Era da un pezzo che avevamo
voglia di affrontare quella che molti ritengono una delle vette più
belle delle Alpi Apuane, anche se è al contempo forse una tra le
meno note, sicuramente una tra le meno frequentate.
Il motivo c’è...e ce
ne siamo accorti solo a posteriori.
Devo dire subito che il modo con cui è stata preparata questa escursione è il perfetto esempio di quello che non si dovrebbe fare: scarsa la preventiva documentazione sulle guide canoniche nonché sull’ormai onnipresente Internet, totalmente assente la richiesta di informazioni ad amici o conoscenti che prima di noi si erano avventurati per la stessa via, eccessiva la presunzione nelle proprie capacità (questo con il senno del poi...del quale, si sa, son piene le fosse).
Per farla breve, domenica 23 Maggio 2004 siam partiti da Empoli i soliti due di sempre, il sottoscritto e Giovanni; Emilio, che sembrava sicuro partecipante, all’ultimo momento ha rinunciato (scopriremo poi che in Roccandagia c’era già stato anni fa, con il Custa e non so chi altri, e, a suo dire, “se si ricordava bene gli pareva che avessero usato le corde”).
Partenza all’ora solita, e
cioè si fissa il ritrovo per le 6,30 per poi partire realmente alle
6,50 (chi sarà il ritardatario?)(6 e 45, prego!).
Il tempo, come spesso succede,
non è un granché; tant’è vero che poco dopo Castelnuovo
Garfagnana addirittura incomincia a piovere. Non un diluvio, certo, ma
quel tanto che basta per farci prendere un po’ dallo scoramento. Comunque
ci incoraggiamo a vicenda, e decidiamo che a Campocatino ci vogliamo
arrivare in ogni caso, alle brutte si vedrà il paese di mattina
presto, senza torme di turisti vocianti, con bambini piangenti al seguito,
a rompere i cosiddetti.
Arriviamo a Campocatino intorno
alle 8,40. Piove a tratti, ma il cielo non è coperto in maniera
uniforme; (perfezionista: piove e basta!!)
uno spirito ottimista potrebbe anche pensare che, chissà, e se smettesse?
Giovanni non è dell’avviso,
e con molta filosofia (nonché sonno arretrato)
si sdraia in macchina a schiacciare un pisolino. (ma
quale pisolino!! il tentativo è quello di cercare di dormire l’altra
metà di nottata mancante, che per me finisce alle 10 circa).
Io, il solito iperattivo, mi faccio una giratina per il paese, sotto un’acquerugiola
leggera ma insistente.
In diverse case, rimesse a
posto più o meno bene, si notano segni di presenze diciamo così
indigene; in una addirittura il proprietario, con spirito assolutamente
contraddittorio, ha provveduto ad installare una bella antenna TV. Ma dico
io, vieni per il fine settimana a Campocatino, posto che più nel
profondo del buco del culo del mondo non si può, e non ce la fai
a resistere senza vederti Domenica In?
Comunque, torno alla macchina verso le 9,30 e mi accorgo che è già qualche minuto che non piove più; sveglio Giovanni (non senza resistenze da parte sua) e comincio una faticosa opera di convincimento a prepararsi per partire per il nostro giro. Intanto effettivamente il tempo sembra migliorare, non che ci sia il sole, ma insomma piovere non piove più e le nubi si stanno lentamente diradando.
Picchia e mena, alle 9,45 siamo
pronti per partire; questo è il giro che vorremmo fare:
Campocatino-Passo delle
Tombaccia-Cresta ENE della Roccandagia-Vetta della Roccandagia-Cresta SO
della Roccandagia-Sella Roccandagia-Carcaraia-Passo Tombaccia-Campocatino.
(Anche
qui ci sarebbe da ridire: io pensavo di andare avanti fino in Carcaraia
poi salire alla Sella Roccandagia e poi per la Cresta SO raggiungere la
vetta).
