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  2.0 I presupposti antropologici del De vulgari eloquentia di Dante
 
 


Incuneato tra la composizione dei primi tre libri del Convivio e la stesura del quarto, ubicato su un problematico piano di indagine in cui convergono filosofia del linguaggio, esegesi biblica, grammatica speculativa, retorica, e Ars poëtandi, spesso secondo intrecci imprevedibili e spiazzanti, il De vulgari eloquentia ripropone il tema della nobiltà dell’uomo secondo una prospettiva teorica consequenziale a quanto viene discusso nel trattato volgare. Dall’identificazione tra nobiltà dell’angelo e potenza speculativa del nostro intelletto, attuabile con l’esercizio della razionalità filosofica, si procede all’individuazione delle facoltà espressive tipiche dell’uomo, onde ribadire il concetto di una umanità non più vista sub specie damnationis, bensì come immagine radiosa del Padre. Nell’affermare questo legame di fondo tra i due trattati non si vuol certo sostenere la tesi di una pacifica continuità: le tensioni interne al De vulgari, sommate alle dissonanze che in molti punti lo oppongono al Convivio, ci danno il quadro di un pensiero in movimento, inquieto, forse intento a quella sistemazione definitiva che si darà soltanto con l’edificio della  Commedia.
E tuttavia,  quella medesima nozione di nobiltà attorno alla quale ruota l’impresa speculativa del Convivio – non la nobiltà di stirpe in senso feudale, bensì quella individuale, che deriva dall’esercizio della virtù e dall’abito del filosofare – diviene adesso il fondamento di una filosofia del linguaggio e di una  poetica che procede in forma di commento al libro della Genesi, sulla falsariga della tradizione esameronale. La cornice teologica dell’esegesi biblica, il rinvio ai topoi della tradizione patristico – scolastica, il costante richiamo al Filosofo fanno da sfondo a una ricerca presentata fin dall’incipit sotto il segno di una novitas che non riconosce precursori. Il presupposto su cui essa riposa rimanda alla consueta definizione aristotelica dell’uomo come zoon logon echon: ma l’aristotelismo dantesco si innesta di nuovo nel solco della metafisica della luce di ascendenza dionisiana secondo modalità già elaborate nel Convivio.

Sono gli scritti dello Pseudo – Dionigi Areopagita, insieme alle suggestioni del Liber de Causis, talora con la mediazione dei commenti di Alberto Magno, a costituire l’ossatura di quella metafisica della luce specificamente dantesca da cui deriveranno le più potenti costruzioni geometrico – narrative del Paradiso


Nel Convivio vi sono numerosi segnali premonitori che alludono a una imminente riflessione sulla natura del linguaggio, da condursi secondo quegli stessi principi che il trattato in volgare fa confluire nella teoria della beatitudine filosofica, affermando la natura angelica della mente umana. Non ci riferiamo soltanto alla celebre anticipazione circa il “prossimo trattato dell’eloquenza”, ma soprattutto a quei luoghi in cui il nesso tra razionalità ed espressione linguistica viene interpretato in riferimento alla natura “luminosa” della creatura umana:

Poi quando dico: E qual donna gentil questo non crede, pruovo questo per la esperienza che aver di lei [scil. la “divina virtude”] si può in quelle operazioni che sono proprie de l’anima razionale, dove la divina luce più espeditamente raggia; cioè nel parlare e ne li atti che reggimenti e portamenti sogliono esser chiamati. Onde è da sapere che solamente l’uomo intra li animali parla, e ha reggimenti e atti che si dicono razionali, però che solo elli ha in sé ragione.
(Convivio III, vii, 8)

La luce divina si diffonde con maggiore speditezza attraverso le operazioni che costituiscono il proprium della specie umana in quanto distinta dalla natura angelica e dal bruto. Questo passo del Convivio preannuncia il teorema soli homini datum fuisse loqui, che farà da perno ai primi capitoli del De vulgari. Il linguaggio è operazione tutta “nostra”, tipica dell’uomo in quanto essere dotato di logos e fornito di una mente atta a ricevere la virtù divina. Se l’attività creatrice della Sapienza eterna si esplica attraverso la Parola proferita “in principio”, la nobiltà del parlare umano consiste nel farsi mimesi partecipe del Verbo: attualizzando la propria entelechia esso diviene risplendente icona della parola divina. In quanto “animale linguistico” l’uomo riflette nella sua natura la stessa immagine del Padre Invisibile. Il rapporto di comunione tra Adamo e Dio, descritto nei primi capitoli del De vulgari eloquentia, definisce l’archetipo e il paradigma ideale di tale mimesi. 

Innanzitutto, occorre dimostrare il teorema secondo cui il linguaggio appartiene essenzialmente ed esclusivamente alla specie umana. Dante argomenta utilizzando la stessa cornice antropologica del Convivio: nella compagine del cosmo l’uomo, animale razionale, è l’essere intermedio tra l’angelo e la bestia. E il linguaggio, a sua volta, presuppone l’esistenza dell’uomo. Infatti, soltanto l’animale razionale è dotato di logos – inteso come sinolo del pensiero e della sua manifestazione linguistica: la mente umana concepisce idee che necessitano di un veicolo fisico per diventare “visibili” e comunicabili agli altri esseri della stessa specie

Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere: quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale esse oportuit. (…) Hoc equidem signum est ipsum subiectum nobile de quo loquimur: nam sensuale quid est in quantum sonus est; rationale vero in quantum aliquid significare videtur ad placitum.
(De vulgari eloquentia I, iii, 2 - 3)

