È
raro trovare racconti di episodi accaduti nei primissimi anni di vita, poiché
normalmente non sono tanti i ricordi che sopravvivono a quell’età.
Ho
tentato di radunare quelli che ritengo più completi e più significativi,
raccontandoli in prima persona, per illustrare come un bambino inizia a vedere
il mondo. Gli episodi sono necessariamente scollegati, senza un filo
conduttore: la si direbbe una rapsodia di ricordi.
Qua e là ho inserito
dei commenti, provenienti dall’età adulta, per meglio illustrare sentimenti e
situazioni, e ho condito il tutto con una sottile ironia per evidenziare
quanto il mondo fosse diverso sessant’anni fa.
Confesso peraltro che
scrivendo mi sono tolto qualche sassolino dalla scarpa!
Dai racconti
emerge la smentita dell’opinione che i bambini piccoli abbiano limiti di
comprensione: capiscono tutto, ma a modo loro. E tutto quello che capiscono ha
un’influenza sul loro futuro.
Questo
bambino sembra ricordare soprattutto episodi negativi. È normale: un bambino
piccolo dà per scontato che tutto proceda a suo favore e non sopporta le
frustrazioni. Pertanto rileva e ricorda principalmente gli eventi che lo hanno
contrariato, che considera eccezioni da rettificare, e dimentica i fatti
positivi, che secondo lui dovrebbero essere la regola.
Sarà
la maturazione a fargli capire che buono e cattivo non sono mai nettamente
distinti, ma formano un nodo inestricabile.
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L’autore all’età dei racconti:
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Sono nato nel
ghiaccio.
È metà dicembre e
fuori nevica, come succedeva sempre, una volta, in dicembre.
Sono nato in
casa, come si usava allora, poiché nascere in un ospedale era considerato più
rischioso. A riprova di ciò, non più di sei mesi prima una delle mie zie aveva
perso la bambina per un’infezione contratta all’ospedale.
Succedeva
spesso, e lo consideravano normale. Succede anche oggi, e la chiamano
malasanità, ma la percezione del rischio è cambiata, o forse è diminuito il
rischio.
La
mamma aspetta il suo momento sul tavolo di cucina, quello freddo con la lastra
di marmo, che è l’attrezzatura migliore di cui si dispone. Racconterà in
seguito che sentiva male più per i crampi alle gambe dovuti al freddo che per
le doglie.
Le
cose vanno per le lunghe e non si mettono bene. La levatrice diventa nervosa.
Si prende la decisione di chiamare un medico.
Le
mie zie si dividono in tre gruppi: quella curiosa, che se ne sta vicino al
tavolo e non vuole perdere neppure un attimo della scena; quella della bambina
morta, che sta gufando a casa sua, con l’aria di chi sa già come finiscono
queste cose, e quella che si aggira ansiosa in cortile senza il coraggio di
guardare né di chiedere, e scoppia a piangere all’arrivo dell’ambulanza.
Finalmente arriva
il medico che decide di usare il forcipe: in pratica mi afferrano la testa con
un pinzone, all’altezza delle orecchie, e mi estraggono senza tanti
complimenti.
E se il bambino ne
patisce o subisce un danno, chissenefrega, ne faranno un altro!
Ora – dico io
– per estrarmi con le pinze c’era bisogno di aspettare 30 ore? Tuttora rimane
per me un mistero.
Una volta
estratto, immagino che avranno usato quei pentoloni con “tanta acqua calda” che
ci sono sempre nei film quando deve nascere un bambino d’urgenza e che forse il
medico avrà bevuto quel “caffè nero” che bolle sempre sulla stufa a favore del
dottore, se questi dovesse presentarsi ubriaco.
Ma qui sembra di
essere nel film Ombre rosse. Riconosco che non sarebbe corretto
considerare questo film alla stregua di un documentario sulle migliori
procedure ostetriche.
Di solito si prende a
ceffoni il bambino appena nato per farlo piangere e favorire la respirazione.
Niente di più inutile: piango già per conto mio e con un volume che non
promette notti tranquille per nessuno.
Leopardi
teorizzava che i bambini piangano per lo sgomento e che tutti attorno si
affannino a consolarli “dell’essere nati”.
Io peso circa quattro
chili, ma piango forte. Sarebbe stata la mia caratteristica per almeno due
anni.
E per due anni i miei
genitori avrebbero fatto i turni per tentare di calmarmi. Turni anche di notte,
visto che i vicini, dopo qualche mese di sopportazione, si erano fatti
minacciosi.
E
la mamma va in strada col fagotto urlante, e incontra il nonno che rientra alle
sei dal turno di notte alla Pirelli.
E va da don
Agostino, in chiesa, a scongiurarlo che faccia un esorcismo o qualche
diavoleria che senz’altro lui conosce, per far morire almeno uno dei due, o me
o la mamma, tanto la faccenda è diventata insopportabile.
E don
Agostino in confessione avrebbe avuto il coraggio di rifiutare l’assoluzione
alla mamma che, a domanda, dichiara di non desiderare altri
figli. Lei avrebbe successivamente ottenuto l’assoluzione dai frati, che
sembrano comprendere meglio i fatti della vita.
Si racconta che il
solo modo di calmarmi fosse prendermi in braccio e scuotermi la testa con un
certo vigore. Altro che “sindrome del bambino scosso”!
Sarei
potuto morire, se solo avessi saputo che esisteva una sindrome simile.
Fin verso i due anni
anche il famigerato “ciuccio” è un buon rimedio. Ma bisogna essere svelti e
usarlo con maestria.
La bocca per
restare silenziosa deve essere costantemente occupata: pertanto dal momento in
cui esce il cucchiaio della pappa a quando subentra il ciuccio non può passare
più di una frazione di secondo. E spesso la sequenza dei fatti segue questo
schema: cucchiaio – uaaahhh – ciuccio – uaaahhh – cucchiaio – uaaahhh – ciuccio
e così via.
Piango anche
quando lo zio barbiere mi taglia i capelli. Però qui ho ragione io: lui usa le
forbici con i denti per sfoltire e la macchinetta per fare la sfumatura dietro
il collo. Questi attrezzi infernali per tagliare un capello ne strappano due!
Ricordo che all’età di due anni il ciuccio, imprudentemente
non legato, scivola nel WC. Grande tragedia, sembrerebbe, ma invece niente. Non
faccio una piega. Me ne comprano uno nuovo in farmacia, ma non mi piace. Non sa
di gomma usata come quello vecchio e rinuncio per sempre. Evidentemente i tempi
sono maturi.
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Piangevo spesso
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esso il male di
vivere ho incontrato
era il rivo
strozzato che gorgoglia
era
l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il
cavallo stramazzato.
Eugenio
Montale, Spesso il male di vivere (Ossi di seppia)
Ricordo, nonostante la
tenerissima età, che il freddo – di cui peraltro non soffrivo – era l’elemento dominante.
Forse il clima era
davvero differente. C’era neve dappertutto per molte settimane all’anno e il
ghiaccio la faceva da padrone, anche in casa.
Io non l’ho mai visto,
ma si racconta che mio nonno si svegliasse al mattino con i baffi brinati e
dovesse rompere il ghiaccio nel catino per lavarsi. E questo in casa! Avrei
rivisto la scena anni dopo in un film con Renato Pozzetto: ma era una gag, non
un fatto di cronaca.
Più grande mi sarei
trovato a ragionare: quale motivo c’era di pagare un affitto, se in casa faceva
freddo come fuori?
Le finestre non
avevano i vetri spessi che si usano oggi e il telaio era approssimativo. Ma ci
pensava il ghiaccio a renderlo ermetico. Da ottobre a maggio non si poteva
aprire.
Ricordo un medico,
intervenuto per una delle tante malattie da freddo, che tuona: “Perdio! Aprite
questa finestra! Non si respira. Come si può guarire in questa stalla?”.
E tutti a strattonare
la finestra, che non cede, neppure dopo un trattamento al telaio a base di
giornali accesi per sciogliere il ghiaccio tutt’intorno. È aprile!
Come dicevo sopra, non
ricordo di avere sofferto per il freddo. Forse ero ben termoregolato, come lo
sono per natura i bambini piccoli. Il mio primo ricordo del freddo sarebbe
arrivato solo alcuni anni dopo, in vacanza, quando il mare di Liguria, anche in
luglio, era gelato come l’acqua di un torrente di montagna.
Ancora
oggi è difficile che senta freddo e non ricordo l’ultimo raffreddore. Forse il
fatto di nascere nel ghiaccio mi ha reso immune?
Non sento il
freddo, comunque qualcosa deve essere andato storto, perché alla fine del primo
anno mi viene diagnosticata una polmonite.
Potevo morire, ma non
è il mio momento e mi curano con i sulfamidici, visto che gli antibiotici non
sono ancora di (ab)uso comune. Passa la polmonite, ma i sulfamidici mi
provocano una nefrite.
Potevo morire, ma non
è il mio momento. Il medico alla fine mi trova sanissimo e io, per dimostrarlo,
lo gratifico di uno spruzzo potentissimo di pipì che gli inzuppa generosamente
il camice, ed è la prova gioiosa che i miei reni funzionano bene.
Più grande
avrei chiesto alla mamma qual era la logica di far nascere i bambini d’inverno,
visto che gli animali lo fanno in primavera, potendo contare su un clima
favorevole e cibo più abbondante, appena per pochi mesi, ma sufficienti a
togliere dal pericolo i cuccioli appena nati.
