Gabriel e Slobodan Già da tempo Gabriel aveva capito che c’era una cosa più pericolosa del non pensare: il pensare secondo concetti altrui. Lui e la sua gente avevano commesso quell’errore e le conseguenze furono devastanti. Quando qualcuno, per scopi molto più complessi di quelli che lasciavano apparire, iniziò ad urlare dai microfoni e dai giornali che le persone che abitavano oltre un ponte o in una certa valle erano dei nemici, Gabriel e molti come lui diedero ascolto a quelle urla, dimenticandosi che quei “nemici” erano i lori vicini da quando esisteva il ponte, o da quando andavano a cacciare in quella valle. Per infiammare maggiormente gli animi altri personaggi, nascosti nell’ombra, armarono bande di delinquenti comuni per le prime pulizie etniche. In breve tempo la paura si impossessò di tutti e il vicino venne visto come un pericolo. Era la guerra; la peggiore possibile: quella civile.
Katja, la moglie di Gabriel, morì sotto il primo bombardamento; il giorno dopo averla sepolta egli si arruolò. Era il 1991: lo stato della Jugoslavia aveva cessato di esistere ed era da allora che non vedeva Slobodan. Ogni tanto, durante le sere in caserma o nelle pause dei combattimenti pensava a lui: se fosse ancora vivo, se era ancora nella regione o se invece fosse fuggito più a sud.
Slobodan aveva la sua stessa età; erano cresciuti insieme sulle sponde del lago vicino al villaggio. Nei boschi che coprono quelle colline andavano a caccia di scoiattoli e conigli selvatici. Non era un semplice amico ed era qualcosa in più di un fratello. Avevano lo stesso modo di pensare, di reagire, gioire e soffrire; insomma, avevano lo stesso modo di vivere. Da bambini non era passato un giorno senza che si fossero visti, anche solo per un’ora. Si ritrovavano spesso su di un vecchio pontile d’attracco giù al lago, rimanevano li fino a tarda notte a parlare, ridere e, perché no, a volte anche a litigare. Era su quel pontile che avevano fumato le loro prime sigarette, dopo averle rubate ai rispettivi padri; e sempre li si erano ubriacati, entrambi per la prima volta, dopo aver trovato una bottiglia di grappa nascosta in un fienile. A quel ricordo Gabriel sorrideva ancora, pensando a come erano ridotti quando ritornarono a casa aggrappandosi l’un l’altro e a quante ne avevano prese dai genitori quella sera stessa mentre ancora la stanza girava tutt’intorno. La loro era quel genere di amicizia nella quale non esistono segreti. Slobodan fu il primo a cui Gabriel rivelò di essere innamorato di Katja.. Gabriel fu invece il primo a sapere che Slobodan aveva deciso di abbandonare la scuola tecnica per iscriversi al conservatorio ed imparare a suonare veramente bene il violino che fino ad allora diceva di avere solo strimpellato Il suo amico, in realtà, quello strumento non lo strimpellava solamente: aveva veramente un grande talento; iniziò a suonarlo per gioco quando aveva tre anni, dopo che un venditore ambulante gliene aveva regalato uno; da allora non aveva più smesso. Era andato a lezione da un vecchio del villaggio e in breve tempo era diventato famoso; le coppie che si sposavano facevano a gara per averlo al loro matrimonio e ben presto la sua fama oltrepassò i confini della valle. Un giorno arrivò da Belgrado un tizio solo per ascoltarlo. Il tizio era il rettore del conservatorio e si era offerto di ospitarlo in casa sua purché si iscrivesse a quell’istituto. Slobodan non sapeva che fare, amava con tutta la sua anima la musica ma non se la sentiva di abbandonare una scuola che gli stava insegnando un mestiere sicuro per intraprendere una carriera così piena di incertezze come può essere quella del musicista. Parlò quindi di queste paure al suo migliore amico. Gabriel, non senza difficoltà, lo convinse ad accettare l’offerta del tizio di Belgrado. Nello stesso istante in cui lo convinceva qualcosa morì dentro di lui, sapeva che da allora si sarebbero visti molto meno e temeva che per questo la loro amicizia ne avrebbe sofferto. Il giorno della partenza non sapevano, per la prima volta in vita loro, cosa dirsi. Si salutarono in silenzio sul pontile. Slobodan se ne andò verso la stazione e Gabriel rimase li fino a notte.
Dopo le prime quattro settimane di lezione Slobodan tornò da Belgrado e Gabriel lo attese giù al lago. Doveva dargli un regalo. Si era indebitato con l’usuraio dell’altra valle per acquistare un violino nuovo di zecca. Sul retro aveva fatto applicare una targhetta in argento con incise queste parole:
“A S., da G. Perché i veri amici lo sono per sempre.”
