Fabio La sveglia suonò, come ogni mattina, alle sei e trenta, a casa Sgamelli. Fabio intuì, prima ancora di sentirlo veramente, il fastidioso rumore della suoneria. Si girò un paio di volte nel letto, cercando di ritardare il più possibile la levataccia, cercando di assorbire ancora un po’ di quel piacevole calore presente sotto le coperte, prima di uscirne ed entrare nel bagno gelido. Era particolarmente stanco quella mattina e rimase voltato verso il muro, nel buio, mentre il trillo elettrico della suoneria squassava il silenzio della casa. A convincerlo definitivamente ad alzarsi fu l’urlo del padre proveniente dalla stanza accanto. - Allora?! Ti alzi o no? cos’è, festa oggi? Subito Fabio saltò dal letto, spense la sveglia e a piedi nudi trotterellò in bagno. Si sciacquò la faccia con l’acqua fredda, dopodiché se ne andò in cucina a preparare la colazione per lui e il padre. Già perché quella, come altre incombenze casalinghe spettavano a lui, da quando la madre era morta. Il padre, un uomo rozzo e all’antica non aveva mai accettato il fatto che certi compiti femminili potessero essere svolti da lui, almeno fino a quando ci sarebbe stato un ragazzino come Fabio che se ne sarebbe potuto occupare senza discutere. L’uomo sarebbe anche potuto essere giustificato per questa sua mancanza di collaborazione in casa, se non altro quando tornava sfinito dal lavoro che svolgeva in cantiere come muratore. A volte tornava a casa così stanco che, come raccontava ridendo ai compagni di bevute, non aveva neanche la forza di battere il figlio. Ma già da due mesi, ormai, aveva perso il posto e ancora non ne aveva trovato un altro. Per questo motivo, di energie per picchiare Fabio ne aveva parecchie, accresciute anche dai numerosi bicchieri di rosso che iniziava a trangugiare già dal mattino. Fabio, dal canto suo, cercava di ridurre al minimo i motivi per cui il padre avrebbe potuto mettergli le mani addosso: gli preparava la colazione, gli faceva il bucato e gli stirava i panni, l’unica cosa che non facesse era andare a fare la spesa, sia perché l’uomo non si fidava a dargli in mano soldi sia perché non voleva che gli altri sapessero che lui., Luigi Sgamelli, dipendesse da un bambino per le necessità domestiche. Così, anche quella mattina preparò il caffè latte per lui e il caffè per il padre. Poi, il più velocemente possibile, si vestì, prese la cartella e uscì in strada, lontano da quella casa e da quell’uomo. Non che le cose in strada o a scuola gli andassero meglio. Già, perché Fabio si poteva dire tutto tranne che felice. Era un ragazzetto di dodici anni, timido, secco secco, coi capelli neri che si ribellavano fieramente ad ogni tentativo di essere pettinati. Più Fabio cercava di ordinarli con il pettine, più questi gli si arricciavano disordinatamente sopra le orecchie e sulla fronte, dandogli l’aspetto di un monellaccio d’altri tempi. In più aveva due occhi neri, enormi, che non mascheravano nessun suo pensiero, non poteva pensare a niente che essi non lo rivelassero immediatamente a chi lo stava osservando; così se si metteva a pensare alla biondina del banco di fianco, Laura, gli occhi gli brillavano, le pupille diventavano enormi, come i mirtilli sui pasticcini che ogni tanto riusciva a mangiare, enormi come pozze scure che risaltavano ancora di più nel pallore del volto. Oppure si inumidivano, quando pensava alla madre morta ormai già da quattro anni. In tutti i casi, tutte le sante volte in cui un pensiero o un ricordo particolarmente forte gli metteva in subbuglio l’anima i suoi occhi rivelavano al mondo quello che egli stava provando. Purtroppo, il mondo in cui lui viveva non era particolarmente tenero con chi mostrava agli altri le proprie emozioni. Né il mondo della famiglia, come quella volta che il padre, vedendolo piangere di fronte alla foto della mamma, lo aveva schiaffeggiato per insegnarli ad essere forte. Né, tanto meno, il mondo della scuola, dove un ragazzino timido, impacciato e, diciamo pure piuttosto brutto, non aveva nessun diritto di innamorarsi della più bella della classe, se questa, oltretutto, era già la ragazza del duro della scuola. Come tutte le mattine si incamminò verso il suo istituto, con le mani in tasca e lo zaino appeso di sbieco su una spalla. Gli piaceva la strada che percorreva: stretta e diritta, sulla quale si affacciavano negozietti che ormai stavano per chiudere e con un bel negozio di barbiere proprio in fondo alla via, con il vecchio proprietario che attendeva i clienti sull’uscio della bottega e salutava ogni volta con un sorriso il ragazzo che andava a lezione. Aveva appena piovuto quel giorno e la strada luccicava sotto i suoi piedi con le pozzanghere che riflettevano il cielo che si stava velocemente schiarendo. Nonostante tutto, Fabio si sentiva felice quella mattina: non le aveva ancora prese, era venerdì e la settimana era finita. Sì, varcò i cancelli della scuola con il cuore particolarmente leggero e si stava affrettando ad entrare nel portone quando una voce gli rovinò l’inizio di quella che poteva essere una splendida giornata.
