Demografia

È la scienza che studia i popoli. Nascite, morti spostamenti,
ricchezza, istruzione, religione...

Da pastori di anime a studiosi dell’uomo: così potrebbe riassumersi la nascita della demografia.
Verso la fine del ‘700
Johann Peter Sùssmilch, medico e sacerdote tedesco,
diede inizio a questa scienza, con i suoi studi statistici sulla popolazione.
Anche se sarà un altro pastore,
Thomas Malthus, di poco posteriore a lui,
a essere considerato da molti il fondatore della demografia
(termine usato per la prima volta dal francese
A. Guiliard nel 1855)

I FONDAMENTI
Oggetto degli studi di Malthus e dei suoi successori è la popolazione in tutti i suoi aspetti: quanti siamo (e quanti saremo), come siamo distribuiti sulla Terra, come ci spostiamo, come possiamo essere suddivisi per età, ricchezza, conoscenza, colore della pelle, religione e cosi via.

La raccolta dei dati è spesso difficilissima, soprattutto per il passato i demografi francesi e tedeschi hanno per esempio raccolto dati sull’epoca romana anche andando a cercare la tracce di sepolture nei cimiteri.
I valori assoluti sono stati poi determinati con tecniche statistiche: quel che conta è che siano attendibili. La demografia parte, infatti, dal presupposto che esista sempre un margine d’errore.

Nemmeno uno Stato come gli Usa, in pieno anno 2000, sa per esempio quanti suoi cittadini risiedano all’estero. "Sarebbe impossibile per chiunque determinare con uno scarto di sole 150 mila persone la popolazione attuale di Roma" conferma Antonio Golini, demografo e docente all’università La Sapienza di Roma.

PROIEZIONI E PREVISIONI
Quanto al futuro, i demografi si affidano alle proiezioni, o alle previsioni.

La differenza è fondamentale. "Proiettare" significa estendere nel futuro lo stesso andamento degli anni passati, secondo il criterio se - allora: SE la natalità decrescerà con il trend degli ultimi cinque anni, ALLORA fra dieci anni...
La previsione invece è la costruzione di scenari in cui vengono introdotte variabili ragionevoli, e non viene mai estesa oltre i dieci anni.

Nel caso della proiezione della popolazione mondiale al 2050, per esempio, sono attualmente indicati tre valori sulla base di tre diversi tassi d’incremento.

Utilizzando le banche dati ufficiali (per esempio l’ISTAT in Italia, gli organismi delle Nazioni Unite e altri ancora nel mondo), il demografo analizza l’andamento del tasso di fecondità negli anni passati. La sua abilità consiste nell’individuare un periodo abbastanza lungo da annullare effetti estemporanei, ma non troppo distante da quella che è la realtà attuale. In seguito traccia le due ipotesi estreme, nel caso in cui la fecondità futura si supponga in forte diminuzione o, viceversa, in forte crescita. Tra queste due ipotesi si colloca lo scenario più probabile: nel caso citato 8,9 miliardi di persone per il 2050.

IL CONTROLLO DELLE NASCITE
A che cosa serve determinare uno scenario futuro? Soprattutto ad avere in anticipo le conoscenze per impostare interventi in tempi lunghi.
Come la riforma delle pensioni: per farla bisogna conoscere la composizione futura della popolazione per fasce di età.

A livello mondiale le tendenze demografiche sono studiate principalmente dall'Unfpa (Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione). Il boom demografico è stato per anni il problema più importante, e per i Paesi in via di sviluppo è ancor oggi.

In Occidente, però, la situazione è radicalmente cambiata: il tasso di crescita (ovvero la differenza tra natalità e mortalità) è vicino allo zero o addirittura negativo e ciò comporta l’invecchiamento della popolazione, con conseguenti difficoltà per i meccanismi previdenziali e per le attività produttive.

E l’effetto collaterale della diffusione dei metodi contraccettivi, favorita dai suggerimenti dei demografi e dalla crescita del benessere.

Non altrettanto si può dire dei Paesi più popolosi del mondo. Cina e India crescono tuttora a un ritmo troppo sostenuto. Eppure gli interventi di controllo delle nascite in entrambe le nazioni sono stati drastici: in Cina lo Stato è arrivato a imporre la politica del figlio unico (una legge abolita solo negli ultimissimi anni), con risvolti anche drammatici.
«Sono molto aumentati gli aborti selettivi e persino gli infanticidi delle bambine neonate, poiché, specie nelle campagne le preferivano il maschio» commenta Golini.
«Anche con il risultato di un notevole squilibrio nel rapporto tra maschi e femmine». In India invece si è imposta per legge la sterilizzazione dopo il secondo figlio, anche se mai applicata in maniera diffusa.
C’è quindi da chiedersi come mai interventi così drastici non abbiano funzionato.

