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Fotodecontaminazione

 

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Le prime osservazioni sulla potenziale facoltà delle sostanze fotosensibilizzanti di inattivare virus sono state riportate in letteratura a partire dagli anni '30. Data da quegli anni la proposta di usare il blu di metilene nella preparazione di vaccini virali.

Nel 1955, venne proposto l’impiego di tali sostanze per inattivare nel plasma umano i virus epatitici, arrivando a classificare i virus secondo la capacità di essere inattivati da vari composti, fra cui le fenotiazine e i coloranti a base di acridina.

Progredendo lo studio di queste sostanze ne furono annotate alcune fondamentali caratteristiche quali quella che, per essere attivo, il colorante deve penetrare all'interno del virus o, comunque, essere a stretto contatto con il bersaglio.

Attualmente i metodi di fotodecontaminazione vengono considerati come i mezzi più potenti di decontaminazione degli emocomponenti labili.

Tutti i fotosensibilizzatori attualmente proposti sono coloranti organici che hanno la proprietà di assorbire la luce (cromofori), venendo eccitati a un alto livello di energia e potendo reagire con un substrato o con altre molecole e generando prodotti che, a loro volta, possono ulteriormente reagire con il substrato (fotosensibilizzazione). Se viene coinvolto l'ossigeno, le reazioni di fotosensibilizzazione vengono definite fotodinamiche. 

Un certo numero di molecole che assorbono luce è tuttavia in grado di determinare una fotodecontaminazione anche in assenza di ossigeno. Il più importante gruppo di questi fotosensibilizzatori è rappresentato dagli psoraleni.

I principali fotosensibilizzatori usati nella decontaminazione di emocomponenti labili sono: 

Fenotiazine          Blu di metilene (MB)

                         Blu di 1,9-dimetilene (DMMB)

Ftalocianine         Ftalocianina di alluminio (AIPc)

                         Tetrasulfonato di ftalocianina di alluminio (AIPc4)

                         Ftalocianina di silicone (Pc4, Pc5)

Psoralene            8-metossipsoralene (8-MOP)

                         4'-aminometil-4,5',8-trimetilpsoralene (AMT)

                         Psoralene aminoalchilato (S-59)

Altri composti       Merocianina 540 (MC540)

                         Derivati dell'N-4-butanol feoforbide (Ph4-OH)

 

Il plasma fresco congelato (FFP) è stato il primo emocomponente labile ad essere sottoposto a fotodecontaminazione. Blu di metilene e luce bianca (assorbimento massimo fra 661 e 667 nm) furono tra i primi presidi ad essere sperimentati per inattivare i virus a capsula lipidica. Anche diverse proteine plasmatiche labili, fra le quali il fattore VIII, venivano comunque moderatamente alterate. Venne quindi riconosciuta l'efficacia di questo metodo e gli esperimenti clinici si rivelarono positivi ma, non essendo i patogeni intracellulari danneggiati dal trattamento; si pensò di aggiungere una fase di congelamento-scongelamento per rompere i leucociti presenti nel FFP.

Venne quindi postulato che il metodo di fotodecontaminazione doveva essere associato alla leuco-filtrazione per due motivi:

a) eliminare i leucociti residui resistenti al processo di congelamento- scongelamento

b) rimuovere il blu di metilene ed i suoi metaboliti formati dall’illuminazione, che potevano avere un'azione genotossica.

Negli anni '60, venne accertato che la protoporfirina che si accumula nei normoblasti e negli eritrociti dei pazienti affetti da protoporfiria agiva quale fotosensibilizzatore.

Questa sindrome ha, di conseguenza, fornito importanti acquisizioni sull'azione dei fotosensibilizzatori. Nel 1986, venne ipotizzato che l’azione della protoporfirina fosse dovuta a danneggiamento di uno specifico costituente della membrana eritrocitaria, la proteina della banda 3 che agisce come trasportatore di anioni. Si concluse che la fotoemolisi è un processo composito che determina danno ossidativo alle proteine della membrana. 

Per quanto riguarda la fotodecontaminazione di concentrati eritrocitari (RBC), sono necessari fotosensibilizzatori con un assorbimento massimo a una lunghezza d'onda superiore a 600 nm (luce rossa) per evitare assorbimento di luce da parte dell'emoglobina e conseguenti danni all'eritrocita.

Sono stati studiati un gran numero di possibili sensibilizzatori, quali il rosa bengala, l’ipericina con i suoi derivati e le porfirine.