La mamma risponde:
“Gli animali lo fanno perché sono guidati solo dall’istinto. Gli uomini possono
far nascere i bambini in qualunque stagione perché sono intelligenti”.
Ah,
ecco: è per l’intelligenza!
E aggiunge: “E poi
pensa a Gesù bambino. Lo dice anche la canzone: Tu scendi dalle stelle… e vieni
in una grotta al freddo e al gelo”.
Molti anni
dopo, armato di cognizioni elementari di fisica, avrei fatto questa
riflessione: nella grotta, tra buoi, asinelli, madonne e santi c’erano almeno
1500 chili di materiale biologico radiante che avrebbero emesso non meno di
1500 watt di calore. Una bella stufetta, in quella grotta; senza considerare
che le pareti di roccia sono isolanti molto migliori delle pareti in muratura.
Molti e molti
anni dopo, tra il serio e il faceto, avrei anche osato chiederle per quale
motivo mi abbia messo al mondo. Domando: “Per egoismo o per lussuria?”,
tendendole una trappola, visto che non avrebbe potuto rispondere né per l’uno
né per l’altra, ma si rende conto che non possono esserci altre ragioni
possibili. Avrà pure avuto uno scopo. Di solito, i genitori mettono al mondo i
figli sperando di ricavarne delle soddisfazioni. E questo è egoismo.
Tanti preti inveiscono
contro i genitori egoisti che non fanno figli e penso: chi mette al
mondo un figlio è altruista nei confronti di chi?
Mi si eccepisce: ma
la vita è un dono! E allora? È tutto da dimostrare che solo per questo sia
una cosa positiva. Se vi donassi un coccodrillo sareste contenti?
E che dire di quelle
vite spese dentro e fuori di galera, dentro e fuori degli ospedali? E la fame,
e le guerre? Ancora oggi, e siamo nel migliore dei mondi dall’inizio
dell’umanità, più del 90% delle persone non vive felicemente.
Chi “dona” la
vita sfida il destino sulla pelle di chi ancora non c’è e non si sa se
vorrebbe. Chi “ama la vita” ami pure la sua, ma non coinvolga altri che
potrebbero non essere d’accordo.
Non v’è chi non veda
come le piaghe che affliggono l’umanità siano in ultima istanza riconducibili
alla sovrappopolazione. Purtroppo, fatti bene i conti, non è vero che dividendo
equamente le risorse ce ne sarebbe per tutti: saremmo tutti equamente
miserabili.
Se ripartissimo
equamente il PIL mondiale, a ciascuno spetterebbe il bel reddito di 500 Euro al
mese! E non c’è tecnologia o Provvidenza che tenga per cambiare questo numero.
Ha ragione il Vangelo: “I poveri saranno sempre tra voi”. A poco serve vendere
il superfluo e donarlo ai poveri, come suggerisce Giuda.
Torna in
mente ancora una volta De André che fa dire a Tito, il ladrone buono, impegnato
sulla croce in una personalissima esegesi dei comandamenti:
cioè
non disperdere il seme.
Feconda
una donna ogni volta che l'ami
così
sarai uomo di fede.
Poi
la voglia svanisce e il figlio rimane
e
tanti ne uccide la fame.
Io
forse ho confuso il piacere e l'amore
ma non ho creato dolore.
Ma i tempi cambiano e
perfino papa Francesco oggi consiglia di smettere di comportarsi come conigli.
E non si riferisce alla vigliaccheria.
In definitiva, penso
che sia una spaventosa responsabilità fare il “dono della vita” a chi non c’è,
senza possibilità di chiedergli, dopo avergli illustrato in modo obiettivo e
nei dettagli tutto ciò che dovrà affrontare, se è d’accordo di sopportare
quello che Eugenio Montale chiama il male di vivere e attraversare la valle
di lacrime a bordo dell’atomo opaco del male escogitato da Giovanni
Pascoli.
Non si chiede neppure
ai fratelli che già ci sono se sia il caso di prendere a bordo un altro
marinaio con cui dividere risorse e affetti.
Accudire alla stufa
costituisce la massima occupazione per tutti.
Non
che venisse arroventata e ci fosse pericolo di esplosione: tutt’altro. Ma
bisogna pur tenerla accesa, come proforma o per forza, almeno per cucinare.
Inoltre
c’è il problema di far asciugare i 21 pannolini, tutti di tela e lavati a mano,
che io consumo ogni giorno.
Il rapporto dei miei
genitori con la stufa non è mai stato buono. Accenderla è sempre un problema
e “farle passare la notte” lo è ancora di più.
I tubi devono
essere puliti frequentemente dalla fuliggine. E la fuliggine è indice di
cattiva combustione e, in definitiva, di bassa temperatura. Alla pulizia dei
tubi sembra logico dedicare la domenica mattina; a partire dalle sei, tutti in
cortile a percuotere i tubi, con gran fracasso. Ed è l’unico momento in cui si
potrebbe dormire un po’ di più.
Per “farle passare la
notte” ci vuole il carbone. E qui sorgono altri problemi. Ricordo la mamma che,
studiando il momento migliore, ma comunque con una certa apprensione, diceva: “Ernesto,
ghe sarìa una robba…” (ci sarebbe una cosa…). E lui: “Me pareva de
savell! Gh’è de andà ancamò a tœ el carbun in sül surè!” (mi sembrava di
saperlo. Bisogna andare di nuovo a prendere il carbone in solaio).
Si accinge di
malavoglia all’odiata incombenza. E alfine rientra con una cesta di carbone che
gli mortifica il corpo e gli peggiora il carattere.
Non ho mai capito il
motivo per cui, visto che il trasporto lo affatica tanto, si ostini a fare un
carico di 40 chili, quando avrebbe potuto fare due viaggi da 20 o anche tre da
15, molto più agevoli. Fatto sta che dopo l’ “operazione carbone” è meglio
essere molto prudenti con lui.
Anch’io traffico col
carbone. Ne prendo alcuni pezzetti e li infilo nel cassettino del mio sgabello
a imitazione dell’introduzione nella stufa o, forse, per stimolare i miei a
compiere la suddetta operazione con una più giusta frequenza.
Ricordo che talvolta
ne mangiavo un pezzetto. Si dice che quando i bambini mangiano cose come la
terra o l’intonaco dei muri lo fanno per procurarsi i minerali necessari o per
carenze alimentari.
Non è il mio caso. Mi
avvicino allo scadere del primo anno vantando un peso di 13 chili. E a due anni
già pago il biglietto del tram, poiché supero la tacca rossa del misuravaligie
posta a un metro di altezza.
Ricordo
che la stufa dei nonni era differente. Ruggisce sempre e ci buttano sopra le
bucce dei mandarini per profumare la casa a buon mercato.
Il
nonno passa i mesi estivi pressando la carta dei giornali vecchi, accuratamente
bagnata nel mastello del bucato, e con ostentata soddisfazione scaglia le
palle umide che ne ricava in una nicchia sopra l’uscio, dove sarebbero seccate
con calma e sarebbero diventate un buon surrogato del carbone per tutto
l’inverno.
Un altro
gioco che si fa col fuoco sono le “anime”. La nonna mette sul piano della stufa
uno dei foglietti che avvolgono le arance, accartocciato in forma di cono. Dopo
un po’ si accende da solo e l’aria calda che si forma all’interno spinge il
cartoccio acceso fino al soffitto. “Come un’anima in Paradiso”, dice. Forse
l’idea della mongolfiera è nata così.
Ricordo anche
i bisnonni, i loro volti e le loro voci. Li vedevo raramente, perché durante la
guerra erano sfollati in una frazione di Erba, in Brianza, in una vera casa di
campagna, che probabilmente era la portineria di una villa. E lì erano rimasti.
È simpatico il
bisnonno Riccardo e sempre allegro. In campagna coltiva il granoturco e mi dà
le pannocchie da sgranare. Alleva anche polli e conigli, dei quali conserva le
pelli che in seguito sarebbero state conciate e usate per confezionare un
cappottino per me.
Ci
avrebbe lasciati, nel giro di tre giorni, alla bella età di 86 anni. Era nato
nel 1869, prima della presa di Roma.
Ricordo la
bisnonna Adele, piccola piccola e secca, avvolta nello scialle di lana. Ho
cinque anni quando la notte in cui attraverso il telefono dei vicini del piano
di sopra – l’unico in tutto il palazzo – ci avvertono della sua morte.
È la notte
dell’Epifania. Le cattive notizie arrivano di notte.
Al
funerale la bara è enorme; usano fabbricarle di una sola misura e si dice che
fosse imbottita di tappeti e coperte per accogliere più decorosamente la
piccola salma.
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I bisnonni Riccardo e Adele
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Del bisnonno Abele non
so molto e neppure in famiglia se ne parla. Si favoleggiava che fosse andato a
Messina, a portare soccorsi, per il terremoto del 1908 e che in quella
occasione vi fosse morto.
Ma la lapide al
cimitero monumentale della Società di Mutuo Soccorso l’Esercito, alla
quale era iscritto, indica il 1915 come data della sua morte.
È
forse scappato di casa? Per questo nessuno ne parla? E nessuno ha mai fatto
nulla per cercarlo? Segreto di famiglia.