POPOLAZIONE
«La popolazione ha una fortissima inerzia, è come un convoglio lanciato ad altissima velocità» spiega Golini. «Noi possiamo rallentarla, ma un certo percorso anche a freno tirato sarà comunque inevitabile».
In Italia, per esempio, le nascite di questo periodo sono date dalle donne nate più o meno nel 1970 moltiplicate per 1,2 (che è il numero medio di figli per donna).
Le nascite nel 1970 non erano ancora in numero ridotto come oggi, quindi il numero attuale delle madri è relativamente alto. Il numero dei bambini però è basso perché le madri procreano poco. Fra trent’anni, anche raddoppiando il numero di figli che ogni donna procrea, le nascite saranno comunque basse, perché ci saranno pochissime madri.

In altre parole, politiche come quella cinese e quella indiana hanno avuto un ottimo risultato, che però non è ancora apprezzabile appieno. Le nascite di oggi in Cina sono ridotte per quanto riguarda il numero medio di figli per donna, Ma le bimbe nate in Cina trent’anni fa erano centinaia di milioni e le nascite di oggi sono ancora molte. «Occorre che si smaltisca l’eccesso di madri, la cosiddetta inerzia demografica» conclude Golini.

In ogni caso a livello globale il freno è stato tirato. Con il tasso di crescita che ci ha portato da 2 a 6 miliardi in un secolo, nel 2210 saremmo 93 miliardi.
Per fortuna, da quando è nato l’Unfpa nel 1969, il tasso di crescita globale è più che dimezzato e il numero medio di figli per coppia è passato da sei a tre.

UTILITA' DEGLI ERRORI
Ma le previsioni sono sempre attendibili? All’inizio del XX secolo, per esempio, i demografi prevedevano per la Francia uno scenario quasi d’estinzione. Responsabili la bassissima fecondità e il milione e 300 mila morti del primo confitto mondiale.

La previsione si rivelò infondata. «Non si può però parlare di errore dei demografi» chiarisce Golini.
Fu proprio grazie a loro, anzi, che la Francia decise di favorire l’immigrazione, concedendo la cittadinanza a chiunque varcasse le sue frontiere. Ecco quindi che le proiezioni dimostrano la loro utilità anche quando vengono smentite.

Secondo Malthus,
la popolazione cresce più delle risorse disponibili.
Ma la sua legge non vale per tutti.

Già nel 1848 quando sulla Terra eravamo poco più di un miliardo, il filosofo ed economista John Stuart Mill manifestava il suo disappunto per il sovraffollamento. Negli stessi anni si paventavano scenari catastrofici per il futuro. Ma è davvero così scontato che all’incremento demografico segua un impoverimento di risorse?

Due opposte teorie sostengono o negano questa affermazione

Thomas Malthus, pastore anglicano, economista e demografo vissuto a cavallo del 1800, elaborò una teoria e una curva matematica secondo le quali la popolazione cresce più rapidamente di quanto facciano i mezzi di sussistenza.
Al punto da generare, nel lungo periodo, freni "naturali" alla crescita demografica, come guerre, pestilenze... Meglio dunque una politica di controllo delle nascite.

I neomaltusiani oggi confermano la teoria originaria, pur ammettendo che l’apporto di innovazioni allontana il momento di massimo squilibrio tra popolazione e risorse. Inoltre denunciano il progressivo danno ambientale, in molti casi irreversibile.

Nonostante l’incremento demografico del nord del mondo sia ormai pari a zero, Paul Ehhic, demografo ecologista, ripete l’allarme lanciato già nel 1968:

«Un neonato statunitense ha due volte l’impatto distruttivo sull’ecosistema di uno svedese, tre volte quello di uno nato in Italia, 280 volte di uno nato nel Ciad o in Ruanda». Gli antimaltusiani, al contrario, vedono proprio nella riduzione delle risorse il principale stimolo al progresso tecnologico e alla soluzione dei problemi posti dall’aumento della popolazione.

Chi ha ragione? Né gli uni né gli altri, afferma il demografo italiano Massimo Livi Bacci: «In generale il modello neomaltusiano si adatta meglio alle economie del passato o ai Paesi basati su economie prevalentemente agricole, mentre quello antimaltusiano si adatta meglio ai Paesi industrializzati.
Ma i rapporti tra incrementi demografici e sviluppo sono spesso oscurati dall’effetto di altri fenomeni». Anche di natura culturale, politica e sociale.