Le strutture porfirino-simili sono di particolare interesse: questi composti sono stati usati per il trattamento di varie malattie maligne. La maggior parte di essi sono anfofilici (a doppia 'fïla") e si localizzano sulla membrana, facendo ipotizzare che inattivino soprattutto virus a capsula lipidica piuttosto che non incapsulati.

I derivati delle ematopoprfirine si sono dimostrati efficaci nell'inattivazione di vari virus capsulati sia in colture cellulari che nel sangue in toto, mentre i virus non capsulati non vengono danneggiati, con ciò suggerendo che il bersaglio più importante per la loro azione sia la membrana virale.

II derivato monoacido della benzoporfirina si è dimostrato in grado di inattivare il VSV (virus della stomatite) e l’HIV sia libero che intracellulare con danni eritrocitari limitati.

La merocianina 540 è un fotosensibilizzatore che è stato utilizzato nel processo di depurazione (purging) del midollo osseo dalle cellule leucemiche o linfomatose negli autotrapianti.

Un notevole numero di virus sono sensibili alla fotoinattivazione effettuata con merocianina 540, se trattati in una sospensione a basso ematocrito (inferiore al 15%). Tuttavia, non si riesce a evitare un certo grado di emolisi e di decremento di ATP dopo conservazione, probabilmente perché il picco di assorbimento a 540 nm si sovrappone a quello dell'emoglobina.

Nel corso di questo studio sono stati indagate anche numerose fenotiazine.

È già stato accertato che il blu di metilene inattiva efficacemente i virus a capsula lipidica ma non penetra nelle cellule.

Inoltre, alle dosi richieste per una valida azione virucida, la membrana eritrocitaria subisce alterazioni che provocano l’adesione non specifica di IgG e perdita di potassio. Il blu di metilene, per di più, ha una potenziale azione genotossica. Assai più promettenti del blu di metilene sono il violetto di metilene e il suo derivato, blu di 1,9-dimetilene.

Infine, le ftalocianine si sono dimostrate essere un gruppo interessante di fotosensibilizzatori. Si tratta di metalli contenenti strutture ad anello profirino-simili che assorbono la luce rossa (lmax = 675 nm).

Le ftalocianine di alluminio e i loro derivati sulfonati sono particolarmente attivi nell'uccidere vari virus, fra cui anche l’HIV libero o intracellulare.

Tuttavia, i virus non capsulati non vengono uccisi e ciò sta a indicare che il principale bersaglio è la capsula virale o che questi fotosensibilizzatori non sono in grado di raggiungere il bersaglio all'interno del virus. I danni ai globuli rossi sono ragionevolmente limitati. E’ stata studiata tutta una serie di ftalocianine.

Gli psoraleni sono stati approfonditamente studiati per la decontaminazione di concentrati piastrinici. I primi impieghi nell'uomo (che hanno dimostrato l’assoluta innocuità degli psoraleni) si sono avuti prima nel trattamento della psoriasi cronica e, più tardi, in quello del linfoma cutaneo a cellule T.

Negli anni '70 venne introdotta, per il trattamento delle forme gravi di psoriasi, la somministrazione orale di psoralene seguita dall'esposizione totale del corpo all'irradiazione con luce ultravioletta, trattamento noto come PUVA. Tale trattamento determina remissione della malattia entro 4-6 settimane, ma sono necessari ripetute applicazioni per prevenire le ricadute.

Gli psoraleni sono furocumarine planari, la maggior parte dei quali vengono sintetizzati dalle piante e ingeriti come alimenti. Si legano preferibilmente agli acidi nucleici sia DNA che RNA.

I diversi psoraleni differiscono largamente fra loro per solubilità, affinità per gli acidi nucleici e effetti secondari, quali la generazione di differenti specie di ossigeno attivo. Con l’aggiunta di luce ultravioletta ad ampia lunghezza d'onda si formano legami covalenti (mono o di-addizionati) fra gli psoraleni e le pirimidine degli acidi nucleici, così da inibire replicazione, trascrizione e translazione degli stessi.

Questo trattamento non altera solamente i virus a capsula lipidica ma anche i batteri. Peraltro, i virus non capsulati non vengono inattivati, forse perché la proteina esterna impedisce agli psoraleni di arrivare al bersaglio.

La fotodecontaminazione dei concentrati piastrinici con l’impiego di psoraleni è in uno stato assai progredito. Sono già stati completati numerosi studi clinici e altri sono in corso.

 

 Copyright© 1999/2005 - Francesco Angelo Zanolli - Ultimo aggiornamento in data 16/11/2005