Per motivi simmetricamente opposti, angeli e bruti sono estranei alla dimensione della parola, in quanto il loro universo comunicativo si trova, rispettivamente, al di sopra e al di sotto della soglia del linguaggio inteso come sistema di segni dove ad ogni signans sensibile corrisponde un signatum intelligibile: 

Si etenim perspicaciter consideramus quid cum loquimur intendamus, patet quod nichil aliud quam nostrae mentis enucleare aliis conceptum. Cum igitur angeli ad pandendas gloriosas eorum conceptiones habeant promptissimam atque ineffabilem sufficientiam intellectus, qua vel alter alteri totaliter innotescit per se, vel saltim per illud fulgentissimum Speculum in quo cuncti representantur pulcerrimi atque avidissimi speculantur, nullo signo locutionis indiguisse videntur.
(De vulgari eloquentia I, ii, 3)

Adottando  ancora una volta tesi eterodosse rispetto alla posizione tomistica, fondata sulla Auctoritas delle Epistole di San Paolo, Dante esclude l’esistenza di una “lingua degli angeli” e recupera, come hanno mostrato gli studi di Pier Vincenzo Mengaldo, affermazioni “che, significativamente, appartengono non alle soluzioni tomistiche ma alle obiezioni che l’Aquinate si formula”. Il “mezzo” linguistico, inteso come strumento di comunicazione, è fatto di un’anima razionale, il significato, e di un corpo materiale, il significante, stretti in un medesimo sinolo di materia e forma. Una volta affermata la priorità della dimensione comunicativa per definire l’essenza e la causa finale della locutio, la duplicità del segno diviene l’analogon  della natura umana.

Una volta definito il termine superiore di raffronto, l’utopia di una comunicazione assoluta e silenziosa, privilegio delle intelligenze angeliche, occorre prendere in esame l’estremo inferiore: la distopia del rumore letargico in cui è relegata la bestia priva del lume della ragione. In maniera simmetrica, si procede a dimostrare per quali motivi la natura, che mai nulla fa invano, non abbia dotato gli animali della capacità di linguaggio:

Inferioribus quoque animalibus, cum solo naturae instinctu ducantur, de locutione non oportuit provideri: nam omnibus eiusdem speciei sunt iidem actus et passiones, et sic possunt per proprios alienos cognoscere; inter ea vero quae diversarum sunt specierum non solum non necessaria fuit locutio, sed prorsus damnosa fuissset cum nullum amicabile commertium fuisset in illis.
(De vulgari eloquentia I, ii, 5)

Gli animali non hanno una individualità che emerga al di sopra della comune essenza tipica della specie di appartenenza. Essi conoscono “atti e passioni” degli altri esemplari a partire dalle proprie reazioni istintive, e non avendo concetti da esprimere in quanto privi di mens, la “fine e preziosissima” parte dell’anima umana che è “deitade”, non possono e non devono veicolare idee a un destinatario attraverso segni sensibili. Un presunto “linguaggio degli animali” sarebbe costituito da significanti privi di significato, materiale fonetico inarticolato dove non rifulge alcun lume di ragione. Angeli e bruti, pertanto, condividono una analoga estraneità alla dimensione della parola.
Gli assi cartesiani della cornice dantesca sono ancora una volta gli stessi del Convivio: l’afasia delle intelligenze celesti costituisce un autentico “aldilà” del linguaggio, la trascendenza dello specchio angelico sine macula, ineffabile, incorporeo e incorruttibile. All’estremo opposto troviamo l’“infanzia” del verso animale, rumore inarticolato che si colloca al di qua della dimensione del linguaggio. Tra questi due estremi, il silenzio della speculatio Dei e il rumore del suono inarticolato, si colloca la parola umana, quasi in uno stato di oscillazione o sospensione perpetua che solo la poesia sembra essere in grado di esplorare in tutta la sua ampiezza. Qualcuno potrebbe obiettare citando alcuni passi biblici in cui ricorrono casi di animali parlanti: in questo caso basta ricorrere alla lettura allegorica, mostrando che in quella fattispecie gli animali sono strumento delle potenze angeliche. E se prendiamo in considerazione i casi di imitazione della voce umana da parte di animali come ad esempio le gazze, possiamo renderci conto del fatto che tali bestie si limitano alla riproduzione del dato fonetico avulso da una qualsivoglia espressione semantica. Il verso dell’animale, anche quando riproduce la voce umana, non è mai signum di un contenuto intelligibile: è pura vibrazione asemantica, evento acustico decaduto a rumore. Resta un ultimo corollario da trarre. Gli uomini non possono intendersi per intuizione intellettuale in quanto il loro spirito è occultato dallo spessore opaco del corpo; d’altro canto le loro vicende comunicative non avvengono “per atti e passioni”, alla stregua degli animali. Pertanto, la razionalità che riluce nell’anima di ogni singolo individuo costituisce un fattore di differenziazione tale da indurci ad affermare che ogni essere umano costituisce quasi una specie a sé:

Cum igitur homo non naturae instinctu sed ratione moveatur, et ipsa ratio vel circa discretionem vel circa iudicium vel circa electionem diversificetur in singulis, adeo ut fere quilibet sua propria specie videatur gaudere, per proprios actus el passiones, ut brutum animal, neminem alium intelligere opinamur. Nec per spiritualem speculationem, ut angelum, alterum alterum introire contingit, cum grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus spiritus sit obtectus
(De vulgari eloquentia I, iii, 1)

Dante in una miniatura del XIV secolo

 

 

 


 

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