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Lapide nel cimitero monumentale di
Milano, anno 1915
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La
casa vecchia
Nonostante avessi due
anni, ricordo benissimo la casa in cui sono nato.
Del freddo, della
stufa e del carbone ho già detto.
Ricordo il cortile
quadrato, con una pianta in mezzo, e la ringhiera che corre tutt’attorno.
Ricordo la camera da letto, con i mobili scuri, e la cucina, enorme, con un
lampadario a tre luci di vetro molato, e un tavolo così grande che non sarebbe
stato possibile installarlo nella casa nuova.
Eppure col triciclo
gli giro intorno senza difficoltà. Pedalo anche sulla ringhiera, anche quella
della casa dei nonni, che abitano di fronte.
Non
ho mai smesso di muovermi. Anche oggi mi piace pedalare e camminare a lungo.
Ricordo
di quando, a due anni, mettevo sul pavimento un foglio del giornale e,
posizionandomi sopra a quattro zampe, leggo i titoli scritti con i caratteri
più grossi. Ricordo la scritta “Americani” e che nell’articolo si parla di
razzi sui quali c’è la scritta “U.S.Army”.
So
leggere i caratteri a stampa perché quando sono in strada guardo le insegne dei
negozi e chiedo cosa vogliano dire. E tra un salumiere oggi e un fornaio
domani, mi insegnano, e io imparo, il segreto dell’alfabeto.
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Intento a leggere il
giornale: (Non sto giocando
col giornale: |
Sul triciclo, a casa dei nonni
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La
vecchia casa aveva resistito agli insulti della guerra.
All’età
di poco più di due anni, dal passeggino, in posizione supina e privilegiata,
vedo le facciate delle case ancora rovinate dai buchi delle bombe e ne chiedo
il motivo. “È stata la guerra. La
guerra è una brutta bestia!”, mi informa la mamma. Ma i bambini piccoli
non capiscono le metafore, e io mi faccio l’idea che la guerra sia una specie
di mostro che ha l’hobby di attaccare le città e distruggerle, un po’ come
Godzilla. Solo qualche anno dopo, a scuola, alle prese con Annibale e Scipione
l’Africano, capisco che lo stesso hobby, se praticato dagli uomini, si chiama
guerra.
La vecchia casa aveva resistito anche a un
terremoto.
Il 15 maggio del 1951 si registra in
Valpadana un terremoto con epicentro nel lodigiano. Dicono le cronache dei
giornali che:
“a
Milano la scossa fu valutata di una intensità del VI grado della scala
Mercalli. Oltre a molto panico, specie nei cinematografi, la scossa determinò
la caduta di cornicioni e di comignoli, nonché crepe nel selciato e lesioni
piuttosto gravi in alcuni fabbricati già danneggiati dai precedenti
bombardamenti. A Milano e a Venezia, la scossa sarebbe stata preceduta dal volo
di piccioni”.
Ho solo 18 mesi e lo ricordo benissimo. Siamo
già a letto ma io non dormo e, contrariamente alle mie abitudini, non piango.
Ricordo lo scricchiolio pauroso dei mobili e una oscillazione da far girare la
testa. La mamma accende la luce e grida: “Ernesto, Ernesto! Il terremoto! Ma lui, provato dal carbone e
dal mio pianto durato tutta la serata, ribatte fatalista: “Zitta, zitta! che si è appena addormentato”.
Mi ero addormentato di un sonno così
profondo che ricordo ancora oggi il dialogo. Nonché il bizzarro e affascinante
oscillare del lampadario.
Dove non ha potuto né la guerra né il
terremoto ha potuto la modernità, o forse la speculazione edilizia, che avrebbe
alzato la testa pochi anni dopo. Oggi quella casa non c’è più, sostituita da un
condominio moderno, come gli altri della via.
Celentano si
sarebbe indignato e avrebbe scritto la sua celebre canzone qualche anno prima,
ma forse è stato meglio così. Non è che oggi ci sia il cemento al posto
dell’erba: in una via risanata c’è un palazzo decoroso al posto di una topaia
di fine ottocento.
L’unico rimpianto è che, qualora dovessero
cercare il muro giusto per mettere la lapide col mio nome, non lo troverebbero!
Sindaco e banda sarebbero costretti a tornare a
casa con le pive nel sacco. Se ne faranno una ragione.
Le paure
Sono tempi in cui l’idea di rispetto per
i bambini non esiste. Arriverei a dire, senza tema di esagerare, che qualora si
presenti l’occasione di fare una carognata a un bambino, allora sorge non solo
la facoltà ma addirittura l’obbligo di fargliela!
Le molestie più utilizzate sono talmente
diffuse e così ben codificate da avere un nome:
— la
mezunsetta o ganascino: consiste nell’afferrare il bordo inferiore
della guancia del bambino tra l’indice e il medio e strizzare a piacere, sia
per intensità sia per durata;
— la
barbalœgia: per praticarla bisogna avere una barba di tre giorni, cosa
tutt’altro che rara ai tempi. Più corta o più lunga sarebbe stata troppo
morbida e quindi inefficace. Il gioco consiste nello strofinare la faccia
barbuta sulle guance del bambino fino all’intensità di rossore considerata più
appropriata;
— la
carotula: consiste nel passare le nocche sulla testa del bambino con
movimento a mezzaluna e con la pressione giudicata necessaria a farlo piangere.
E così via. Qualsiasi adulto si sente
autorizzato, anche l’estraneo. Pensate come deve sentirsi un povero bambino
alla fine della giornata, dopo una decina di trattamenti.
Sono tempi in cui ai bambini si tolgono denti e
tonsille senza anestesia. Al massimo una spruzzata di “etere”. “Tanto, sono bambini: non sentono e non
capiscono”, dicono gli adulti.
Togliendo le tonsille si matura il diritto a una
tazza di ghiaccio tritato con lo zucchero.
Mio padre, essendo del mestiere, dice che
non è consigliabile mangiarlo, poiché sa che gli operai addetti alla produzione
del ghiaccio usano inquinarlo a modo loro. L’alternativa è il gelato, ma poco,
poiché gli adulti hanno messo in giro la voce che il gelato faccia molto male.
Ai bambini si prescrivono molte iniezioni. Le
cure si misurano a scatole di fiale, senza risparmio. Io non le sopporto e
ormai non riescono più a tenermi abbastanza fermo per farmele.
La mamma minaccia: “Domattina arriva una infermiera grande come una casa. Vedremo come te
la caverai”. “Vedremo. –
rispondo – Se tenterà di farmi male,
la ucciderò!”.
Il mattino, l’infermiera arriva davvero.
È davvero grande come una casa, ma solo nel senso della larghezza perché come
altezza lascia molto a desiderare. Traballa su due piedini sproporzionatamente
piccoli, avvolti in ridicole scarpe da tennis. Fingo di dormire e lei si
avvicina col proposito di sedersi sulle mie gambe. Scatto come una molla e la
colpisco duramente sul grugno col calcagno. Lei barcolla, impreca, infila la
porta e fugge. Accorre la mamma con espressione attonita. La guardo torvo e
silenzioso, e lei capisce: “Che
rischio! Poteva ucciderla davvero”. In seguito il medico mi condona le
punture. “Tanto, non servono a niente”,
dice.
Ma le paure vere nascono, imprevedibili e
subdole, da fatti apparentemente più banali.
Mio padre talvolta, ma soprattutto dopo
l’“operazione carbone”, si mostra insofferente nei confronti delle mie piccole
marachelle infantili e minaccia: “Basta! Bisogna ciappà di pruvvediment. Te
andaret a finì in di Barabbitt. Te indrissarann luur!” (bisogna prendere
dei provvedimenti. Finirai dai Barabbitt. Ti raddrizzeranno loro).
Cosa siano i Barabbitt non lo so di
preciso. Forse è il riformatorio, ma non mi sembra che le mie azioni avessero
un risvolto penale. D’altra parte il nome evoca Barabba, il ladrone cattivo,
che però la folla voleva libero al posto di Gesù (già
mi chiedevo allora se è mai possibile che esistano ladroni cattivi e
ladroni buoni).
Forse si tratta di un collegio a regime
militare, come l’istituto Pierpaolo Pierpaoli del Giornalino di Gianburrasca, o
forse del famoso Collegio Convitto Celana nella bergamasca. Si
diceva che fosse organizzato come un carcere di massima sicurezza nello stile
dei film americani, e si narrava che uno zio ivi recluso fosse fuggito saltando
da un muro di cinta alto sette metri, salvo essere riacciuffato dopo pochi
chilometri.
La mamma nel frattempo sostiene di non digerire più
niente e rafforza la sua affermazione con un’espressione nauseata molto
credibile.
Allora, come un bravo bambino di quattro anni,
cosa posso dedurre? Quanto tempo può resistere un organismo che non riesce, e
non riuscirà più, ad assimilare niente di ciò che mangia? Un
mese, due al massimo, ma poi kaputt!
E a quel punto come avrebbe fatto mio padre, da
solo, a occuparsi di me, con gli impegni che aveva col lavoro e col carbone? È
chiaro che sarei finito tra i Barabbitt. Non ci può essere altra
soluzione. Non mi sembra neppure moralmente sbagliata. E quindi è verosimile.
Oggi racconto questa storia ridendo, perché
oramai sono troppo grande per finire tra i Barabbitt, e la mamma dice
che ero proprio stupido.