Era questa l’amicizia che legava i due ragazzi, un’amicizia che durava da vent’anni e che finì quando qualcuno stabilì che non potevano più essere amici, perché Gabriel era cristiano e croato mentre Slobodan era serbo, musulmano e la sua famiglia viveva oltre uno di quei fottuti ponti.
Erano passati due anni dall’inizio del conflitto. In quel tempo Gabriel aveva fatto carriera nell’esercito, guadagnandosi la fama di cecchino infallibile, una capacità acquisita andando a caccia con l’amico fin da quando erano bambini. I suoi compagni lo chiamavano Nemesi: la sua mira era talmente micidiale che sembrava appunto un vero castigo divino. Dopo un duro addestramento ed un altrettanto dura pratica, aveva imparato a rimanere per ore immobile su una roccia o sul tetto di una casa diroccata fino a quando l’obiettivo entrava nel suo mirino. Allora lasciava partire un solo colpo. Non sprecava tempo a verificare che il bersaglio colpito fosse realmente morto, non ne aveva alcun dubbio; si metteva subito a strisciare all’indietro per poi, una volta al coperto, alzarsi di scatto e fuggire verso il punto di recupero. Era bravo e, nell’inesperienza dei suoi vent’anni, ne andava fiero.
Dopo mesi passati sulla linea che separava i due eserciti gli fu affidata una missione di collegamento. Era in realtà una sorta di premio per l’ennesimo successo conseguito: missione di collegamento significava che doveva portare un ufficiale ad un altro reparto che era stanziato, guarda caso, vicino al suo villaggio; insomma, era quasi in licenza. Lui e l’ufficiale lasciarono il gruppo di cecchini una mattina di giugno. Partirono di buon ora con un fuoristrada requisito tempo prima ad un civile. C’era un bel sole caldo e un leggero vento faceva frusciare le cime degli alberi. Gabriel era alla guida e decise di viaggiare con tutta calma lungo gli stretti versanti che scendevano verso la valle. La zona in cui stavano passando era stata risparmiata dal grosso dei bombardamenti e la maggior parte delle case e delle fattorie che superavano erano ancora intatte. Una volta raggiunto il fondo della valle la strada iniziò a serpeggiare fra numerosi prati delimitati da muretti a secco; se non ci fosse stata la guerra quei prati sarebbero stati pieni di grano e mais ma in quel periodo i contadini avevano abbandonato la zona e il terreno, incolto, era stato colonizzato dalle piante che crescevano spontanee nella zona; qua e la spuntavano esili i fusti di querce, faggi e robinie che pian piano si stavano riprendendo il loro habitat. Una volpe attraversò di corsa la strada al passaggio dell’auto ma Gabriel, per godersi quei luoghi, stava andando talmente piano che, per evitarla, non dovette neanche frenare. L’animale si fermò sul limitare del bosco che lambiva l’asfalto e si mise a guardare il passaggio della jeep con curiosità.
- Dio - disse l’ufficiale – questo è il paradiso - E io e te cosa ci facciamo qui, allora? – pensò Gabriel ma preferì tenere per se i suoi pensieri.
Arrivarono al luogo di destinazione che era quasi sera. L’ufficiale si fermò al locale di comando e Gabriel ottenne il permesso di lasciare il campo per fare un giro nei dintorni. Il suo villaggio era proprio oltre la collina ma sapeva che là non ci sarebbe stato nessuno ad attenderlo.
Decise allora di scendere al lago. Avvicinandosi iniziò però a crescere dentro di lui un timore. Aveva paura della reazione che avrebbe avuto quando si sarebbe trovato di fronte ai luoghi della sua vita passata. Temeva di trovarli distrutti dalle bombe ma temeva ancora di più di trovarli intatti: troppe cose, in questo caso, gli sarebbero state evocate, cose che gli avrebbero mostrato crudelmente la differenza fra il Gabriel di due anni prima e il Gabriel di adesso. Inconsciamente sapeva che il ricordo di ciò che era stato gli avrebbe rivelato senza più maschere ciò che era diventato: nient’altro che un assassino. Questa sua paura cresceva man mano che avanzava e quando arrivò alla curva che impediva di vedere dalla strada il lago sottostante valutò seriamente la possibilità di tornare sui suoi passi. Indugiò un istante per decidere il da farsi; tirò un profondo respiro, si fece coraggio e proseguì. Ma quando svoltò l’angolo si sentì a casa. Era ancora tutto come l’aveva lasciato due anni prima. Il “suo” lago era ancora li, come un dolce cane paziente o come un vecchio maestro che attende il ritorno dell’allievo un po’ troppo irrequieto. Gli si allargava di fronte come a volerlo accogliere in un abbraccio. C’era una calma che toglieva il fiato, gli unici rumori presenti erano il verso di alcune anatre in lontananza, il gracidare delle rane e il fruscio delle canne mosse dal vento. L’acqua a quell’ora si colorava di un tenue grigio, sfumando nell’oro dove il sole indugiava all’orizzonte. Le montagne, sulla destra, osservavano maestose quel piccolo mondo e tenui nubi rosa veleggiavano sopra di loro.
