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  2.1 La dottrina del Nome di Dio come origine del linguaggio
 
 



I primi tre capitoli del De vulgari eloquentia trattano dell’essenza del linguaggio umano considerato sotto il profilo della comunicazione tra uomo e uomo, e quindi della necessità di un signum istituito ad placitum in cui un significante sensibile veicola un significato intelligibile. Questo primo momento definitorio prelude alla trattazione di un problema ulteriore: una volta chiarito il rapporto tra funzione e struttura del linguaggio, ovvero tra la finalità comunicativa e la dualità del segno, si tratta di risalire alle origini della umana locutio tracciando una genealogia degli atti di parola. Quale è stato il primissimo atto linguistico proferito nell’Eden prima della cacciata di Adamo ed Eva? Da quale evento di parola ha avuto origine il linguaggio? È proprio in questa parte della trattazione che dovremo rinvenire uno dei più decisivi elementi di "novità" che Dante rivendica nell’apertura del trattato. Il quarto capitolo del primo libro espone i termini della ricerca, e li scandisce come i sei punti di una vera e propria quaestio de primiloquio: dovremo stabilire a quale essere umano fu dato il linguaggio per primo, cosa disse la prima volta che parlò, a chi, dove e quando manifestò il suo primo atto linguistico, e in quale lingua esso fu proferito.
E se oggetto di tale quaestio è l’evento di parola che ha inaugurato il linguaggio, la ricerca dovrà necessariamente procedere attraverso una serrata interrogazione delle Scritture, una sorta di anamnesi in forma di commento alla Genesi. Il commento biblico fornisce pertanto la necessaria cornice a una domanda il cui luogo disciplinare e istituzionale è di competenza del teologo in quanto esegeta della Scritture. La ricerca "archeologica" sul linguaggio si configura come una anamnesi filogenetica attorno agli eventi che interessano il sesto giorno della creazione. In qualche modo Dante suggerisce che data la natura divina del linguaggio, dono del Creatore e icona del Verbo, tutto ciò che dobbiamo sapere sulla sua origine ci è dato immediate a Deo per revelationem, in conformità alla lezione degli scolastici. Inoltre, da un lato il commento esameronale ci fornisce la risposta alle domande sull’origine dell’umana locutio; dall’altro, esso ci permette anche di circoscrivere esattamente la peculiare natura del problema: altra è la questione dell’inizio della parola – della parole nell’accezione della linguistica saussuriana – altra la questione della struttura – afferente al piano del codice, ovvero della langue.

Tuttavia, il racconto biblico nella sua nuda letteralità non ci permette di rispondere con certezza a questi quesiti. Già se tentiamo di rispondere alla domanda su chi sia stato il primo essere umano ad esprimersi con la parola, il dettato della Genesi sembra contenere una palese incongruenza: infatti, il primo atto linguistico attestato risulta essere il dialogo intervenuto tra Eva e il serpente tentatore.
Ma come è possibile che l’umana locutio si sia manifestata fin dal principio sotto il segno della aversio a Deo?
Come è possibile che il primo atto di parola sia scaturito dalla presumptuosissimam Evam cum dyabolo sciscitanti (De vulgari eloquentia, I, iv 2)?
Dovremmo credere che un evento così nobile, quale dev’essere l’inizio del linguaggio umano, sia proceduto dalla donna indotta in tentazione piuttosto che dall’uomo nella sua integrità primordiale? Se la parola umana è icona del Verbo divino, è ammissibile l’ipotesi di un’origine "diabolica" della locutio? Ecco come suona la risposta dantesca:

Sed quanquam mulier in scriptis prius inveniatur locuta, rationabilius tamen est ut hominem prius locutum fuisse credamus, et inconvenienter putatur tam egregium humani generis actum non prius a viro quam a femina profluxisse. Rationabiliter ergo credimus ipsi Ade prius datum fuisse loqui ab Eo qui statim ipsum plasmaverat. Quid autem prius vox primi loquentis sonaverit, viro sane mentis in promptu esse non titubo ipsum fuisse quod "Deus" est, scilicet El (…) (De vulgari eloquentia I, iv, 3 – 4)