Ma i bambini non capiscono il linguaggio
figurato. Prendono tutto alla lettera e, se proprio si vuole definirli stupidi,
la loro stupidità consiste nel credere a ciò che dicono gli adulti.
A difesa dei bambini che si sentono ripetere
come le mamme siano in ogni caso più intelligenti di loro, riporto questo breve
dialogo:
— Mamma,
è vero che le mamme sono sempre più intelligenti dei loro figli?
— È
verissimo, sempre! Non c’è alcun dubbio su questo.
— Vedremo.
Tu sai chi ha inventato la radio?
— Certo.
È stato Guglielmo Marconi.
— E
allora, perché a inventarla non è stata la mamma di Guglielmo Marconi?
Non ridete e sentite il seguito, che è molto
serio.
Il piccolo Guglielmo Marconi non era uno
studente modello. Era piuttosto scarso in lettere e in latino, e s’interessava
un po’ più di scienze. Cosa avrebbe fatto una mamma normale? gli avrebbe fatto
avere delle lezioni private di lettere e latino, per farlo diventare mediocre
in modo uniforme.
Ma la mamma di Marconi, di origine irlandese, si
rivela davvero molto brava. Gli fa avere lezioni di matematica e fisica. E il
piccolo Guglielmo fa tali progressi che l’insegnante a un certo punto non può
più continuare: “Questo studente ormai
ne sa più di me”. Poi sappiamo tutti come è andata, a merito delle mamme
e a maggior gloria dell’Italia.
Invece, a minor gloria dell’Italia, pare
che quando a Benedetto Croce fu presentato Guglielmo Marconi – del quale non
aveva evidentemente neppure sentito parlare – il grande umanista, dopo essersi
informato, esclamasse: “Ah, un tecnico!”.
E questo avvenne col mondo ormai trasformato dalla radio e con il premio Nobel
già assegnato a Marconi.
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Guglielmo Marconi |
Benedetto Croce |
Così fu
pensata a partire dagli anni ’40 del novecento la cultura nazionale, e così fu
costruito il sistema scolastico. Siamo, oggi, nel finale di partita. Siamo
entrati in Europa galleggiando nel vortice dello sviluppo scientifico e tecnologico
a livello planetario, ma le nostre scuole d’ogni ordine e grado non sono
attrezzate alla navigazione perché il sistema educativo nazionale è
precopernicano e antigalileiano.
La
casa nuova
Ho due anni e mezzo quando a mio padre
viene assegnato un appartamento in affitto in una casa costruita dall’azienda
per cui lavora e destinata ai dipendenti.
Ricordo a malapena la visita preliminare alla
nuova casa, così diversa da quella in cui ero nato, ma non mi impressionano i
pavimenti lucidi, l’ascensore che non avevo mai visto, l’altezza dell’edificio,
il bagno e l’acqua corrente in casa.
Nossignore. Il mio ricordo più vivido consiste
nella catenella a pallini che trattiene il tappo del lavandino. Tento di appropriarmene
ma non ci riesco e questo mi lascia una tale delusione che gli altri ricordi di
quella visita scompaiono.
Non ricordo neppure il trasloco, che deve
essere stato infernale. Forse mi avevano lasciato dai nonni.
Piano piano prendo confidenza col nuovo
ambiente. Ricordo che mi piace scivolare sul pavimento lucido e mi piace anche
lucidarlo, utilizzando come strofinacci i sacchetti del pane.
Una sera, decido di prendermi dei complimenti
per l’ottimo lavoro di lucidatura e, mettendo in atto un piccolo trucco, mi
impegno a strofinare una piastrella della cucina già di per sé più chiara delle
altre. Attiro l’attenzione e mi becco la minaccia dei Barabbitt!
Secondo mio padre avevo rovinato il
pavimento e a nulla vale la mia spiegazione che la piastrella appare più chiara
non per opera mia, ma per la differente proporzione di granelli bianchi e neri
rispetto alle altre.
Bisogna spiegare che la minaccia dei Barabbitt
non è del tutto tramontata. È vero che nella casa nuova non c’è più l’incubo
del carbone, ma gli impegni di lavoro fanno sorgere altri incubi.
Due sono le espressioni che bisogna tenere a
mente per sapersi regolare durante la giornata: giazz e staziun, cioè
ghiaccio e stazione, e Curs Com.
“Ghiaccio e stazione” significa che quel giorno
mio padre ha l’incarico di vendere il ghiaccio al minuto, attraverso uno
sportellino che dal suo ufficio dà in cortile, dove si accalcano i piccoli
commercianti di alimentari e, contemporaneamente, ha l’incarico di
controllare le bolle di carico e scarico dei vagoni alla (ex)stazione di Porta
Vittoria.
Il fatto di dover provvedere a due
incombenze situate a 700 metri di distanza lo destabilizza e lui si porta lo
stress a casa. Probabilmente c’è di mezzo un equivoco, ma non ho mai capito
quale.
Curs Com significa che il suo
lavoro lo costringe alla filiale situata in Corso Como. E lì è veramente dura:
si tratta di andare in bicicletta o con i mezzi pubblici. In tal caso, a
rigore, si sarebbe dovuto cambiare tram a metà percorso e pagare quattro
biglietti al giorno.
Hinn danèe!
Sono soldi. L’alternativa è fare a piedi un bel pezzo di strada.
Poi si deve pranzare fuori, e, per uno abituato
a rientrare a casa a mezzogiorno in punto semplicemente attraversando la
strada, è un vero cruccio.
A quel tempo non c’è l’abitudine dei panini. Se
si vuole togliersi la paura genetica di morire di fame, mangiare vuol dire
primo, secondo e caffè, come minimo, in qualche trani.
Hinn danèe! E niente note
spese per il lavoro in città.
Motivi di
malumore, il suo lavoro per il dazio non gliene fa mancare, come quando i
commercianti pretendono di ritirare qualcosa dai magazzini la mattina di
natale e lui deve fare le bolle.
Del triciclo non si parla più, visto che
non esiste un locale abbastanza ampio in cui io possa pedalare. C’è però un
cavallo a dondolo di legno parcheggiato vicino al calorifero, ma dura poco,
perché il dondolio porta a lasciare sul calorifero stesso dei segni di vernice
rossi e blu.
E non va bene.
Mi viene regalato un grosso camion di legno, che
tutti chiamiamo carrettone. È veramente bello ed è così grande che posso
salire sul cassone e girare per la casa spingendomi con le mani come in un
kayak. Ma ha la targa di latta e la mamma sostiene che le rovina le calze.
E
non va bene.
Pertanto, la sera stessa, via la targa
con le pinze!
Mi
regalano un carrettino di legno tirato da un cavallo. Stacco il cassone dal
carretto e ne faccio un cassetto che inserisco in un piccolo vano, sotto il
contatore del gas, che sembra fatto apposta.
Mi
piace riporre lì dei piccoli oggetti. È uno spazio tutto mio.
E non va bene.
L’avranno estratto e reinchiodato sul
carretto almeno dieci volte, prima di capire che a me piace così.
Più grande ci avrei custodito le monete
d’argento da 500 lire, quelle con le caravelle e la bandiera che sventola nella
direzione sbagliata e quelle del 7° centenario della nascita di Dante
Alighieri.
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La moneta d’argento
da 500 lire “Caravelle”:
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La moneta d’argento
da 500 lire “Dante”
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Mi regalano
una cassetta di cubetti di legno con i quali comporre, come in un mosaico, sei
differenti figure di animali. È un gioco di grande soddisfazione anche perché,
oltre che per le figure, mi piace sovrapporre i cubetti per le mie costruzioni.
Mi arrovello per capire se si possano formare più di sei disegni. In effetti,
la testa del leone si adatta così bene al corpo di una scimmia da incoraggiarmi
a proseguire la ricerca.
Un bel giorno non li vedo più. Un mese
dopo li trovo nascosti in un mobile e tutto felice grido: “Eccoli! Eccoli!”. I miei però non ne
sono contenti, anzi sento la mamma che bisbiglia con disappunto: “Li ha visti…”.
Avevo capito la loro tecnica:
periodicamente e sistematicamente mi nascondono dei giocattoli, nella vana speranza
che me ne dimentichi, per poi regalarli ai bambini degli operai che lavorano
nell’azienda di mio padre.
Notare bene: poveri bambini di poveri
operai che vivono in povere villette a due piani appena
fuori Milano; mentre io ero figlio di un ricco impiegato che vive in ben
due locali.
Secondo me l’operazione è sbagliata anche
da un punto di vista strategico: se i genitori dispongono di un giocattolo di
poco ingombro e di nessun fastidio in grado di tenere buono un bambino per
parecchio tempo, che razza di motivo ci può essere per toglierglielo?
Ormai sono “grande”, ho quattro anni e mangio da
solo, sia pure utilizzando per prudenza un piatto fondo e uno piano di
alluminio.
La mamma negherà sempre il fatto che io
mangiassi nei piatti di alluminio. Ma a me piace. Non mi sento sminuito, anzi:
la ceramica mi sembra un materiale più vile. Come prova avrei conservato il
cucchiaio di alluminio.
Ricordo che mi piace strofinare il bordo
del piatto con la forchetta, ricavandone un suono stridulo, come di gesso sulla
lavagna, che risulta particolarmente fastidioso a mio padre, e quindi
gratificante per me.