-Ehi Sgamelli, fermati un attimo. Eccolo lì, Stefano Fiorin, il ripetente che ogni giorno si divertiva sulle spalle di Fabio con le sue prepotenze e la sua cattiveria, nonché uno dei ragazzi più grossi della scuola, nonché il fidanzato di Laura. Si avvicinò a lunghi passi al ragazzo seguito dal suo inseparabile scudiero, Morzani, un ragazzetto dalla faccia butterata e gli occhi piccoli e cattivi come quelli di un roditore. - Ciao Fiorin, cosa vuoi? - gli chiese Fabio con lo sguardo fisso a terra e con un filo di voce - Ti ho già detto una volta che da qui tu non devi passare, almeno fino a quando le ragazze non siano entrate tutte in classe- gli disse Stefano mettendogli un braccio intorno al collo con finto fare amichevole e con un sorrisetto cattivo sulle labbra. - Sai, non mi va che possano restare impressionate dalla tua brutta faccia - Ma allora come faccio io ad entrare? – gli chiese Fabio con un fare tra lo stupito e il supplichevole. - Aspetti che siano entrate tutte, non mi sembra che sia un grande problema, idiota! Ti fermi sul cancello e quando vedi che il cortile è vuoto entri in classe. Te l’ho già detto una volta, cerca di non fartelo più ripetere- gli sussurrò ad un orecchio aumentando la stretta del braccio attorno al collo di Fabio. - Ci siamo capiti?- Chiese il tirapiedi con gli occhi di topo dandogli uno spintone – Ultimamente stai facendo troppo il furbo, cerca di non tirare troppo la corda! I due ragazzi gli diedero ancora una spinta che gli fece cadere lo zaino e sparpagliare i libri sull’asfalto, dopodiché entrarono ridendo nell’atrio della scuola. Il cortile era ancora pieno di gente che si stava attardando ad andare in classe e Fabio, rosso in faccia per la rabbia e la vergogna, non osava alzare lo sguardo sugli altri presenti, per paura che fra tutti ci fosse stata, come in effetti c’era, Laura. Raccolse in tutta fretta i libri, li rimise nella cartella e, lentamente, entrò a scuola. Oltrepassò un gruppetto di ragazzi e ragazze che, al suo passare, iniziarono a ridere dapprima sommessamente, poi quando uno di essi imitò il suo modo di camminare, dinoccolato e scomposto, iniziarono a ridere apertamente senza più ritegno. Fabio se ne accorse e accelerò il passo. Entrato nell’atrio li sentiva ancora ridere; la rabbia gli serrava la gola, provava una sensazione di vuoto allo stomaco ma si impose di bloccare le lacrime che stavano iniziando a nascergli. - Non dargliela vinta - si disse – sono una manica di stronzi, non pensarci, non capiscono …niente…non contano…niente - continuava a ripetersi tra se e se in maniera sempre meno convinta e con parole sempre più incerte poiché lo sforzo di ricacciarsi nell’anima le lacrime si faceva via via più forte.