L’incalzante ricorrenza degli avverbi - rationabilius e rationabiliter - ci impone di non passare sotto silenzio l’aspetto più evidente del metodo dantesco. Il commento al libro della Genesi è una interrogazione del Revelatum sorretta da imprescindibili istanze razionali: per recuperare la memoria del primiloquium occorre procedere senza fermarsi alla lettera del dato scritturale nella sua ruvida immediatezza. In questo caso specifico, non ci soccorre nemmeno il metodo allegorico consacrato dalla tradizione. È necessario scavare nel silenzio delle Scritture per recuperare un evento sulla cui necessità nessuno può dubitare, benché non se ne diano testimonianze esplicite nella Genesi. Al silenzio delle Scritture deve corrispondere un impegno esegetico animato da criteri razionali, pur nel rispetto dei canoni della fede. Se ne conclude che vi è una sola risposta possibile alla domanda sull’origine del linguaggio: il primo atto linguistico non può che essere scaturito dal primo uomo, essendo illogico sostenere il contrario; Adamo, a sua volta, ha inaugurato il linguaggio umano con l’invocazione del Nome di Dio, in ebraico El.
In questo modo l’intervento esegetico di Dante si traduce in una sorta di interpolazione. Dovendo trattarsi di un actus locutionis, ovvero di un autentico atto di comunicazione, questo evento non può essere identificato con l’imposizione dei nomi descritta in Genesi 2, 19 – 20, dove si legge che Dio condusse gli animali al cospetto di Adamo "per vedere come li avrebbe chiamati". L’aspetto che maggiormente sorprende il lettore medievale del De vulgari eloquentia, come qualsiasi lettore in genere, è il fatto che in tutta la sua ricerca sull’origine del linguaggio effettuata col supporto della Genesi, Dante non dica nemmeno una parola sull’episodio dell’impositio nominum, nonostante l’importanza che esso riveste per l’intera tradizione teologica e per la metafisica medievale del segno. (...)

Quid autem prius vox primi loquentis sonaverit, viro sanae mentis in promptu esse non titubo ipsum fuisse quod "Deus" est, scilicet El, vel per modum interrogationis vel per modum responsionis. Absurdum atque rationi videtur orrificum ante Deum ab homine quicquam nominatum fuisse, cum ab ipso et in ipsum factus fuisset homo. (
De vulgari eloquentia I, iv, 4)



Sostenere che Adamo abbia iniziato a parlare nominando "qualcos’altro" che non fosse Dio è assurdo sotto il profilo teologico e insostenibile sul piano della ragione. Nessuno dubiterà del fatto che prima ancora di esprimersi comunicando con un’altra creatura, Adamo si sia rivolto direttamente al Creatore, essendo stato creato da Lui e per Lui, aggiunge Dante con un poliptoto che riecheggia un passo delle Epistole di San Paolo. Pertanto, l’actus locutionis originario con cui l’umanità, in Adamo, è nata al linguaggio, è l’invocazione del Nome di Dio. La lettera della Genesi contiene una sorta di ysteron-proteron, quando attesta che il primo atto comunicativo è il dialogo tra Eva e il serpente tentatore: una volta ripristinata la priorità temporale di Adamo su Eva, anche sotto il profilo della storia degli atti linguistici, possiamo ovviare alla "lacuna" della Scrittura.
L’invocazione del Nome di Dio da cui ha avuto origine il linguaggio umano è un episodio che può essere recuperato grazie a un’indagine razionale sorretta, e non contraddetta, dalla fede. Come nel Convivio, anche nel De vulgari non c’è discrepanza tra metodo teologico e via razionale. Il primiloquium dev’essere scaturito dal primus loquens creato dalla mano di Dio; il destinatario di tale atto linguistico è il Padre, Principio Primo di tutte le cose; essendo un evento di parola anteriore alla caduta di Adamo, e quindi non ancora oscurato dal peccato, è "primo", diremmo, in ratione nobilitatis; si tratta infine di un actus locutionis assolutamente semplice, la cui struttura precede l’articolazione discorsiva della frase ed esprime un affectus spontaneo che nasce dal gaudio e dalla gratitudine di Adamo. Nella simplicitas che lo contraddistingue, il Nome oggetto di invocazione ha un valore olofrastico, è il punctum in cui sembra concentrarsi l’essenza stessa della parola. Ricorrendo alla terminologia neoplatonica, potremmo dire che il punctum exclamationis dell’invocazione originaria "complica" in sè tutta la sfera del linguaggio umano: pertanto, la dimensione "verticale", che mette in relazione creatura e Creatore, risulta anteriore e fondante rispetto a qualsiasi comunicazione "orizzontale" tra creature dell’umana specie.

 

Dante in una miniatura del XIV secolo

 

 

 


 

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