Inizialmente seguiamo, da dentro
il paese, il sentiero 177, che sale all’inizio per prati in maniera
abbastanza decisa e poi, una volta inoltratosi nel bosco, continua a salire
più dolcemente, concedendosi ogni tanto anche qualche tratto in
leggera discesa. Nel complesso, un tratto che si percorre in maniera piacevole,
e che credo sia ben percorribile anche in piena estate, trovandosi quasi
completamente al riparo di un bosco sufficientemente fitto.
In poco meno di un’ora arriviamo
al Passo Tombaccia. In corrispondenza di un ometto di pietra tagliamo
decisamente verso la nostra sinistra, e incominciamo subito a salire in
maniera repentina: la cresta EstNordEst della Roccandagia
è appena incominciata. Il sentiero non è segnato.
Per un primo tratto il filo
della cresta è ben ampio, tant’è vero che appena si intuisce
di essere su una cresta. Ma le piacevolezze durano abbastanza poco; la
cresta comincia ad affilarsi e il prato a cedere il posto alle roccette;
la pendenza aumenta in maniera decisa.
Ben presto incontriamo un
tratto nel quale la cresta, per un fulmine o chissà per quale altro
motivo (forse semplicemente la proverbiale friabilità della roccia
roccandagesca), è tutta sbrindellata, mezza franata e sicuramente
non percorribile da noi comuni mortali. Allora ci abbassiamo un po’ sulla
nostra destra, in un primo tratto rientriamo per un po’ in un rado boschetto,
poi torniamo allo scoperto e ci accorgiamo che per riguadagnare il filo
di cresta c’è da risalire per paleo e sfasciumi di una buona trentina
di metri. Niente di particolarmente difficile, ma cominciamo ad avere la
sensazione che non sarà una giornata di tutto riposo.
Infine riusciamo a tornare sulla cresta, e ci si para davanti agli occhi effettivamente un bello spettacolo: alla nostra sinistra la conca di Campocatino, di fronte il serpentone della cresta (che vista da qui non appare proprio banale, proprio no), alla nostra destra il gruppo del Pisanino, il Sagro, la Tambura con la Carcaraia tuttora innevata.
Continuiamo a salire, la cresta
continua a essere sufficientemente ampia, ma in alcuni punti non è
che poi ne avanzi tanto.
La parete alla nostra sinistra
(quella che dà su Campocatino, per capirsi) comincia ad essere sufficientemente
scoscesa e quasi verticale, in linguaggio da tempi andati la potremmo anche
definire “precipite”; ma si sa, per non aver paura del vuoto basta non
guardarlo...se ci si riesce.
Il panorama sulla destra è
invece un po’ meno inquietante, ma mica poi tanto...arriviamo alla quota
1.640, e ci fermiamo un attimo. Campocatino, giù in basso, sembra
una cartolina; le casette sembrano quelle dei sette nani, da quanto son
piccole viste da lassù.
Giovanni manifesta dei dubbi
più che leciti sull’opportunità di proseguire; ovviamente
non gli do retta, anzi faccio il possibile per convincerlo a proseguire.
E siccome lui si fida (chissà poi perché) ci riesco.
Arriviamo nel tratto chiamato
“Grondalpo”; visto da Campocatino è quella specie di cassettone
a forma di trapezio più o meno a metà della cresta.
Qui le cose si fanno in effetti
complicate: la parete a sinistra della cresta va giù in maniera
assolutamente verticale; a destra, verticale non è, ma vi assicuro
che è lo stesso ben inclinata (cioè
ci si fermerebbe in fondo). E la cresta stessa non è di facile
percorrenza, perché in questo punto è composta da lastroni
sufficientemente lisci e sufficientemente inclinati verso destra da non
consentirne la percorrenza semplicemente camminandoci sopra, si sente decisamente
la necessità di ancorarsi in qualche modo anche con le mani. Cosa
però che non è per niente agevole, data la levigatezza della
roccia e la scarsità degli appigli.