Purtroppo il piatto fondo viene spesso riempito
di un intruglio acquoso derivante dalla bollitura di verdure, con l’aggiunta di
pasta o riso, che chiamano minestra. Il gusto non è per nulla appetitoso e se
chiedo perché capiti così spesso di mangiare minestra, la risposta
invariabilmente è: “Perché si deve!”.
Da cosa derivi questo obbligo non mi è
stato mai spiegato. Arrivo a pensare che si tratti di una disposizione di legge
o forse di una superstizione.
Ancora oggi non riesco a trovare un motivo
valido. Dal punto di vista dietetico il valore della minestra è minimo: grassi
quasi zero, proteine pochissime, sali minerali scarsi. Pasta e riso sono così
pochi che è ridicolo metterli in conto. Ci sarebbero le vitamine della verdura,
se non venissero annientate dalla cottura. E poi il sapore…
Per non parlare del bene che può dare
all’organismo un alimento mangiato così di malavoglia.
Temo che l’unico pregio dell’intruglio sia il
suo costo contenuto.
Eppure il gusto della minestra, così
insopportabile per i bambini, misteriosamente diventa una golosità a partire
dai circa quarant’anni di età, anche se non sarebbe stato il mio caso.
Non frequento
altri bambini, almeno fino al tempo della scuola.
Ce n’è uno che abita due piani sotto di
noi, ma non mi piace. È grasso. Tutti lo prendono in giro per questo, e io
faccio la mia parte.
Poi saremmo andati a scuola insieme e,
per una di quelle strane pieghe che talvolta prende la vita, saremmo diventati
ottimi amici.
Ma intanto tutti continuano a chiamarlo bomba
– un tale lo fa addirittura sporgendosi da un tram di passaggio – e
lui, forse per il disagio che gliene deriva, sviluppa l’abitudine di vomitare
tutti i giorni in prossimità del portone della scuola. Ma non ne risente; si
riprende in pochi secondi.
La nonna mi ammonisce: “Mangia, mangia.
Diventa bello grasso come il tuo amico!”.
Ma io non riesco a capire il motivo per
cui dovrei tentare di assomigliare a uno che chiamano pubblicamente bomba.
Forse perché ai tempi circolano ancora il motto “grassezza fa bellezza” e forse
anche un po’ di invidia da parte di chi proprio non ha molto da mangiare.
Sembra
che neppure il nonno seguisse i consigli della nonna, visto che, pur essendo
più alto della media (di allora) il suo peso si aggirava attorno ai 50 chili.
Lui dice di avere raggiunto il suo record
di magrezza durante la prigionia con i “Tedeschi” (a Buchenwald) durante la
Grande Guerra.
Era
stato ferito in battaglia e il proiettile era entrato nella spalla
trascinandosi dietro la stoffa del cappotto, che aveva tamponato il buco.
Niente sangue e poco dolore. Ma la ferita
gli sarebbe stata utile. Bastava sfregarla un po’ e il rossore gli garantiva
l’esenzione dal lavoro, tanto era il rispetto dei crucchi per i feriti in battaglia.
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Il nonno Agostino
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Nei campi di prigionia non c’era cibo
sufficiente per nessuno, neppure per i crucchi,
e i pacchi-viveri della Croce Rossa non arrivavano. Avrei saputo da un
documentario sul centenario della Grande Guerra che le consegne dei pacchi
venivano boicottate dallo Stato Maggiore e dal governo italiano poiché
circolava la voce che i prigionieri si fossero macchiati di tradimento,
arrendendosi troppo facilmente per non combattere.
Per legge, i prigionieri accusati o
semplicemente sospettati di diserzione non potevano ricevere né pacchi né
posta, e contemporaneamente le loro famiglie erano private di ogni sussidio.
Una traccia del presunto tradimento si
può trovare nella Leggenda del Piave (quello che “mormorava calmo e placido”), inno
nazionale dall’8 settembre 1943 al 12 ottobre 1946, nella strofa che dice: “… ma in una notte triste si parlò di
tradimento”. Il riferimento al tradimento sarà eliminato durante
il fascismo, perché il soldato italiano non tradisce, semmai “mancò la fortuna,
non il valore”.
Comunque sia andata, il nonno torna a
casa con addosso 36 chili di pelle e ossa, ricevendo in cambio del sacrificio
un foglio, firmato dal Ministro della Guerra Mussolini, decorato con ben
quattro medaglie.
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Le medaglie del nonno
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Con la mamma
Teresina sulla Lambretta |
La scuola
…
Sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
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La scuola
elementare Cinque Giornate: l’edificio del 1927 |
Alla fine del quinto anno di vita, mi
capita quell’evento che cambia un uomo per sempre: il primo giorno di scuola.
Non arriva di sorpresa, devo essere
sincero, infatti se ne parlava da un pezzo, ma senza dare troppa importanza
all’argomento.
Un bel giorno (un brutto giorno) mi
buttano giù dal letto a un’ora così disumana che penso a una disgrazia. Mi
spiegano che bisogna andare a scuola e che l’orario è quello. Si va a piedi,
saranno trecento metri da casa.
La mamma torna a prendermi all’uscita,
dopo un paio d’ore, e mi chiede come è andata.
Rispondo in modo asciutto: secondo me non era
successo niente di speciale. Ci avevano radunati in cortile e le maestre
avevano letto i nostri nomi, uno dopo l’altro, ci avevano ammassato in gruppi
di una trentina abbondante e ci avevano portati ai piani superiori.
Nell’enorme stanzone avevano scandito ancora una
volta i nostri nomi: chi c’era, quando sentiva il suo, doveva dire Presente!
Poi ci avevano assegnato un posto nelle
tre lunghe file di banchi, di legno scuro, imbullonati tutti insieme e di
altezza crescente man mano che si andava verso il fondo dello stanzone.
C’era, su una pedana di legno, uno strano
tavolo massiccio, al quale sedeva la maestra. C’era un ancor più strano
rettangolo color ardesia, incorniciato di legno, di cui non capivo ancora
l’uso.
Alle pareti c’erano dei cartelloni – più
avanti li avrebbero chiamati poster – generosamente forniti dalla Cassa
di Risparmio delle Provincie Lombarde. Questi li trovavo interessanti, perché
erano figure di animali ritratti nel loro habitat, e a me piacevano gli
animali. Riuscivo anche a identificarli, e potevo leggere i loro nomi. Da
parecchio tempo io sapevo già leggere e scrivere, ma solo i caratteri a stampa.
Lungo i corridoi erano appese delle stampe
di grande formato, con austere cornici di noce. Leggo i nomi; sono quelli
famosi degli antichi romani: Romolo e Remo, Menenio Agrippa, Muzio Scevola,
Attilio Regolo, Orazi e Curiazi, Cincinnato, Orazio Coclite, Coriolano… (sapete
dire che cosa può avere fatto Coriolano per meritarsi una stampa?).
Nel complesso ricavo la sensazione di una
gran perdita di tempo. E nessuno si premura di spiegare qualcosa. Ma oramai è
andata.
Il mattino seguente, senza preavviso,
stessa storia: orario disumano e più o meno la stessa solfa a scuola.
Il mondo mi casca addosso: ma come?
ancora? ma non ero già stato a scuola?
Al ritorno, durante il pranzo chiedo
spiegazioni.
Dice mio
padre: “La scuola elementare dura
cinque anni”.
E poi? –
chiedo con ansia.
“Poi le scuole commerciali o le medie. Sono
altri tre anni. Se vuoi un diploma, le superiori durano altri cinque anni”.
E poi? –
chiedo con ansia crescente.
“Poi dopo il diploma fai il soldato. Diciotto
mesi. Poi al lavoro, come me”.
Ma si lavora tutta la vita? – chiedo angosciato.
“No. A sessant’anni si va in pensione e si è
liberi. Ma oramai si è vecchi. Guarda il nonno”.
A quel punto avevo capito una caratteristica
fondamentale della vita: smette molto presto di essere divertente per
trasformarsi in un ginepraio di impegni quasi mai desiderati che, a onta degli
sforzi, invece di sbrogliarsi si aggroviglia sempre più.
Oramai avevo solo la speranza della pensione. A
sessant’anni, però. A meno che…
Sapevo che c’era gente che non sprecava la vita
lavorando e di questi si diceva che erano signori. Quindi i signori
vivevano in un altro modo.
C’è una debole speranza. Decido che avrei fatto
il possibile per liberarmi ben prima di diventare un vecchio bacucco di
sessant’anni.
Ci avrei messo quarantaquattro anni di studio e
di lavoro indefessi, ma finalmente sarei riuscito a riscattarmi poco prima
dello scoccare dei cinquant’anni, e per giunta in un’epoca in cui a quell’età
si è considerati ancora giovani.
Dall’inizio della scuola la mia vita si srotola
tra impegni che non mi interessano molto e attività scolastiche che trovo
insopportabilmente lente e noiose. Ma devo resistere.
A me interessano solo le lunghe vacanze estive.
Allora iniziavano ai primi giorni di giugno e il rientro a scuola era fissato
rigorosamente al 1° ottobre. È un bel periodo di quattro mesi e voglio
godermelo tutto.
La mia strategia è fare quel piccolo sforzo in
più che mi avrebbe assicurato la promozione immediata, senza esami di
riparazione.