Come l’atmosfera e l’oceano, anche la popolazione
ha le sue correnti: le migrazioni che rimescolano l’umanità.

La colonizzazione del "Far West", in America, fu in realtà una delle più importanti migrazioni della storia del nostro pianeta. Mezzo continente divenne d’improvviso la meta più ambita per moltissimi europei.
Gli irlandesi ci andarono in massa perché un parassita oggi innocuo, la peronospora, aveva distrutto le coltivazioni di patate che nutrivano tutta l’isola. In seguito si sparse la voce della corsa all’oro.
Poi, dai primi del ‘900 fino agli anni Cinquanta, il sogno americano affascinò molti nostri connazionali e un gran numero di asiatici. Tanto che in nessuna città Usa che si rispetti possono mancare Little Italy e Chinatown.

In sintesi: tra il 1840 e il 1910, circa 17 milioni di europei emigrarono nel Nuovo Mondo.

Ma questo è solo uno degli esempi più famosi. La storia dell’uomo è, infatti, costellata da spostamenti di massa.
Guerre, carestie, instabilità economica e politica, calamità ambientali: sono i motivi principali che hanno spinto e continuano a spingere milioni di persone a mettersi in cammino.

DRAMMATICHE MA UTILI
Si stima che nel 1999 le persone che hanno lasciato il proprio Paese per cercare un posto di lavoro siano state 120 milioni.
Il numero dei rifugiati è cresciuto in modo esponenziale passando da meno di due milioni nel 1965 a 27 milioni nel 1995, per assestarsi intorno ai 22 nel ‘99.
Per i demografi, anche se la storia di chi abbandona il proprio Paese è spesso drammatica, le migrazioni sono uno dei segreti del successo della specie umana.

«Se i primi esseri umani non si fossero spostati e mescolati fra loro,
probabilmente saremmo evoluti in specie diverse» afferma Antonio Golini.

In genere le migrazioni avvengono verso le aree economicamente più sviluppate, il che oggi significa verso le tre aree trainanti nel mondo: Europa, America del Nord e Oriente industrializzato, con il Giappone in primo luogo, a cui si aggiungono Australia e Nuova Zelanda.

Ma la capacità di assorbimento dei Paesi sviluppati è molto diminuita rispetto a un secolo fa.
Così se dal dopoguerra le economie occidentali hanno accolto 35 milioni di immigrati, oggi i Paesi del sud del mondo hanno la possibilità di scaricare solo il 2-3% del loro surplus demografico.

Le due "frontiere" attraversate più spesso sono il confine americano - messicano lungo il Rio Grande e il Mediterraneo, porta d’accesso all’Europa per l’Africa e altri Paesi del sudest europeo, come l’Albania.

L’immigrazione, nonostante i problemi arrecati ai Paesi ospitanti, ha dimostrato di essere conveniente dal punto di vista economico. Lo è stata per esempio nella Francia d’inizio secolo, ma anche per il Belgio (famosissimo il caso dei minatori) e la Germania.
Oltre agli immigrati dalla Germania Est, l’intenso afflusso di lavoratori da Italia, Spagna e soprattutto Turchia ha, infatti, contribuito al boom industriale tedesco.

Senza contare che I anche per i Paesi d’origine la migrazione, pur se insufficiente dal punto di vista dell’alleggerimento demografico, rappresenta un prezioso flusso di entrate economiche.
Nelle sole Filippine, per esempio, le rimesse annuali degli emigrati, cioè i soldi inviati ai familiari rimasti in patria, hanno toccato nello scorso decennio gli 8 miliardi di dollari: quasi il triplo degli aiuti finanziari ufficiali ricevuti dall’estero.

DA SUD E VERSO LE METROPOLI
Oltre che a livello globale sono molto interessanti anche le migrazioni interne, che fanno sentire il loro impatto solo a livello locale.
Fanno parte di questa categoria gli spostamenti generati dalla differente possibilità d’occupazione tra il sud e il nord Italia, ma anche fenomeni drammatici come i recenti esodi dei rifugiati di guerra del Kosovo, del Ruanda e del Kurdistan.

Una tendenza che si è via via diffusa nel ventesimo secolo e che riguarda praticamente tutto il mondo è l’esodo dalle campagne verso le città.

I dati Unfpa dicono che la percentuale di popolazione globale che vive in città è passata dal 33 per cento al 47 per cento dal 1960 al 1999.
«I demografi stimano che entro il 2006 la popolazione delle aree urbane supererà quella che vive nelle zone rurali» illustra Golini.
Con la conseguenza che le megalopoli da oltre 10 milioni di abitanti nel 2015 saranno 26, di cui 22 nel Terzo Mondo.


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