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Incuneato tra la
composizione dei primi tre libri del Convivio e la stesura del
quarto, ubicato su un problematico piano di indagine in cui convergono
filosofia del linguaggio, esegesi biblica, grammatica speculativa, retorica,
e Ars poëtandi, spesso secondo intrecci imprevedibili e spiazzanti,
il De vulgari eloquentia ripropone il tema della nobiltà dell’uomo
secondo una prospettiva teorica consequenziale a quanto viene discusso
nel trattato volgare. Dall’identificazione tra nobiltà dell’angelo e
potenza speculativa del nostro intelletto, attuabile con l’esercizio
della razionalità filosofica, si procede all’individuazione delle facoltà
espressive tipiche dell’uomo, onde ribadire il concetto di una umanità
non più vista sub specie damnationis, bensì come immagine radiosa
del Padre. Nell’affermare questo legame di fondo tra i due trattati
non si vuol certo sostenere la tesi di una pacifica continuità: le tensioni
interne al De vulgari, sommate alle dissonanze che in molti punti
lo oppongono al Convivio, ci danno il quadro di un pensiero in
movimento, inquieto, forse intento a quella sistemazione definitiva
che si darà soltanto con l’edificio della Commedia.
E tuttavia, quella medesima nozione di nobiltà attorno alla quale
ruota l’impresa speculativa del Convivio – non la nobiltà di
stirpe in senso feudale, bensì quella individuale, che deriva dall’esercizio
della virtù e dall’abito del filosofare – diviene adesso il fondamento
di una filosofia del linguaggio e di una poetica che procede in
forma di commento al libro della Genesi, sulla falsariga della
tradizione esameronale. La cornice teologica dell’esegesi biblica, il
rinvio ai topoi della tradizione patristico – scolastica, il costante
richiamo al Filosofo fanno da sfondo a una ricerca presentata fin dall’incipit
sotto il segno di una novitas che non riconosce precursori. Il
presupposto su cui essa riposa rimanda alla consueta definizione aristotelica
dell’uomo come zoon logon echon: ma l’aristotelismo dantesco
si innesta di nuovo nel solco della metafisica della luce di ascendenza
dionisiana secondo modalità già elaborate nel Convivio.
Sono gli scritti dello Pseudo – Dionigi Areopagita, insieme alle suggestioni
del Liber de Causis, talora con la mediazione dei commenti di
Alberto Magno, a costituire l’ossatura di quella metafisica della luce
specificamente dantesca da cui deriveranno le più potenti costruzioni
geometrico – narrative del Paradiso.
Nel Convivio vi sono numerosi segnali
premonitori che alludono a una imminente riflessione sulla natura del
linguaggio, da condursi secondo quegli stessi principi che il trattato
in volgare fa confluire nella teoria della beatitudine filosofica, affermando
la natura angelica della mente umana. Non ci riferiamo soltanto alla
celebre anticipazione circa il “prossimo trattato dell’eloquenza”, ma
soprattutto a quei luoghi in cui il nesso tra razionalità ed espressione
linguistica viene interpretato in riferimento alla natura “luminosa”
della creatura umana:
Poi quando dico: E
qual donna gentil questo non crede, pruovo questo per la esperienza
che aver di lei [scil. la “divina virtude”] si può in quelle
operazioni che sono proprie de l’anima razionale, dove la divina luce
più espeditamente raggia; cioè nel parlare e ne li atti che reggimenti
e portamenti sogliono esser chiamati. Onde è da sapere che solamente
l’uomo intra li animali parla, e ha reggimenti e atti che si dicono
razionali, però che solo elli ha in sé ragione.
(Convivio III, vii, 8)
La luce divina si diffonde con maggiore speditezza attraverso le operazioni
che costituiscono il proprium della specie umana in quanto
distinta dalla natura angelica e dal bruto. Questo passo del Convivio
preannuncia il teorema soli homini datum fuisse loqui,
che farà da perno ai primi capitoli del De vulgari. Il linguaggio
è operazione tutta “nostra”, tipica dell’uomo in quanto essere dotato
di logos e fornito di una mente atta a ricevere la virtù divina.
Se l’attività creatrice della Sapienza eterna si esplica attraverso
la Parola proferita “in principio”, la nobiltà del parlare umano consiste
nel farsi mimesi partecipe del Verbo: attualizzando la propria entelechia
esso diviene risplendente icona della parola divina. In quanto “animale
linguistico” l’uomo riflette nella sua natura la stessa immagine del
Padre Invisibile. Il rapporto di comunione tra Adamo e Dio, descritto
nei primi capitoli del De vulgari eloquentia, definisce
l’archetipo e il paradigma ideale di tale mimesi.
Innanzitutto, occorre dimostrare il teorema secondo cui il
linguaggio appartiene essenzialmente ed esclusivamente alla
specie umana. Dante argomenta utilizzando la stessa cornice
antropologica del Convivio: nella compagine del cosmo l’uomo,
animale razionale, è l’essere intermedio tra l’angelo e la bestia.
E il linguaggio, a sua volta, presuppone l’esistenza dell’uomo. Infatti,
soltanto l’animale razionale è dotato di logos
– inteso come sinolo del pensiero e della sua manifestazione linguistica:
la mente umana concepisce idee che necessitano di un veicolo fisico
per diventare “visibili” e comunicabili agli altri esseri della stessa
specie
Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas
aliquod rationale signum et sensuale habere: quia, cum de ratione accipere
habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de una
ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale
esse oportuit. (…) Hoc equidem signum est ipsum subiectum nobile de
quo loquimur: nam sensuale quid est in quantum sonus est; rationale
vero in quantum aliquid significare videtur ad placitum.