Dopo le prime ore noiose e, secondo molti, inutili, di matematica, la classe poté sfogarsi nel campetto della scuola con una partita di calcio. L’ora di educazione fisica stava finendo e le due squadre erano ancora in parità quando fu fischiato un rigore a favore della squadra di Fabio. Subito i ragazzini iniziarono a discutere su chi lo dovesse tirare quando, il portiere avversario, con fare deciso intimò che lo tirasse proprio lui. Il portiere era, guarda caso, Fiorin. - Fatelo tirare a lui - disse con un tono che non ammetteva discussioni e si mise a fissare sorridendo il ragazzetto che, nel frattempo si era messo in disparte a bordo campo. - Su Sgamelli, prendi la palla e vieni qui - gli disse Stefano indicando il dischetto il gruppo di ragazzi si voltò a fissarlo, chi ridacchiando, chi deluso e preoccupato per l’esito della partita, chi ancora semplicemente curioso di sapere come sarebbe andata a finire. Fabio inizialmente fu preso dal panico, non gli era mai capitato di tirare un rigore, mai in un momento tanto decisivo e mai con Fiorin come avversario diretto in porta. Rimase imbambolato per alcuni secondi, poi, come un automa, si diresse verso la palla, la prese e mettendosela sottobraccio, si diresse lentamente verso la porta; la sistemò sul dischetto e rimase ritto come uno spaventapasseri a guardarla. Successe tutto relativamente in fretta, anche se a Fabio sembrò di essere rimasto un’eternità a pensare a quanto stesse facendo. Gli sembrò di muoversi al rallentatore mentre posizionava la palla sul dischetto, arretrava di alcuni passi e osservava con attenzione la porta e il portiere in attesa. Questi aspettava, sicuro di se, il tiro di Fabio, lo guardava con sufficienza, sicuro che non sarebbe stato ne particolarmente preciso né, soprattutto particolarmente potente. Fabio si sentì crescere nello stomaco la rabbia per come l’altro lo stesse deridendo apertamente, per come attendeva il suo tiro con fare sprezzante, per come appariva sicuro che glielo avrebbe parato. In quel momento comprese però una cosa. Gli sbocciò di colpo nella mente una certezza che, fino ad allora, non aveva mai considerato: poteva essere deriso per la sua debolezza ma nessuno, né il padre, né tanto meno Fiorin, potevano accusarlo di essere stupido. Realizzò questo pensiero e in un lampo si rese conto che forse poteva usare a suo vantaggio ciò che la natura gli aveva dato: il cervello. Alzò lentamente lo sguardo dal pallone verso il portiere. Fiorin si accorse di una luce diversa che brillava ora in quegli occhi neri ma era troppo stupido e troppo sicuro di se per considerare quella luce come un pericolo. Si stava spazientendo e batté le mani per attirare l’attenzione dell’avversario; dopodiché si mise in posizione per ricevere il rigore e urlò: - ti decidi a tirare?, non abbiamo più tempo, dobbiamo tornare in classe Fabio si preparò, indietreggiò di alcuni passi e si mise a fissare l’angolo in basso a destra della porta. Solo quando si rese conto che Stefano aveva notato la direzione del suo sguardo iniziò la rincorsa. Appena la palla fu calciata Fiorin si lancio versò l’angolo che stava fissando Fabio, ma, con sua grande sorpresa, la palla si diresse nel punto esattamente opposto, in alto a sinistra e lì si infilò con precisione in rete Il tiro non era stato molto potente ma il portiere era ormai sbilanciato verso l’altra direzione e non poté fare nulla se non imprecare tra se per la facilità con cui era stato ingannato. Fabio si sentì la gioia esplodere in petto, alzò le braccia al cielo in un gesto di trionfo e dovette farsi veramente violenza per non rivolgere in direzione di Fiorin il pugno con il dito medio alzato. Riuscì a trattenersi soprattutto per la paura della reazione dell’altro. Quindi, con evidente aria soddisfatta, si diresse verso i compagni di squadra che lo accolsero esultanti. Cercò di evitare Stefano per tutto il resto della mattinata ma non poté non notare lo sguardo carico di odio che questi gli lanciò mentre stavano ritornando in classe. Il resto della giornata proseguì tranquillamente fino a quando tutti gli studenti non si dovettero radunare in palestra per un’assemblea indetta dal preside. Fabio, con il resto della sua classe, si posizionò in fondo allo stanzone, vicino al muro. Mentre