Incontriamo un passaggio complicato
(per i nostri mezzi, dico): il filo della cresta è composto da un
lastrone di roccia largo una 70ina di cm, inclinato di circa 30° verso
destra e lungo circa 7/8 metri. Si potrebbe anche semplicemente camminarci
sopra, basterebbe avere sufficiente equilibrio; il problema sono quei 650
metri di vuoto alla sinistra, e quegli altri 350 alla destra; l’alternativa
è passare subito sotto, a destra, su un omologo lastrone che offre
degli appigli alla sua sinistra, nel punto di appoggio con il lastrone
superiore. Io passo, con qualche difficoltà specialmente nel tratto
finale; Giovanni arriva più o meno verso metà e non ce la
fa proprio a proseguire (sarà che son più
corto). Arreggiti qui, metti il piede là...si provan di tutte,
ma resta piantato lì. Provo ad andare un pochino avanti, per vedere
se le difficoltà aumentano o diminuiscono. Trovo altri lastroni
simili, ugualmente lisci ed ugualmente inclinati; in uno di essi noto anche
uno spit arrugginito. Decido di tornare indietro (sono andato avanti sì
e no una quindicina di metri) e mi accorgo che in quella situazione scendere
è decisamente più complicato che salire (e già salire
è un bel casino...), e allora ritengo saggia decisione non insistere
oltre e fare un bel dietro-front; sono le 13,30.
Come detto, scendere non è certo più semplice, anzi: infatti Giovanni per fare quei due o tre metri di lastrone all’indietro credo che mi abbia mandato a quel paese (dentro di sé, oh yes) almeno sei o settecento volte; e anch’io, nel primo tratto, un paio di volte ho messo giù i piedi un po’ alla cieca dicendo, tanto c’ho le suole Vibram, reggon di sicuro... (bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: anch’io c’ho le Vibram).
Giunti alla quota 1.640 ci siamo fermati per consumare il meritato pasto, e ci siamo rilassati per una buona mezz’oretta. Una volta ripartiti (verso le 14,10) le difficoltà son diminuite anche in discesa, e al Passo Tombaccia ci siamo arrivati, alle 14,50, senza grossi intoppi. Nei soliti 55 minuti dell’andata da lì siamo tornati poi a Campocatino, dove abbiamo trovato le previste torme di turisti vocianti che come da consuetudine domenicale eran venuti a tentare inutilmente di smaltire il troppo lauto banchetto festivo. Noi, dal canto nostro, ci sbrachiamo una mezz’oretta al solicchio, che intanto ha fatto capolino e finisce così, da veri Merendoni.
Considerazioni
finali:
se volete provare a fare questo
giro, sappiate dunque che:
1. Godrete di uno spettacolo
indimenticabile (le Apuane Settentrionali ve le gusterete in tutta la loro
interezza);
2. Non troverete, molto
probabilmente, anima viva durante tutto il percorso
3. Le vostre abilità
escursionistiche devono essere sufficientemente elevate se non volete fare
dietro-front come abbiamofatto noi
4. e soprattutto, come
è ben descritto in questa pagina web: http://www.df.unipi.it/%7Epetroni/Roccandagia.html
portatevi dietro una bella
corda da 50 mt, un imbraco, cordini e moschettoni, nonché le conoscenze
necessarie per usare tutto questo ambaradan per fare quelle due o tre calate
in doppia ben descritte dalla Silvia Petroni.
Ultima (davvero) considerazione:
il Nerli-Sabbadini (che più
volte ho citato come “Bibbia” delle Apuane) nel descrivere la ENE della
Roccandagia non fa menzione di calate in doppia né tanto meno dà
i “gradi” all’itinerario. Questo suppongo significhi che una persona sufficientemente
esperta potrebbe fare anche a meno della corda; non è stato sicuramente
il nostro caso, e sinceramente non so se sarebbe il caso di nessun altro.
Non vedo motivo di esporsi inutilmente a rischi che si possono, anzi si
debbono, evitare. Secondo me il tratto dove siamo tornati indietro, e soprattutto
i metri immediatamente successivi sono catalogabili senz’altro con un II°
grado, non tanto per la difficoltà intrinseca quanto per l’esposizione
e per la roccia malsicura. Perché mai andarci senza assicurarsi
in maniera adeguata? Non ci danno mica una medaglia. Anzi, ci darebbero
di bischero, alla memoria.
(il testo della relazione questa
volta l'ho scritto io (Alfredo), Giovanni ha puntualizzato qua e la' (le
note in verdolino)).