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I primi tre capitoli del De vulgari eloquentia trattano dell’essenza
del linguaggio umano considerato sotto il profilo della comunicazione
tra uomo e uomo, e quindi della necessità di un signum istituito
ad placitum in cui un significante sensibile veicola un significato
intelligibile. Questo primo momento definitorio prelude alla trattazione
di un problema ulteriore: una volta chiarito il rapporto tra funzione
e struttura del linguaggio, ovvero tra la finalità comunicativa
e la dualità del segno, si tratta di risalire alle origini della
umana locutio tracciando una genealogia degli atti di parola. Quale
è stato il primissimo atto linguistico proferito nell’Eden
prima della cacciata di Adamo ed Eva? Da quale evento di parola ha avuto
origine il linguaggio? È proprio in questa parte della trattazione
che dovremo rinvenire uno dei più decisivi elementi di "novità"
che Dante rivendica nell’apertura del trattato. Il quarto capitolo
del primo libro espone i termini della ricerca, e li scandisce come
i sei punti di una vera e propria quaestio de primiloquio:
dovremo stabilire a quale essere umano fu dato il linguaggio per primo,
cosa disse la prima volta che parlò, a chi, dove e quando manifestò
il suo primo atto linguistico, e in quale lingua esso fu proferito.
E se oggetto di tale quaestio è l’evento di parola
che ha inaugurato il linguaggio, la ricerca dovrà necessariamente
procedere attraverso una serrata interrogazione delle Scritture, una
sorta di anamnesi in forma di commento alla Genesi. Il commento biblico
fornisce pertanto la necessaria cornice a una domanda il cui luogo disciplinare
e istituzionale è di competenza del teologo in quanto esegeta
della Scritture. La ricerca "archeologica" sul linguaggio
si configura come una anamnesi filogenetica attorno agli eventi che
interessano il sesto giorno della creazione. In qualche modo Dante suggerisce
che data la natura divina del linguaggio, dono del Creatore e icona
del Verbo, tutto ciò che dobbiamo sapere sulla sua origine ci
è dato immediate a Deo per revelationem, in conformità
alla lezione degli scolastici. Inoltre, da un lato il commento esameronale
ci fornisce la risposta alle domande sull’origine dell’umana
locutio; dall’altro, esso ci permette anche di circoscrivere
esattamente la peculiare natura del problema: altra è la questione
dell’inizio della parola – della parole nell’accezione
della linguistica saussuriana – altra la questione della struttura
– afferente al piano del codice, ovvero della langue.
Tuttavia, il racconto biblico nella sua
nuda letteralità non ci permette di rispondere con certezza a
questi quesiti. Già se tentiamo di rispondere alla domanda su
chi sia stato il primo essere umano ad esprimersi con la parola, il
dettato della Genesi sembra contenere una palese incongruenza:
infatti, il primo atto linguistico attestato risulta essere il dialogo
intervenuto tra Eva e il serpente tentatore.
Ma come è possibile che l’umana locutio si sia
manifestata fin dal principio sotto il segno della aversio a Deo?
Come è possibile che il primo atto di parola sia scaturito dalla
presumptuosissimam Evam cum dyabolo sciscitanti (De vulgari
eloquentia, I, iv 2)?
Dovremmo credere che un evento così nobile, quale dev’essere
l’inizio del linguaggio umano, sia proceduto dalla donna indotta
in tentazione piuttosto che dall’uomo nella sua integrità
primordiale? Se la parola umana è icona del Verbo divino, è
ammissibile l’ipotesi di un’origine "diabolica"
della locutio? Ecco come suona la risposta dantesca:
Sed quanquam mulier in scriptis prius inveniatur
locuta, rationabilius tamen est ut hominem prius locutum fuisse credamus,
et inconvenienter putatur tam egregium humani generis actum non prius
a viro quam a femina profluxisse. Rationabiliter ergo credimus ipsi
Ade prius datum fuisse loqui ab Eo qui statim ipsum plasmaverat. Quid
autem prius vox primi loquentis sonaverit, viro sane mentis in promptu
esse non titubo ipsum fuisse quod "Deus" est, scilicet El
(…) (De vulgari eloquentia
I, iv, 3 – 4)
L’incalzante ricorrenza degli avverbi - rationabilius
e rationabiliter - ci impone di non passare sotto silenzio
l’aspetto più evidente del metodo dantesco. Il commento
al libro della Genesi è una interrogazione del Revelatum sorretta
da imprescindibili istanze razionali: per recuperare la memoria del
primiloquium occorre procedere senza fermarsi alla lettera
del dato scritturale nella sua ruvida immediatezza. In questo caso
specifico, non ci soccorre nemmeno il metodo allegorico consacrato
dalla tradizione. È necessario scavare nel silenzio delle Scritture
per recuperare un evento sulla cui necessità nessuno può
dubitare, benché non se ne diano testimonianze esplicite nella
Genesi. Al silenzio delle Scritture deve corrispondere un impegno
esegetico animato da criteri razionali, pur nel rispetto dei canoni
della fede. Se ne conclude che vi è una sola risposta possibile
alla domanda sull’origine del linguaggio: il
primo atto linguistico non può che essere scaturito dal primo
uomo, essendo illogico sostenere il contrario; Adamo,
a sua volta, ha inaugurato il linguaggio umano
con l’invocazione del Nome di Dio, in ebraico El.