il preside teneva il suo discorso lui faceva vagare lo sguardo fra i presenti, cercando fra le centinaia di teste i capelli biondi della “sua” Laura. L’aveva appena individuata quando due figure entrarono nel suo campo visivo. Ovviamente erano Fiorin e Morzani. Senza farsi notare gli si erano avvicinati e volgendogli le spalle, con la faccia sempre rivolta verso il palco con il preside, si fermarono davanti a lui. Velocemente Morzan gli diede una gomitata allo stomaco che gli tolse il fiato Approfittando di questo, Fiorin riuscì a spingere Fabio, senza che lui opponesse resistenza, dietro ad una colonna, rimanendo in questo modo tutti e tre nascosti rispetto al palco. - te l’avevo detto che stavi tirando troppo la corda – gli sussurrò Morzani. - Ora gliela facciamo pagare – rispose di rimando Fiorin – oggi volevi prendermi per il culo? Stai tranquillo che te la faccio passare io la voglia. – e gli diede uno spintone che lo fece sbattere contro il muro. In un primo momento Fabio fu assalito dal panico; la paura gli serrava lo stomaco, non riusciva a parlare e fissava gli altri due con occhi sbarrati. Era successo tutto così in fretta e in maniera così inaspettata che non sapeva assolutamente cosa fare. Poi, altrettanto inaspettatamente, ebbe la seconda rivelazione di quel giorno. La seconda certezza che gli si piantò saldamente nell’anima e che non avrebbe mai potuto dimenticare. Si rese conto che per quanto Fiorin fosse grosso non poteva di certo essere più grosso di suo padre; per quanto avesse potuto picchiarlo forte non avrebbe mai potuto eguagliare i pugni che sapeva dare il signor Sgamelli quando era ubriaco. Si rese conto che se poteva sopportare i pugni di un adulto (come aveva fatto fino ad ora) poteva certamente sopportare quelli di un altro ragazzino, anzi meglio, quei pugni poteva schivarli e, forse, restituirli. Questi pensieri gli diedero speranza. La speranza ben presto si trasformò in coraggio e il coraggio in rabbia. La luce che aveva brillato nei suoi occhi sul campo di pallone si accese nuovamente. Fabio fissava gli altri due ragazzi senza abbassare lo sguardo. Vedeva le loro labbra muoversi ma non udiva alcuna parola uscire da quelle bocche contratte da smorfie aggressive. Soprattutto vedeva i loro movimenti al rallentatore, gli sembrava che stessero giocando e che per qualche motivo gli altri due fossero penalizzati poiché erano costretti a muoversi molto più lentamente di quanto poteva fare lui. Fiorin gli assestò un pugno allo stomaco sicuro che Fabio si sarebbe accasciato, ma Fabio, abituato a ben altri colpi, non avvertì nessun dolore, anzi, l’unico effetto che quel pugno gli fece fu quello di fargli aumentare la rabbia. Fu un attimo e la velocità del ragazzino stupì gli aggressori quasi quanto stupì se stesso. Un istante dopo aver ricevuto il pugno contrasse istintivamente gli addominali per attutire il colpo e con un unico movimento scartò di lato verso Morzani assestandogli una violenta ginocchiata all’inguine. Morzani si accasciò al suolo con un gemito. Fabio lo lasciò perdere non considerandolo più una minaccia, potendo in questo modo dedicarsi completamente a Stefano. Questi lo osservava a bocca aperta, stupito dalla sua reazione, e dimenticandosi di alzare la guardia. Fabio se ne rese conto e spostandosi velocemente in avanti gli tirò un pugno mirando al naso e cercando di metterci tutto il peso del corpo. Arrivò tuttavia con troppa foga e, anziché colpire il naso, il pugno andò troppo alto, colpendo violentemente Fiorin alla fronte. Fabio, ormai completamente sbilanciato in avanti, non poté più fermarsi e andò a sbattere contro l’altro ragazzo, trascinandolo nella sua corsa e facendolo cadere sul pavimento. Fabio ebbe la fortuna di cadergli sopra e, ormai dominato dalla rabbia, non seppe più fermarsi. Si era praticamente messo in ginocchio sul petto dell’altro e gli tempestava il volto di pugni. Non sentiva più niente, solo il suo respiro che si faceva via via più rapido e i colpi che gli si incassavano nelle spalle. L’unica cosa a cui stesse pensando era di fare più male possibile a quello stronzo. Sembrava che stesse per ucciderlo e, forse, ci sarebbe riuscito se due braccia non lo avessero immobilizzato e alzato praticamente di peso dal corpo del ripetente.