Il pontile era ancora intatto e si stagliava sopra l’acqua, ai piedi della collina. Gli si avvicinò e iniziò poi a gironzolare lungo le sponde. Dopo circa un quarto d’ora risalì sulla collina e si fermò a mezza costa, per osservare il paesaggio dall’alto. Si sedette con le spalle appoggiate ad un masso e si accese una sigaretta. La sua mente vagava e di fronte ai suoi occhi apparivano, ora vivide ora sfuocate, le immagini di un passato talmente lontano che sembrava non essere il suo: rivedeva lo sguardo di Katja quando lui le chiese di sposarlo e la faccia di Slobodan quando aprì la custodia che conteneva il violino. Purtroppo, il tenore dei suoi ricordi mutava con la luce li intorno; il buio avanzava e, di pari passo con esso, avanzavano nella sua mente ricordi meno remoti ma estremamente meno piacevoli; la violenza, la morte e il dolore che aveva visto negli ultimi mesi gli riempirono la testa. Ebbe paura e obbligò la sua mente a smettere di pensare. Decise di andarsene, subito.
Spense la sigaretta e fece per alzarsi per tornare dai suoi compagni quando ad un tratto sentì un rumore che sovrastava il fruscio del vento fra le canne: era il ronzio di un motore lontano che però si spense quasi subito. Allarmato rimase immobile e si mise a perlustrare con lo sguardo i dintorni. Ad un tratto lo vide: era un ufficiale serbo che si stava avvicinando all’acqua, dopo essere spuntato dal bosco. Dallo zaino che portava capì che doveva essere un esploratore. La distanza e l’oscurità crescente non permettevano a Gabriel di distinguerlo con chiarezza ma riusciva comunque a seguirne tutti i movimenti grazie alla posizione sopraelevata in cui si trovava. Il ragazzo si alzò in silenzio senza staccare gli occhi dalla figura che si muoveva a circa cinquanta metri da lui. Sapeva che non poteva essere visto, nascosto com’era dall’erba alta e dalle ombre sempre più fitte della sera. Decise di agire in fretta, senza tentare di avvicinarsi di più perché tra poco non ci sarebbe stata più luce sufficiente per prendere la mira. Come ogni cecchino portava sempre con se il suo fucile personale, migliore delle armi in dotazione ai soldati comuni. L’erba era troppo alta per permettergli di prendere la mira distendendosi a terra; quindi si alzò, decidendo di distendersi sopra il masso contro il quale si era appoggiato prima.. Strisciò con cautela contro la parete di roccia per aggirarla senza distogliere lo sguardo dal suo obiettivo. L’ufficiale serbo, nel frattempo si era avvicinato ancora di più all’acqua del lago.
Gabriel si arrampicò in silenzio sul masso e vi si distese sopra. Tolse la sicura e cercò nel mirino il suo bersaglio. Nel frattempo questo era arrivato alla sponda e, probabilmente per darsi una rinfrescata, si stava sfilando il grosso zaino per appoggiarlo a terra. Nella prospettiva schiacciata resa dal teleobiettivo la schiena del soldato riempiva l’intero quadrante; fece collimare il centro del mirino con la nuca dell’uomo e trattenne il fiato per ottenere una perfetta immobilità. Proprio mentre lasciava partire il colpo uno sparo echeggiò alla sua destra. Una fitta nuvola di pietrisco gli arrivò in faccia, dopo che un proiettile si conficcò nella roccia a mezzo metro dal suo volto. Sbilanciato dalla sorpresa sussultò nel momento in cui stava tirando il grilletto; il suo proiettile passò a non meno di due metri dalla testa del bersaglio. Rotolò istintivamente su se stesso e scivolò nell’erba ai piedi del masso sul quale se ne stava appollaiato
A sparargli era stato un altro serbo che era spuntato dal bosco vicino a Gabriel e lo aveva scorto mentre stava mirando all’ufficiale.
Gabriel si rese conto di aver agito come un pivello. Nella fretta di sparare non aveva considerato il fatto che potessero esserci degli altri soldati nemici nelle vicinanze, magari proprio in copertura dell’ufficiale. Oltretutto si era scelta una posizione estremamente scoperta, completamente esposta su tutti i fianchi.
- Idiota, sono un idiota – pensò il ragazzo appoggiando il fucile di precisione nell’erba ed estraendo dalla fondina la sua 9 mm., più efficace in quel tipo di sparatoria.
