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Si
è spesso sollevata la questione di se e quanto sia legittimo
parlare di una “filosofia dantesca”. Quando l’obiezione
non viene posta presupponendo l’astratta separazione tra “poesia”
e “pensiero”, la storiografia ufficiale per lo più
oscilla tra due atteggiamenti. Da una parte vi è chi continua
a difendere l’idea rassicurante di un Dante seguace ortodosso
di Tommaso d’Aquino. Dall’altra
vi è chi, pur constatando l’impossibilità di ridurre
ad una sola fonte il pensiero dantesco nella sua totalità, a
partire dallo sperimentalismo della Vita Nuova fino alle possenti
costruzioni speculative del Paradiso, propende per l’immagine
di un Dante eclettico, capace di eseguire anche complesse manovre compilative,
ma senza mai distinguersi come “autore” con un “sistema”
originale e una individualità che permetta di inserirlo a pieno
titolo all’interno di una storia della filosofia.
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La
lettura del Convivio e del De
vulgari eloquentia ci fornisce elementi determinanti per
rispondere alla domanda circa l’esistenza di una “filosofia
dantesca”. I due trattati, composti nei primi anni del Trecento,
costituiscono i momenti complementari di un medesimo laboratorio speculativo
al crocevia tra Medioevo e Umanesimo. Il Convivio procede dall’elaborazione
di un modello antropologico dove la nobiltà dell’uomo e
della speculazione filosofica viene fondata sulla concezione metafisica
della mente umana come “raggio” dell’infinita Sapienza
divina. Il De vulgari eloquentia, traduce questi presupposti
in una teoria del segno linguistico finalizzata a rivendicare la nobiltà
di quelle attività espressive che costituiscono il “proprio”
della specie umana: linguaggio e poesia. Da un lato, Dante si appropria
dei metodi della quaestio filosofica impostando i problemi
con severo rigore argomentativo, e dimostrando una completa padronanza
delle tecniche scolastiche; dall'altro, adotta come habitus mentale
il commento, anche là dove esso risulta meno evidente sotto il
profilo della veste letteraria. Muovendosi su questo doppio registro
tipicamente medievale, Dante adotta una strategia che in parte fa sua
la logica del principio di autorità, ma che poi si sbilancia
verso posizioni eterodosse talora vicine alle tesi dei cosiddetti “averroisti
latini”, i maestri della Facoltà delle arti di Parigi colpiti
dalla condanna del vescovo Etienne Tempier
nel 1277. Su due di loro in particolare, Sigieri
di Brabante e Boezio di Dacia, si
sono soffermate le ricerche più recenti. Dal primo Dante ricaverebbe
l’identificazione tra Dio e l’intelletto agente, Luce che
irradia sulla mente umana le forme universali dell’essere conoscibili
attraverso “l’amoroso uso di sapienza”, formula coniata
dal Convivio per indicare lo studio della metafisica. Dal secondo
deriverebbe l’idea di una grammatica universale soggiacente alla
struttura di tutti gli idiomi umani, una teoria fondamentale nell’ambito
della “grammatica speculativa”, di cui Boezio di Dacia fu
forse il principale esponente, e che sarà alla base della “semiologia”
del De vulgari eloquentia. Ma ciò che sembra costituire
la cifra caratteristica del pensiero di Dante è la sua capacità
di far coesistere nella propria opera posizioni filosofiche provenienti
da pensatori che spesso si sono combattuti. Le lodi a Sigieri di Brabante
e a Gioacchino da Fiore che nei canti X
e XII del Paradiso vengono innalzate dai rispettivi “nemici”
di vita mortale – Tommaso d’Aquino e Bonaventura
da Bagnoregio – vanno considerate come il segnale di un
atteggiamento che in Dante assurge fin dai tempi del Convivio a paradigma
ideale e metodologico: la filosofia come dialogo che trascende sia le
divisioni di scuola che le differenze di confessione religiosa. |