L’ufficio del preside era completamente rivestito da pannelli di legno scuro. Una grossa cartina antica campeggiava sul muro alle spalle dell’uomo. L’unico rumore che si sentiva era il ticchettio di un orologio a muro di enormi dimensioni proprio sopra la porta. Il preside, il professor Longhi, se ne stava seduto in silenzio, con i gomiti appoggiati al tavolo tenendo le punte delle dita unite di fronte al naso, profondamente assorto nei suoi pensieri. Longhi fissava il piano della scrivania mentre Fabio posava lo sguardo ora sul preside ora sul pavimento. - cosa t’è saltato in mente? – gli disse ad un tratto l’insegnante – ti rendi conto cosa hai fatto…e soprattutto cosa dovrò fare io ora? - mi stavo solo difendendo – provò a scusarsi il ragazzo – hanno iniziato loro - si, ma nessuno ha visto loro che provavano a picchiarti mentre tutta la scuola ha potuto assistere al massacro che stavi facendo! – l’ho interruppe immediatamente il preside - ascolta ragazzo, io ho imparato a conoscerti col tempo e devo dire che mi piaci, so anche che hai problemi a casa, con tuo padre, dico bene? A quelle parole Fabio alzò di scatto la testa per poi riabbassarla subito confermando con il suo silenzio quanto gli era stato appena detto - lo immaginavo…e questo mi rende ancora più difficile quanto sto per fare…lo immagini vero che cosa dovrò fare? Fabio lo fissò in silenzio non osando proferire parola Il preside tirò un profondo sospiro e a bassa voce disse – devo sospenderti. Se si fosse trattata di una semplice zuffa finita in niente non avrei fatto nulla ma, santo Dio, li hai mandati all’ospedale entrambi! – Infatti Fiorin era finito al pronto soccorso per la frattura del naso e la perdita di un dente mentre Morzani era in osservazione per il colpo ricevuto ai testicoli A quelle parole Fabio si sentì rimescolare, non capiva che cosa stesse provando: rimorso, innanzitutto, era veramente dispiaciuto per quello che aveva fatto, non voleva far loro così male, non era neanche convinto di riuscirci; al tempo stesso, però, provava, e di questo se ne vergognava, anche un po’ di orgoglio. Orgoglio per aver saputo tener testa a due ragazzi molto più grossi di lui. Continuava a stropicciarsi le mani, non osando alzare lo sguardo sul preside fino a quando questo non ruppe di nuovo il silenzio - questa è la comunicazione con la quale vieni sospeso a tempo indeterminato – disse porgendogli una busta – devi consegnarla a casa e dire a tuo padre che deve venire qui a scuola a parlare con me. A quelle parole Fabio si sentì gelare, una mano di ghiaccio gli afferrò lo stomaco. Gli veniva da vomitare per quanta paura provava. Guardò con occhi imploranti Longhi per cercare di convincerlo a non fare quello che stava per fare ma il preside uccise immediatamente le sue speranze: - mi spiace ragazzo – sussurrò alzandosi – non posso farci niente, li hai mandati all’ospedale. Se provassi a difenderti il provveditore mi taglierebbe la testa. Sono riuscito ad evitare l’espulsione, di questo devi credermi, ma di più proprio non posso fare. – nel frattempo aveva aggirato la scrivania e si era avvicinato al ragazzo mettendogli una mano sulla spalla; a testa bassa gli disse : mi dispiace…buona fortuna – e uscì dalla stanza lasciandolo solo.
Fabio uscì dal cancello della scuola camminando molto lentamente. Non ricambiò neanche il saluto del barbiere quando passò davanti al suo negozio. Il panico cresceva mano a mano che si avvicinava a casa.
Eccola là, casa sua, in fondo alla via, con dentro suo padre probabilmente già ubriaco, come una belva in attesa in fondo ad una grotta. Aprì la porta tremando ed entrò in cucina dove trovò l’uomo seduto al tavolo intento a finire l’ultimo bicchiere di una bottiglia di vino rosso. Al suo ingresso lo guardo stupito - Cosa fai già a casa? – gli domandò - E’ successo un casino – rispose il ragazzo a bassa voce. Se ne rimase impalato di fronte al genitore con le braccia lungo i fianchi e il padre non poté non notare la busta che Fabio stringeva nel pugno.