Non è una gran fatica: in fondo, la
differenza tra un goal e un tiro fuori rete può essere di soli 10 centimetri.
Sarei riuscito a fare goal per tutti i tredici anni dei miei studi.
La strategia prevede anche di non fare i
cosiddetti compiti delle vacanze. Se sono vacanze, sono vacanze! Non ci devono
essere ostacoli. E infatti non li avrei mai fatti, senza alcuna conseguenza. Mi
aiuta il fatto che gli insegnanti non hanno alcuna intenzione di guardarli e,
del resto, non avrebbero avuto modo di smascherarmi: le cose che devo sapere,
le so benissimo anche dopo quattro mesi di inattività. Merito di una memoria
formidabile ma anche di un metodo di studio tutto teso all’obiettivo.
Una volta sola ci sarei cascato. E avrei
descritto le mie vacanze in un quaderno grande, corredato di cartoline
appositamente acquistate per illustrare i testi faticosamente composti.
Al rientro dalle vacanze, tutti i
quaderni vengono diligentemente impilati sulla cattedra e – orrore! – sorprendo
la maestra che li butta con noncuranza nel cassone della carta straccia.
Avrebbe potuto trattenerli un po’, facendo finta di leggerli, e avrebbe potuto
fare il gradito gesto di restituirli. Sarebbero stati un bel ricordo. Invece si
sono trasformati in una delle peggiori frustrazioni originate dalla scuola.
Per superare i periodi sgradevoli imparo a
dormire sodo. Presto in piedi per gli orari disumani? e allora presto a letto,
con l’intento di far passare la nottata.
È un’abitudine che conservo tuttora. Quando non
ne posso più, esco dal mondo in questo modo. Quando dormo, non ci sono più
letteralmente e nulla mi può accadere di spiacevole, almeno fino al giorno
dopo. Amo dormire nel buio più nero e con la testa sotto le coperte. È il mio
ideale di fuori dal mondo.
Forse per questo sarei sempre riuscito a
evitare gli stress della mia professione. Compatisco sinceramente quelli che
iniziano la giornata dicendo “Questa
notte ho pensato…”. Di notte non si pensa. Si dorme.
Il primo approccio fisico con la scuola
sono i banchi. Così, ingombranti e goffi nell’aspetto, ma anche imponenti e
determinanti per il destino dei bambini.
I posti vengono assegnati secondo l’altezza.
Bambino piccolo primo banco, bambino alto ultimo banco. Sembra una semplice
questione di misure, ma può cambiare la vita di qualcuno.
Succede che i ripetenti, per definizione,
abbiano almeno un anno e molti centimetri di statura in più rispetto ai
compagni. E finiscono nei banchi alti, in fondo all’aula. Si usa anche spedire
laggiù i più irrequieti, quelli che “disturbano”, quasi al confino o alla
Cajenna.
Così quegli ultimi banchi diventano una specie
di ghetto per i disadattati della scuola.
Laggiù in fondo si può fare comunella con dei
compagni della stessa età e dagli stessi interessi e ci si può distrarre di
più. Si crede di sapere già quello che gli insegnanti stanno spiegando (e
allora perché li avrebbero bocciati?) e non si sta attenti. Si creano le
premesse per un nuovo insuccesso.
Inoltre
nessuno chiede ai bambini degli ultimi banchi se vedono bene le scritte alla
lavagna. Quanti insuccessi sono dovuti alla carenza di diottrie?
I ripetenti non conducono una bella vita.
Malgrado l’atteggiamento spavaldo e oggettivamente più sveglio dei compagni
più giovani, non hanno amici, se non tra di loro. Le famiglie stesse
scoraggiano le amicizie troppo strette con i ripetenti, temendo forse una specie
di contagio. Le mamme si informano con precisione sul livello del banco
assegnato al proprio bambino. La prima fila, la seconda, la terza al massimo,
vanno bene. Oltre, nasce un oscuro timore.
Più avanti ci avrei riflettuto con un
brivido. Nato a metà dicembre, inizio la scuola a meno di sei anni e pertanto
sono piuttosto piccolo. Quindi prima fila. O al massimo la seconda, quando la
maestra non ne può più di vedermi dondolare i piedi per la noia, ma non osa
spedirmi alla Cajenna. Se fossi nato una ventina di giorni dopo avrei perso un
anno, come si diceva allora, e per l’altezza sarei finito molto più in fondo,
probabilmente nel ghetto dei ripetenti, magari per seguirne il destino.
Credo fermamente nel destino, inteso come
una sequenza di eventi concatenati in una relazione di causa–effetto. Credo che
le nostre azioni non siano affatto libere, ma siano determinate da fatti,
esperienze e condizionamenti che iniziano il giorno stesso della nascita.
L’educazione, in fondo, altro non è che il tentativo di condizionare il
comportamento dei bambini a una serie di regole sociali condivise.
Provate a chiedere a qualcuno che abbia appena
acquistato un’automobile i motivi per cui ha scelto quel modello. Vi risponderà
che vuole un’auto lunga perché intende caricare molte persone e bagagli, però
non può spendere più di un certo importo; e l’auto deve essere blu, ma non come
quelle dei ministri bensì come quell’adorabile giacchino che la moglie ha visto
in una vetrina; poi l’auto deve essere alta per far salire senza troppe
lamentele la suocera che ha l’artrosi; poi… poi… Alla fine dichiara di essere
molto soddisfatto dell’auto che ha scelto. Niente di più sbagliato: il
nostro amico ha semplicemente elencato tutti i vincoli a lui noti (ma ce ne
sono molti altri di cui non è consapevole) che lo hanno obbligato a
comprare proprio quel modello. È il suo destino.
Una geniale pubblicità di qualche anno fa
dice: “Se fossimo davvero liberi acquisteremmo tutti la stessa auto”.
Il destino dei ripetenti può essere
interessante.
Ricordo un tale, il cui cognome tradisce
l’origine partenopea e non sfigurerebbe addosso a un personaggio delle commedie
di De Filippo, bocciato senza possibilità di appello perché si esprime come un
famosissimo ex magistrato poi divenuto uomo politico dei nostri giorni.
È felice di andare alla refezione
e al doposcuola, l’unico, in un periodo in cui questo è motivo di vergogna
sociale, mentre semplicemente denota il fatto, tutt’altro che disonorevole, che
anche la mamma lavora. Oggi le scuole vengono scelte anche in funzione del
tempo pieno, non tanto per necessità ma per parcheggiare i figli piccoli.
Ricordo un altro, bocciato non tanto per
l’ignoranza, peraltro ragguardevole, quanto per l’eccessivo numero di
assenze. La famiglia proviene dalla Calabria e lo tiene lontano dalla scuola a
vendere i limoni per strada.
Se ne potrebbe trarre un racconto degno
di De Amicis o di Dickens, ma non bisogna fermarsi alle apparenze. Il ragazzo,
a forza di vendere limoni, avrebbe messo su un negozio di frutta e verdura tale
da permettere una vita più che agiata a tre famiglie, in cui ognuno dei componenti
guadagna senza dubbio più di un preside di scuola media.
Un terzo prende pastiglie di chinino.
Dicono che abbia la malaria. Ma come l’ha presa? Abita in una palude? C’è la
malaria in Italia? È contagiosa? Mistero sanitario.
Suo padre fa il sustré, cioè il
commerciante di legna e carbone, e fornisce anche l’azienda in cui lavora mio
padre.
Accade spesso che all’entrata il sustré
si fermi sulla bilancia stando a bordo del furgone carico, e all’uscita, per
fare la tara, faccia pesare il furgone vuoto dopo esserne sceso con disinvoltura,
tentando così di vendere un quintale di carbone inesistente.
La scuola è fatta anche di piccoli
rituali.
Periodicamente si affaccia un bidello (guai a
chiamarlo così oggi) con un curioso boccione di vetro pieno di inchiostro e
dotato di un lungo becco per rabboccare il livello dei calamai.
E raggiunge il bordo superiore con tale precisione
che basta una minima scossa al banco per provocare una catastrofica colata.
Non poteva fermarsi un millimetro prima?
Forse il periodo delle carognate ai bambini non è ancora passato. È tutto un
agitarsi a tamponare con la carta assorbente. Chi si bagna le mani prova a
pulirle leccandole. L’inchiostro non è cattivo. Ha un sapore metallico
non sgradevole.
Ogni tanto arriva un incaricato con un
fascio di fogli colorati. Si tratta della pubblicazione La via migliore
edita e distribuita dalla Cassa di Risparmio, quella dei cartelloni. È un
momento felice. Il foglio contiene dei fumetti e parecchi articoli, alcuni
divertenti, molti interessanti, tutti edificanti: lo scopo è insegnare le virtù
del buon cittadino, soprattutto l’abitudine al risparmio. Va da sé che i
risparmi devono essere depositati in banca, su un libretto, di cui la cassa in
questione detiene praticamente il monopolio.
Più spesso di quanto si vorrebbe, arriva un
incaricato che distribuisce dei francobolli sulla Lotta alla TBC in
cambio di qualche spicciolo. Non capiamo molto né di TBC né del possibile uso
dei francobolli, ma ci adeguiamo e sborsiamo qualche liretta, anche su sottile
sollecito della maestra, che tiene minacciosamente a portata di mano registro e
penna.
Stessa storia per la Società Dante Alighieri.
