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  1.0 introduzione alla "filosofia" di Dante
 
 
Si è spesso sollevata la questione di se e quanto sia legittimo parlare di una “filosofia dantesca”. Quando l’obiezione non viene posta presupponendo l’astratta separazione tra “poesia” e “pensiero”, la storiografia ufficiale per lo più oscilla tra due atteggiamenti. Da una parte vi è chi continua a difendere l’idea rassicurante di un Dante seguace ortodosso di Tommaso d’Aquino. Dall’altra vi è chi, pur constatando l’impossibilità di ridurre ad una sola fonte il pensiero dantesco nella sua totalità, a partire dallo sperimentalismo della Vita Nuova fino alle possenti costruzioni speculative del Paradiso, propende per l’immagine di un Dante eclettico, capace di eseguire anche complesse manovre compilative, ma senza mai distinguersi come “autore” con un “sistema” originale e una individualità che permetta di inserirlo a pieno titolo all’interno di una storia della filosofia.

Dante secondo Luca Signorelli

La lettura del Convivio e del De vulgari eloquentia ci fornisce elementi determinanti per rispondere alla domanda circa l’esistenza di una “filosofia dantesca”. I due trattati, composti nei primi anni del Trecento, costituiscono i momenti complementari di un medesimo laboratorio speculativo al crocevia tra Medioevo e Umanesimo. Il Convivio procede dall’elaborazione di un modello antropologico dove la nobiltà dell’uomo e della speculazione filosofica viene fondata sulla concezione metafisica della mente umana come “raggio” dell’infinita Sapienza divina. Il De vulgari eloquentia, traduce questi presupposti in una teoria del segno linguistico finalizzata a rivendicare la nobiltà di quelle attività espressive che costituiscono il “proprio” della specie umana: linguaggio e poesia. Da un lato, Dante si appropria dei metodi della quaestio filosofica impostando i problemi con severo rigore argomentativo, e dimostrando una completa padronanza delle tecniche scolastiche; dall'altro, adotta come habitus mentale il commento, anche là dove esso risulta meno evidente sotto il profilo della veste letteraria. Muovendosi su questo doppio registro tipicamente medievale, Dante adotta una strategia che in parte fa sua la logica del principio di autorità, ma che poi si sbilancia verso posizioni eterodosse talora vicine alle tesi dei cosiddetti “averroisti latini”, i maestri della Facoltà delle arti di Parigi colpiti dalla condanna del vescovo Etienne Tempier nel 1277. Su due di loro in particolare, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, si sono soffermate le ricerche più recenti. Dal primo Dante ricaverebbe l’identificazione tra Dio e l’intelletto agente, Luce che irradia sulla mente umana le forme universali dell’essere conoscibili attraverso “l’amoroso uso di sapienza”, formula coniata dal Convivio per indicare lo studio della metafisica. Dal secondo deriverebbe l’idea di una grammatica universale soggiacente alla struttura di tutti gli idiomi umani, una teoria fondamentale nell’ambito della “grammatica speculativa”, di cui Boezio di Dacia fu forse il principale esponente, e che sarà alla base della “semiologia” del De vulgari eloquentia. Ma ciò che sembra costituire la cifra caratteristica del pensiero di Dante è la sua capacità di far coesistere nella propria opera posizioni filosofiche provenienti da pensatori che spesso si sono combattuti. Le lodi a Sigieri di Brabante e a Gioacchino da Fiore che nei canti X e XII del Paradiso vengono innalzate dai rispettivi “nemici” di vita mortale – Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio – vanno considerate come il segnale di un atteggiamento che in Dante assurge fin dai tempi del Convivio a paradigma ideale e metodologico: la filosofia come dialogo che trascende sia le divisioni di scuola che le differenze di confessione religiosa.
 
 

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