Senza dire una parola gliela prese di mano. L’aprì con calma e si mise a leggere. Fabio era così spaventato che non pensava neppure a scappare o a inventare qualche scusa. Il panico aveva definitivamente preso il sopravvento su di lui. Teneva gli occhi fissi al volto dell’uomo, cercando di spiarne le reazioni ma dalla sua faccia rossa di alcool non trapelava assolutamente nulla. E qui successe l’imprevedibile. Quando ebbe finito di leggere la lettera il padre rimase perfettamente calmo e gli chiese: - raccontami com’è andata il ragazzo sgranò gli occhi e lo fissò stupito per questa sua reazione ma subito, per evitare di dargli ulteriori motivi per arrabbiarsi, iniziò a raccontare come si erano svolti i fatti. Finito il racconto seguirono alcuni istanti di silenzio, dopodiché l’uomo proruppe in una fragorosa risata accentuata quasi certamente dall’alcool che aveva in corpo. Mentre rideva si batteva ripetutamente le mani sulle cosce come per sfogare ulteriormente la sua ilarità. Fabio non era mai stato più stupito e confuso in vita sua, non sapeva cosa pensare e cosa fare, rimaneva in silenzio perché non sapeva cosa dire e continuava a fissare inebetito il padre che si sganasciava.
- E io che pensavo che tu fossi una femminuccia! La prossima volta ci penseranno due volte a provare a mettere le mani addosso al figlio di Sgamelli! Non ti preoccupare per la sospensione. Domani andrò a parlare io col preside, e se dovrai farti qualche giorno a casa tanto meglio…hai tutti i panni della settimana scorsa ancora da lavare, così potrai tirarti un po’ avanti con i lavori.
Fabio non si mosse. Era letteralmente ipnotizzato. Ancora un attimo e sarebbe svenuto se il padre, ritornato immediatamente serio, non lo avesse scosso: - beh?! Ti sei addormentato in piedi? Visto che sei già a casa puoi lavare i piatti del pranzo. Muoviti! - si, si, subito – gli rispose il ragazzo e corse a riempire d’acqua calda il lavandino dove lo stavano aspettando i piatti sporchi. Il padre stappò un’altra bottiglia e si rimise a bere, ma di tanto in tanto sbirciava il figlio che, volgendogli la schiena, lavava le stoviglie. Annuiva tra se e se e avrebbe voluto abbracciarlo per fargli capire che era fiero di lui ma pensava che non era una cosa da fare: voleva che il ragazzo crescesse forte ed era convinto che questo obiettivo si sarebbe raggiunto con le sberle e non con le carezze. Convinto di questa sua teoria e ritrovata la sicurezza interiore che per un attimo aveva perso si versò un altro bicchiere, ormai sempre più soddisfatto di se, convinto di essere nel giusto in un mondo di torti.
Fabio in silenzio lavava i piatti e una miriade di pensieri gli affollavano il cervello. Era felice perché non era stato picchiato, questo era inutile negarlo, eppure, in fondo in fondo era deluso, anzi no, preoccupato, per la reazione che aveva avuto il padre. Che razza di uomo era uno che considerava un onore mandare all’ospedale una persona e, soprattutto, come sarebbe cresciuto con una simile guida? Erano troppe le esperienze e le domande che quel giorno si era trovato sul cammino, domande a cui forse avrebbe impiegato molto tempo per dare una risposta; ma in quel groviglio di incertezze e di sensazioni discordanti vi era almeno una cosa per la quale sapeva esattamente cosa provava; sapeva che per quella cosa il cuore gli era esploso in petto per gioia.
Quando era uscito dall’ufficio del preside e si stava avviando a casa aveva incrociato Laura e, incredibilmente, nonostante tutto, nonostante gli avesse picchiato il fidanzato lei gli aveva sorriso. In quel sorriso aveva visto comprensione, rispetto e anche qualcos’altro, qualcosa che non osava confessare neanche a se stesso.
Forse in quel sorriso aveva visto per la prima volta in vita sua l’amore.
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