Nel frattempo il soldato a bordo dell’acqua si era buttato a terra, cercando di capire cosa stesse succedendo. Strisciò verso lo zaino che aveva lasciato vicino al pontile per tentare di recuperarlo e togliersi poi da quella posizione. Gabriel si accorse della sua manovra ed esplose un paio di colpi verso di lui, senza però riuscire a colpirlo.
- Venga via tenente! – urlò il soldato che era spuntato dal bosco. – C’è un cecchino, venga via! Il tenente serbo decise allora di abbandonare lo zaino al suo destino e si mise a correre, chinato in avanti verso il rifugio rappresentato dalle piante. L’altro soldato vedendo il suo compagno particolarmente esposto cercò di coprirlo come meglio poté, svuotando un caricatore nel punto in cui aveva visto sparire Gabriel. Un proiettile colpì quest’ultimo alla spalla, facendolo ruotare su se stesso e buttandolo a terra senza fiato.
- No, questo no – penso il ragazzo – morire a cento metri da casa mia no! L’ufficiale, raggiunte le piante si voltò verso la collina dove pensava fosse nascosto Gabriel e iniziò a sparare raffiche di tre colpi a casaccio, non potendo vedere nel ormai buio completo dove fosse il croato. Gabriel cercò di rotolare su se stesso verso il fondo della collina e,. aiutato dall’inclinazione del pendio, prese velocità fino a fermarsi quasi nell’acqua. I due soldati nemici si accorsero però del movimento e indirizzarono i loro colpi sulla riva dove si trovava ora il loro avversario. Gabriel si accorse della posizione del soldato di copertura dal lampo uscito dal fucile di questo. Si accovacciò appoggiando un ginocchio in terra e lasciò partire un colpo tenendo la pistola con due mani. Il serbo fu preso in pieno petto e cadde in avanti. In questa modo Gabriel si espose però troppo, dando il fianco all’altro soldato nemico che riuscì a vederlo, prese con maggior precisione la mira e sparò una raffica verso di lui. Un proiettile raggiunse il ragazzo, gli entrò nel fianco sinistro e, passando per il polmone, uscì dall’altra parte. Gabriel ebbe la sensazione di essere investito da un treno. L’impatto con il proiettile supersonico lo sollevò per aria e lo fece cadere di schiena nell’acqua. Se ne stava lì con le braccia allargate, con la parte superiore del corpo nel lago e le gambe sull’erba, come un crocefisso portato a riva dalla corrente. Boccheggiava cercando di respirare ma un torpore iniziò a salire dalla ferita fino a raggiungergli la testa.
L’ultima cosa che vide furono le stelle appena spuntate e che aveva così tante volte guardato seduto su quel pontile che si trovava ora a meno di due metri da lui.
Ad un tratto alcuni spari provennero dalla cima della collina: i compagni di Gabriel, stanziati nelle vicinanze accorsero in allarme dopo aver udito i colpi di arma da fuoco. Il serbo, rimasto solo, capì di essere ormai in posizione di svantaggio e cercò di dileguarsi nel bosco ma una granata lanciata dai croati gli esplose proprio di fronte ai piedi, dilaniandolo.
Dopo qualche altro colpo i soldati croati smisero di sparare e scesero con cautela verso il lago aprendosi a ventaglio. Ben presto capirono che non c’era più pericolo e si misero in cerca dei cadaveri o di eventuali superstiti. Trovarono quasi subito il corpo del soldato uscito dal bosco e che aveva sparato per primo contro Gabriel. Il proiettile del croato gli aveva spaccato il cuore.
C’era un silenzio irreale. I rumori della natura che, fino a dieci minuti prima, riempivano l’aria, erano spariti. Le rane si erano tuffate in acqua e le anatre erano subito volate via. L’unico rumore che si sentiva ancora era il sibilo del vento fra le canne. Scesero verso riva e si diressero verso il corpo del loro compagno. Gli si radunarono intorno in silenzio e lo trascinarono all’asciutto. Fecero arrivare una barella e, dopo avercelo deposto, lo portarono verso il comando.
Uno dei soldati croati si attardò sul bordo del lago per accendersi una sigaretta. Si appoggiò alla balaustra del pontile guardandosi intorno. Ad un tratto l’occhio gli cadde su qualche cosa che spuntava dal folto dell’erba e vi si avvicinò incuriosito. Era lo zaino che l’ufficiale serbo aveva abbandonato quando Gabriel gli stava sparando addosso. Lo aprì per vedere cosa contenesse. Estrasse alcune mappe in carta plastificata, della razioni alimentari, e una scatola piuttosto voluminosa che occupava la maggior parte dello spazio.
L’aprì. Conteneva un violino. Sul suo retro, una targhetta d’argento luccicava sotto la luna appena sorta. |