(De vulgari eloquentia I, iii, 2
- 3)
Per
motivi simmetricamente opposti, angeli e bruti sono estranei alla dimensione
della parola, in quanto il loro universo comunicativo si trova, rispettivamente,
al di sopra e al di sotto della soglia del linguaggio inteso come sistema
di segni dove ad ogni signans sensibile corrisponde un signatum
intelligibile:
Si etenim perspicaciter consideramus quid cum
loquimur intendamus, patet quod nichil aliud quam nostrae mentis enucleare
aliis conceptum. Cum igitur angeli ad pandendas gloriosas eorum conceptiones
habeant promptissimam atque ineffabilem sufficientiam intellectus, qua
vel alter alteri totaliter innotescit per se, vel saltim per illud fulgentissimum
Speculum in quo cuncti representantur pulcerrimi atque avidissimi speculantur,
nullo signo locutionis indiguisse videntur.
(De vulgari eloquentia I, ii, 3)
Adottando ancora una volta tesi eterodosse
rispetto alla posizione tomistica, fondata sulla Auctoritas delle
Epistole di San Paolo, Dante esclude l’esistenza di una “lingua
degli angeli” e recupera, come hanno mostrato gli studi di
Pier Vincenzo Mengaldo, affermazioni “che, significativamente, appartengono
non alle soluzioni tomistiche ma alle obiezioni che l’Aquinate si
formula”. Il “mezzo” linguistico, inteso come strumento di comunicazione,
è fatto di un’anima razionale, il significato, e di un corpo materiale,
il significante, stretti in un medesimo sinolo di materia e forma.
Una volta affermata la priorità della dimensione comunicativa per
definire l’essenza e la causa finale della locutio, la duplicità
del segno diviene l’analogon della
natura umana.
Una volta definito il termine
superiore di raffronto, l’utopia di una comunicazione assoluta
e silenziosa, privilegio delle intelligenze angeliche, occorre prendere
in esame l’estremo inferiore: la distopia del rumore letargico
in cui è relegata la bestia priva del lume della ragione. In
maniera simmetrica, si procede a dimostrare per quali motivi la natura,
che mai nulla fa invano, non abbia dotato gli animali della capacità
di linguaggio:
Inferioribus quoque animalibus, cum solo
naturae instinctu ducantur, de locutione non oportuit provideri: nam
omnibus eiusdem speciei sunt iidem actus et passiones, et sic possunt
per proprios alienos cognoscere; inter ea vero quae diversarum sunt
specierum non solum non necessaria fuit locutio, sed prorsus damnosa
fuissset cum nullum amicabile commertium fuisset in illis.
(De vulgari eloquentia I, ii, 5)
Gli animali non hanno una individualità che emerga al di sopra
della comune essenza tipica della specie di appartenenza. Essi conoscono
“atti e passioni” degli altri esemplari a partire dalle
proprie reazioni istintive, e non avendo concetti da esprimere in
quanto privi di mens, la “fine e preziosissima” parte
dell’anima umana che è “deitade”, non possono
e non devono veicolare idee a un destinatario attraverso segni sensibili.
Un presunto “linguaggio degli animali” sarebbe costituito
da significanti privi di significato, materiale fonetico inarticolato
dove non rifulge alcun lume di ragione. Angeli
e bruti, pertanto, condividono una analoga estraneità alla
dimensione della parola.
Gli assi cartesiani della cornice dantesca sono ancora una volta gli
stessi del Convivio: l’afasia delle intelligenze celesti
costituisce un autentico “aldilà” del linguaggio,
la trascendenza dello specchio angelico sine macula, ineffabile, incorporeo
e incorruttibile. All’estremo opposto troviamo l’“infanzia”
del verso animale, rumore inarticolato che si colloca al di qua della
dimensione del linguaggio. Tra questi due estremi, il silenzio della
speculatio Dei e il rumore del suono inarticolato, si colloca la parola
umana, quasi in uno stato di oscillazione o sospensione perpetua che
solo la poesia sembra essere in grado di esplorare in tutta la sua
ampiezza. Qualcuno potrebbe obiettare citando alcuni passi biblici
in cui ricorrono casi di animali parlanti: in questo caso basta ricorrere
alla lettura allegorica, mostrando che in quella fattispecie gli animali
sono strumento delle potenze angeliche. E se prendiamo in considerazione
i casi di imitazione della voce umana da parte di animali come ad
esempio le gazze, possiamo renderci conto del fatto che tali bestie
si limitano alla riproduzione del dato fonetico avulso da una qualsivoglia
espressione semantica. Il verso dell’animale, anche quando riproduce
la voce umana, non è mai signum di un contenuto intelligibile:
è pura vibrazione asemantica, evento acustico decaduto a rumore.
Resta un ultimo corollario da trarre. Gli uomini non possono intendersi
per intuizione intellettuale in quanto il loro spirito è occultato
dallo spessore opaco del corpo; d’altro canto le loro vicende
comunicative non avvengono “per atti e passioni”, alla
stregua degli animali. Pertanto, la razionalità che riluce
nell’anima di ogni singolo individuo costituisce un fattore
di differenziazione tale da indurci ad affermare che ogni essere umano
costituisce quasi una specie a sé:
Cum igitur homo non naturae instinctu sed ratione
moveatur, et ipsa ratio vel circa discretionem vel circa iudicium
vel circa electionem diversificetur in singulis, adeo ut fere quilibet
sua propria specie videatur gaudere, per proprios actus el passiones,
ut brutum animal, neminem alium intelligere opinamur. Nec per spiritualem
speculationem, ut angelum, alterum alterum introire contingit, cum
grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus spiritus sit obtectus
(De vulgari eloquentia I, iii, 1)
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