizzò in piedi e in un batter d’occhio piantò in asso niente meno che l’allibito Vice Direttore Generale, nessuno poteva immaginare che dietro ci fosse una donna.
Non lo sapevano, ma se l’avessero saputo, forse una sottile invidia avrebbe almeno un po’ guastato il piacere, con cui già pregustavano il tonfo del collega: la donna in questione era un’americana ventenne e ricca a sfare, pallida e lentigginosa e naturalmente d’iride azzurro. Aveva chiamato dall’aeroporto di Linate e ora aspettava seduta su una valigia sterminata, il mento ben piantato nei pugni. Fino a quel momento, si erano frequentati non più di mezz’ora, su un traballante volo da Dallas a New York, tre mesi prima, ma era bastato.
Partirono in taxi per una ignota località su uno dei nostri romantici laghi e pochi giorni dopo erano nuovamente a bordo di un volo per Berlino e da lì poi per Vienna per Budapest e infine per Praga, in una disordinata girandola nel cuore della più appartata e musicale Europa.
Ma a Praga ebbero un contrattempo. Chissà come, il maldestro Di Capua si lasciò coinvolgere in una rissa da bar. Fu trattenuto dai poliziotti, scambiato per una spia e arrestato.
Emily dovette frettolosamente rimpatriare, mentre Di Capua veniva trattenuto dalla rude, ma convinta, ospitalità della polizia praghese. Si mossero le autorità italiane, ma ci vollero cinque anni per tirarlo fuori.
Il Di Capua che riaffiorò finalmente alla luce dopo quel cupo carcere era un uomo magro e triste, e distratto come sempre. Ma era comunque atteso in patria dalla sua sbigottita famiglia, oltreché da uno stuolo di giornalisti curiosi.
Stupì ancora una volta tutti: senza neanche scrollarsi di dosso l’umido delle umide pareti del carcere, balzò sul primo aereo per Londra. Due giorni dopo era a New York, inseguito dai giornalisti, non dai familiari.
Non aveva più saputo nulla di Emily. Eppure impiegò poche ore per arrivare a suonare il campanello di casa sua. Lo aveva guidato l’istinto: aveva nella testa l’immagine di quella donna e la seguiva come la stella polare.
Fin troppo facile prevedere come nell’Emily donna e madre di famiglia quel giovanile fugace amore fosse ormai svanito. Ci furono, sì, lacrime ed abbracci, ma cosa si poteva realisticamente pretendere di più?
Se gli antichi colleghi avessero potuto vedere la derelitta immagine del Di Capua staccarsi riluttante dalla porta della casa di Emily, avrebbero finalmente goduto appieno il piacere del tonfo. Ma anche loro, oramai, lo avevano dimenticato.
Al Di Capua non restava che prendere la via di casa (sua), dove almeno i giornalisti lo aspettavano a braccia aperte. Invece, si ritirò su una panchina al Central Park e su un bloc-notes che aveva comprato insieme a un paio di pastelli, si diede a disegnare il volto di Emily. Vivacchiò per qualche anno strascicandosi in uno stato semirandagio per i caffè del Greenwich Village, dove vendeva per due soldi ritratti e caricature, frutto di una vena artistica che non aveva mai sognato di possedere.
Non ci crederete, ma alla fine arrivò ad avere uno studio in pieno SoHo, vezzeggiato dal jet set newyorchese per i suoi ritratti spietati. I potenti, si sa, adorano essere trattati male per finta.
Gli amici del tempo lo descrivono magro e taciturno, gentile ma triste, dedito soltanto al lavoro. E ai ritratti di una donna che nessuno conosce, e che non si è mai vista, si sa solo che è stata un suo grande amore: la ritrae con la precisione di un entomologo, ha riempito un corridoio con le immagini esatte del suo volto, che inesorabilmente invecchia nei giorni. Un volto che gli basta chiudere gli occhi per avere davanti, ogni giorno diverso, esatto e tondo come se fosse vero.
Impossibile pensare che questa strana storia non venga infine alle orecchie di Emily, che ora ha due vispi marmocchi e due fianchi rotondi. Ma ha lo sguardo azzurro di sempre, vispo come i suoi bimbi.
Le raccontano di un pittore di SoHo che si ostina a dipingere la donna amata in gioventù e mai più rivista. La ritrae – le dicono - come se davvero l’avesse davanti, oggi con una luce soltanto di un soffio più spenta di ieri.
E un pomeriggio uguale a tanti, Emily si decide e compare nello studio. Posso solo immaginare la sua emozione e le sue lacrime, al vedere l’interminabile galleria di disegni riprodurre con un ritmo da vertigine la trasformazione del suo volto.
Da allora si perdono le tracce dei due. Li ha ritrovati una giornalista, l’anno scorso, in una sterminata prateria del Minnesota. Hanno un bizzarro ristorante sulla punta di un lago. Di Capua sta ai fornelli, inventa manicaretti e supera senza fatica i cento chili, le bretelle tese sul pancione. Con uno sguardo lieve ti dice che da quando ha ritrovato Emily ha perso per incanto la capacità di tenere in mano il pennello. Ed Emily ride e ti fa vedere le foto dei suoi quattro figli.

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