Se oggi dovessi dire di che cosa si tratta, dovrei fare una ricerca su
Internet.
Circa una volta al mese arriva la
dottoressa della scuola con un boccione pieno di pillole rosse. Almeno lei
spiega che sono vitamine e ci invita a prenderne una a testa, “ma non c’è obbligo” dice la maestra
con registro e penna in mano. E ne prende una lei stessa per dare il buon
esempio o forse per integrare la dieta alla quale la costringe la paga che le
spetta.
Ne prendo anch’io. Deve essere vero che
sono vitamine, perché riconosco il caratteristico sapore della B12 e il colore
giallo della pipì.
La dottoressa della scuola non è amata, anzi è
temuta. Il suo aspetto non è rassicurante. Se ne sta tutto il giorno nel suo
antro all’angolo estremo dove si incrociano i corridoi e ha un naso a becco di
civetta che incute i peggiori timori.
A lei si devono le terribili vaccinazioni antidifteriche,
quelle iniezioni che lasciano la gamba tesa e indolenzita per tre giorni. Il
sospetto è che le facesse di proposito trapassando il nervo sciatico, in
omaggio al già citato principio delle carognate.
Ma Beccodicivetta supera se stessa quando si
devono fare le vaccinazioni al braccio, quelle che lasciano una orrenda
cicatrice grande come una moneta all’altezza della spalla. E più la cicatrice è
vistosa e più, dicono, la vaccinazione “ha preso”.
Beccodicivetta passa qualche minuto
arroventando una specie di penna stilografica su una fiamma e poi la conficca
nel braccio facendo penetrare la punta con un movimento rotatorio che sembra
darle grande soddisfazione.
Ha poi il coraggio di chiedere “Visto che non hai sentito niente?” e
il bambino di turno risponde di no, tra le lacrime. Chi ha il coraggio di
contraddire Beccodicivetta?
In infermeria si va anche per i piccoli malanni.
Un graffio o una sbucciatura trovano sollievo perché qualche benda e qualche
cerotto bene o male c’è. Si abbonda con la tintura di iodio e il mercurocromo,
che lasciano vistose macchie, anche sui vestiti, ma sono la prova della
sollecitudine delle pubbliche istituzioni. Forse tentano di smaltire le scorte
prima che mercurio e cromo siano dichiarati tossici e cancerogeni.
I disturbi di stomaco vengono curati a suon di
Fernet in acqua calda. Immaginate se oggi sarebbe possibile somministrare
alcolici ai bambini!
Per i malanni appena più gravi non c’è rimedio,
e il bidello si incarica di accompagnare lo sfortunato bambino a casa; non è
difficile, perché abitano tutti nel raggio di dieci minuti a piedi.
Nessuno abita fuori Milano. Non sospettiamo
neppure che ci siano abitazioni fuori Milano. Tempo pochi anni, e Milano
sarebbe diventata una bolgia, ma di persone che abitano rigorosamente fuori.
È un enigma demografico.
Ricordo che molti bambini soffrono di “soffio al
cuore”. Sono parecchi anni che non sento più neppure il nome di questo malanno.
È forse un escamotage per evitare l’ora di ginnastica?
Almeno uno su
tre, prima o poi, finisce all’ospedale per l’appendicite. Oggi non succede più.
Probabilmente la diffusione dei frigoriferi ha fatto miracoli per le affezioni
del tubo digerente e ha salvato più vite di tutti gli antibiotici messi
insieme.
Nei primi mesi
di scuola si inizia a leggere. Ben pochi lo sanno già fare e occorre un
tabellone dove ciascuna lettera dell’alfabeto è scritta a fianco dell’oggetto
il cui nome inizia con quella lettera.
Ricordo il metodo, totalmente irrazionale:
— “Questa
è un’ape, quindi AAA… Ripetete”.
—
“AAAAAAAA…”.
—
“Questo è un bue, quindi Biii… Ripetete”.
—
“Biiiiiiiii…”.
Finalmente, dopo una buona
mezz’ora passata in questo modo:
— “Bravi.
Adesso Bi + A. Chi sa come si legge?”.
Il più ardito
azzarda: “BiA”.
— “No!
Bi + A si legge BA, non BiA. Sei uno stupido!”.
E giù un ceffone.
Immaginate la scena quando la maestra tenta di
spiegare la pronuncia corretta di CA, CIA e CHIA.
Col tempo si sarebbe pronunciata non più
la “i” dopo il suono di una consonante, ma solo il suono puro. Non ho mai
capito come facciano a insegnare a leggere in quelle lingue dove il suono delle
lettere non è sempre lo stesso e spesso non segue alcuna regola.
Nei primi mesi insegnano, finalmente,
anche a scrivere. Si passano settimane a “scolpire” righette e puntini sul
quaderno prima di tentare le lettere vere e proprie. Ma stranamente è più
facile che imparare a leggere, visto che si può copiare la forma giusta dal
famoso tabellone.
Imparo in fretta, visto che so già
scrivere in stampatello e conosco già il principio della scrittura, ma non
arrivo mai ad avere una bella calligrafia. I miei compagni scrivono tutti
meglio di me e tutti nello stesso modo; i loro compiti sono indistinguibili.
I miei scritti si riconoscono a colpo d’occhio.
Le lettere sono sgraziate e non sempre hanno la stessa forma. La maestra (e
anche gli insegnanti successivi) rileva il fatto ma non se ne lamenta troppo.
Per me è incomprensibile. Se scrivo la “r” in tre modi diversi nella stessa pagina,
va bene; se con la coda dell’ultima lettera tocco il margine destro, è il
finimondo. Mistero pedagogico.
Bisogna
scrivere in corsivo con aste e filetti. Le aste sono ingrossate, bisogna
premere il pennino che per questo consuma molto inchiostro.
Devo intingere ogni due parole e la cosa
mi infastidisce. Tento di ottimizzare e scopro che se uso il pennino
rovesciato ottengo una scrittura molto sottile, senza aste, ma col vantaggio di
poter scrivere una pagina intera senza ricaricare.
Confidando nel fatto che già posso
scrivere da cane impunemente, spero che questa mia innovazione sia accettata
senza danni.
Non è così. Le aste fanno parte della buona
scrittura e non si possono eliminare.
Ma la maestra è così onesta che in un’occasione
sdoppia il voto sul mio elaborato: Dettato 9. Scrittura 5.
E solo il 9
finisce sul terribile registro.
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Si noti nel
riquadro in alto il voto dissociato S.5
D.9 (la freccia grande indica la “scrittura
sottile” di mia invenzione) |
Mi rendo conto
che nell’occasione ho tenuto il tipico comportamento dei bambini: tirare la
corda per vedere se e quando si spezza. Sembra incredibile che millenni di
evoluzione abbiano favorito questo comportamento pericoloso: immaginate di
vivere in un mondo popolato di gorilla irascibili alti tre metri che potrebbero
uccidervi anche senza volerlo. Il vostro hobby consisterebbe nell’irritarli per
saggiarne la pazienza?
Eppure i bambini lo fanno continuamente e le
cronache nere non registrano poi tanti casi. Forse c’è un meccanismo
compensativo. Nel film Il pianeta delle scimmie uno del gruppo dei
naufraghi si rende conto che intorno ci sono solo scimmioni: “Comandante! Se sono tutti così, siamo
perduti”. “No. Se sono tutti
così, fra sei mesi siamo al governo”, è la saggia risposta.
Avrei applicato il principio venti anni
dopo: avrei scelto di andare a lavorare in un’azienda dove, per lo stesso
motivo, mi sarei assicurato una carriera brillante e veloce.
In quel tempo, a scuola sono inflessibili nei
confronti dei mancini. Ogni utilizzo improprio della mano sinistra viene
retribuito con vigorose bacchettate sulle dita della mano del diavolo.
Quando racconto ai più giovani che ai miei tempi i bambini mancini venivano
picchiati, mi guardano strano. Ma, alla fine, i mancini irriducibili erano
veramente pochi.
Ora, è meglio qualche bacchettata data al tempo
giusto o vedere le odierne legioni di persone che arrancano penosamente con la
penna per vergare una scrittura che con tutta evidenza è stata progettata per
la mano destra?
Tempo pochi anni e il problema non ci
sarà più. Da anni scrivo a penna solo la firma e benedico ogni giorno la
tastiera del computer, che so far viaggiare alla velocità della mente, e non mi
procura quel dolore continuo alla mano per lo sforzo di essere veloce che ha
funestato i miei primi quarant’anni.
Dopo qualche mese dall’inizio della
scuola, sappiamo tutti leggere più o meno speditamente. La maestra organizza
una “gara di lettura” che consiste nel leggere, a turno, un pezzo di un
racconto scelto dal libro di lettura.
Io so già leggere da almeno tre anni e leggo
anche per conto mio, non solo a scuola. Pertanto leggo la mia parte con
particolare fluidità, trovando anche il modo di dare alla voce l’espressione
appropriata al contenuto del racconto. Oggi si direbbe espressione sensibile
al contesto.
A letture terminate, la maestra con
grande enfasi mi proclama vincitore della gara. È troppo contenta e mi sorge il
dubbio che consideri la mia abilità come una prova del suo buon insegnamento.
Ma io so che non è merito suo: io sapevo già leggere, anche senza di lei!