In questo modo l’intervento esegetico di Dante si traduce in
una sorta di interpolazione. Dovendo trattarsi di un actus locutionis,
ovvero di un autentico atto di comunicazione, questo evento non può
essere identificato con l’imposizione dei nomi descritta in
Genesi 2, 19 – 20, dove si legge
che Dio condusse gli animali al cospetto di Adamo "per vedere
come li avrebbe chiamati". L’aspetto che maggiormente sorprende
il lettore medievale del De vulgari eloquentia, come qualsiasi
lettore in genere, è il fatto che in tutta la sua ricerca sull’origine
del linguaggio effettuata col supporto della Genesi, Dante non dica
nemmeno una parola sull’episodio dell’impositio nominum,
nonostante l’importanza che esso riveste per l’intera
tradizione teologica e per la metafisica medievale del segno. (...)
Quid autem prius vox primi loquentis sonaverit, viro sanae mentis in
promptu esse non titubo ipsum fuisse quod "Deus" est, scilicet
El, vel per modum interrogationis vel per modum responsionis. Absurdum
atque rationi videtur orrificum ante Deum ab homine quicquam nominatum
fuisse, cum ab ipso et in ipsum factus fuisset homo. (De
vulgari eloquentia I, iv, 4)
Sostenere che Adamo abbia iniziato a parlare nominando "qualcos’altro"
che non fosse Dio è assurdo sotto il profilo teologico e insostenibile
sul piano della ragione. Nessuno dubiterà del fatto che prima
ancora di esprimersi comunicando con un’altra creatura, Adamo
si sia rivolto direttamente al Creatore, essendo stato creato da Lui
e per Lui, aggiunge Dante con un poliptoto che riecheggia un passo delle
Epistole di San Paolo. Pertanto, l’actus locutionis originario
con cui l’umanità, in Adamo, è nata al linguaggio,
è l’invocazione del Nome di Dio. La lettera della Genesi
contiene una sorta di ysteron-proteron, quando attesta che il primo
atto comunicativo è il dialogo tra Eva e il serpente tentatore:
una volta ripristinata la priorità temporale di Adamo su Eva,
anche sotto il profilo della storia degli atti linguistici, possiamo
ovviare alla "lacuna" della Scrittura.
L’invocazione del Nome di Dio da cui ha avuto origine il linguaggio
umano è un episodio che può essere recuperato grazie a
un’indagine razionale sorretta, e non contraddetta, dalla fede.
Come nel Convivio, anche nel De vulgari non c’è
discrepanza tra metodo teologico e via razionale. Il primiloquium
dev’essere scaturito dal primus loquens creato dalla
mano di Dio; il destinatario di tale atto linguistico è il Padre,
Principio Primo di tutte le cose; essendo un evento di parola anteriore
alla caduta di Adamo, e quindi non ancora oscurato dal peccato, è
"primo", diremmo, in ratione nobilitatis; si tratta
infine di un actus locutionis assolutamente semplice, la cui struttura
precede l’articolazione discorsiva della frase ed esprime un affectus
spontaneo che nasce dal gaudio e dalla gratitudine di Adamo. Nella
simplicitas che lo contraddistingue, il Nome oggetto di invocazione
ha un valore olofrastico, è il punctum in cui
sembra concentrarsi l’essenza stessa della parola. Ricorrendo
alla terminologia neoplatonica, potremmo dire che il punctum exclamationis
dell’invocazione originaria "complica" in sè
tutta la sfera del linguaggio umano: pertanto, la
dimensione "verticale", che mette in relazione creatura e
Creatore, risulta anteriore e fondante rispetto a qualsiasi comunicazione
"orizzontale" tra creature dell’umana specie.
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