E a questo punto accade l’incredibile:
dagli ultimi banchi mi viene fatta arrivare una caramella, che la maestra mi dà
il permesso di mangiare subito, senza aspettare l’intervallo.
Mi rendo conto che la mia “vittoria” non
aveva suscitato invidia nei miei compagni, bensì ammirazione, e qualcuno, non
saprò mai chi, aveva creduto giusto premiarmi.
Imparo in quel momento che la giustizia è un
generatore potente di sentimenti positivi. Avrei rivissuto esperienze simili in
poche ma significative circostanze nei cinquant’anni successivi.
In azienda, non erano rari i casi in cui i miei
avanzamenti di carriera venissero vissuti dai colleghi non con gelosia ma come
gradini della loro carriera.
Il ragionamento implicito era: “Siamo in una azienda dove si pratica la
giustizia (io ne ero la prova) e
pertanto, se farò bene, avrò anch’io il premio che mi spetta”.
Ho parlato di lettura e di libro di
lettura. Ma cosa leggiamo?
Sono racconti di contenuto edificante, simili a
quelli che si possono trovare nel Cuore di De Amicis. Ricordo alcuni
esempi:
— “La
mia casa è piccola ma ci si sta bene, come uccellini nel nido”. È l’apologia
dei tanti figli in due locali.
— In
quasi tutti i racconti la mamma si alza sempre prima degli altri e va a letto a
mezzanotte, non per dormire ma per avere il “meritato riposo”. La sua attività
è cucinare, lavare e soprattutto cucire, rigorosamente al lume di candela.
Evidentemente rammendi e pezze sono all’ordine del giorno. Le donne sono
educate a vivere in questo modo e a considerarlo giusto e per questo
gratificante.
— In
un altro racconto si legge: “Un uomo
per un certo lavoro viene pagato con un sacchetto di mele. Tornando a casa
sente sete ma si trattiene dal mangiarne una. – I miei bambini ne avranno una
di meno – pensa. E non aveva più sete”. È il festival del lavoro nero e
sottopagato; ma l’uomo non si lamenta, sopporta tutto al pensiero dei suoi
figli (più di uno, evidentemente). Anni dopo avrei letto tra gli aforismi di
Francis Bacon: “Mogli e figli sono
ostaggi in mano al destino”. Sante parole.
— Una
filastrocca dice: “Povero o ricco,
principe o soldato, bisogna accontentarsi del proprio stato”. Si spiega
da sé. Si noti quel bisogna che è parente stretto del si deve
relativo alla minestra.
Avrei appreso
in seguito che una deliberata politica delle istituzioni è non alimentare ambizioni
per non suscitare tensioni sociali.
È lo stesso motivo per cui la politica in
quegli anni inizia a favorire la proprietà della prima casa. “Chi possiede la
casa in cui abita non vota comunista” – sentenzia Amintore Fanfani con qualche
ragione, anche se i fatti in più di una occasione gli avrebbero dato torto.
Ambizioni ne ho avute – ho dovuto averne
– per “liberarmi” a un’età ragionevole.
Ma, potendo scegliere, preferisco sempre
evitare situazioni sgradevoli piuttosto che inseguire gratificazioni che nella
maggior parte dei casi giudico irrilevanti. Dopo aver avuto o fatto una delle
mille cose che fanno impazzire il mondo, mi trovo invariabilmente a pensare:
“Ma è tutto qui?”. Per me il gioco raramente vale la candela. Quello che
non ho, è ciò che non mi manca. Quello che non ho, non può darmi fastidio.
Ora, giunto in
prossimità della sera della mia vita, nella convinzione di essere molto lontano
dalla nascita ma non ancora vicino alla morte, non mi sento di condividere le
parole che trovo scolpite in dialetto sulla tomba di un uomo, un po’ poeta un
po’ filosofo, nel cimitero di un piccolo paese di montagna:
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… eppure questa mia vita dura e amara
la rifarei, con quello che contiene, le avversità e il poco che è stato
sereno: qualche soddisfazione pagata cara. Reagire con forza ai colpi della
sfortuna, mai invidiare nessuno né lamentarsi: |
Amo dire che
“nulla voglio e nulla spero”, tranne che avere la grazia di uscire di scena
penando il meno possibile e traversare l’ultimo ponte senza troppi scossoni,
con la rassicurante sensazione, terminando un’avventura potenzialmente pericolosa
e non voluta, di averla passata liscia.
Per finire, riporto un testo che circola su
Internet e che a me pare divertente e appropriato:
Se eri un
bambino negli anni ’50 come hai fatto a
sopravvivere ?
1.
Da bambini
andavamo in auto che non avevano cinture di sicurezza né airbag. Sulla
Lambretta di papà viaggiava tutta la famiglia, anche in quattro, e tutti senza
casco.
2.
Viaggiare
nella parte posteriore di un furgone aperto era una passeggiata ambita e ancora
ne serbiamo il ricordo. I preti organizzavano così le gite dell’oratorio.
3.
Le nostre
culle e i nostri giocattoli, quando c’erano, erano dipinti con colori
vivacissimi con vernici a base di piombo. Non c’erano apparecchi trasmittenti
vicino a un bambino che dorme “per sentire se respira ancora”.
4.
Tutti i
giocattoli erano forniti di parti piccole e staccabili o taglienti. E noi le
inghiottivamo senza conseguenze.
5.
Non c’erano
chiusure di sicurezza per i bambini sulle confezioni dei medicinali, nei bagni,
alle porte. Le rare prese elettriche erano tutte installate rigorosamente ad
altezza di bambino piccolo.
6.
Quando
andavamo in bicicletta o coi pattini non portavamo il casco né le ginocchiere.
7.
Bevevamo
l'acqua dal tubo del giardino o dal benzinaio invece che dalla bottiglia
dell'acqua minerale sterilizzata.
8.
Uscivamo a
giocare in strada con l'unico obbligo di rientrare prima del tramonto. Non
avevamo cellulari, cosicché nessuno poteva rintracciarci. Impensabile. E
nessuno telefonava alla polizia o all’obitorio se tardavamo cinque minuti.
9.
La scuola
durava fino alla mezza, poi tornavamo a casa per il pranzo con tutta la
famiglia (si, anche con il papà, perché lavorava vicino a casa).
10.
Giocando,
ci tagliavamo, ci rompevamo un braccio, perdevamo un dente, e nessuno faceva
una denuncia o una class-action per questi incidenti. La colpa non era
di nessuno, se non di noi stessi. Gli incidenti non erano occasioni per
spillare una pensione a qualcuno.
11.
Mangiavamo
biscotti, pane olio e sale, pane e burro; bevevamo bibite zuccherate e non
avevamo mai problemi di sovrappeso, perché stavamo sempre in giro a giocare. Se
qualcosa cadeva a terra, si raccoglieva e ci si soffiava sopra. Era anche più
buono. E nessuno era allergico o intollerante a qualche alimento. La celiachia
non esisteva. Tutti i bambini traevano vantaggio dalla pastina glutinata.
12.
Condividevamo
una bibita in quattro… bevendo dalla stessa bottiglia e nessuno moriva per
questo.
13.
Non avevamo
Playstation, Nintendo 64, Xbox, Videogiochi, televisione via cavo con 99
canali, videoregistratori, dolby surround, cellulari personali, computer,
chatroom su Internet... Avevamo invece tanti amici.
14.
Uscivamo,
montavamo in bicicletta o camminavamo fino a casa dell'amico, suonavamo il
campanello o semplicemente entravamo, senza bussare, e se lui era lì uscivamo
a giocare.
15.
Si! Lì
fuori! Nel mondo! Senza un guardiano! Come abbiamo fatto? Facevamo giochi con
bastoni, sassi e tappi a corona. Se c’era un pallone vero si formavano delle
squadre per giocare una partita; non tutti venivano scelti per giocare e gli
scartati dopo non andavano dallo psicologo per il trauma e non diventavano
serial killer.
16.
Non
esistevano “mamme chiocce”, “mamme taxi”, “mamme elicottero”, ecc. ma mamme e
basta. E tutte lo erano un po’ anche di tutti noi. Le mamme non ci avevano
visti prima di nascere con l'ecografia. E non conservavano il filmato
dell’ecografia da far vedere a parenti e amici.
17.
A scuola ci
andavamo da soli e tornavamo da soli. Quando a scuola c'era l'ora di ginnastica
partivamo da casa in tuta. Se a scuola la maestra ci dava un ceffone, la mamma
ne aggiungeva due. Se la maestra ci metteva una nota sul diario, a casa era il
finimondo.
18.
Alcuni
studenti non erano brillanti come altri e quando perdevano un anno lo
ripetevano. Nessuno andava dallo psicologo, dal logopedista o dallo
psicopedagogo; i genitori non ricorrevano al TAR o picchiavano le maestre.
Nessuno soffriva di dislessia né di problemi di attenzione né d’iperattività;
semplicemente prendeva qualche scapaccione ed eventualmente ripeteva l’anno.
19.
Avevamo
libertà, fallimenti, successi, responsabilità... e imparavamo a gestirli.
La
grande domanda allora è questa:
Come
abbiamo fatto a sopravvivere? e a crescere e diventare grandi?
Se
appartieni a questa generazione, invia questo messaggio ai tuoi conoscenti
della tua stessa generazione.
E anche a
gente più giovane perché sappiano come vivevamo prima… Ma sta in guardia: non
ti crederanno!