. Alessandra Tamburini - Pensieri


 

 

 

Un’estate torrida. Sole che spacca le pietre. La luce si propaga per un abuso. Non c’è frasca che interrompa la luce con una speranza d’ombra.

E la provincia. Il sole in provincia. Solleva desideri, sconvolge progetti, assopisce i pensieri.

Le persiane chiuse, senza vetro perché l’ossigeno sia rapito dai polmoni arroventati, i corpi distesi perché la verticalità è dalla calura bandita.

agosto 1985

 

Come se quell’amore non ci fosse stato.

Tacere e non piangere forte perché così risulta

che anche prima non c’era niente.

Ben calcolato. Un segreto così segreto che non si

può dirlo neppure quando non più il mio segreto.

Maledetta questa vita buttata alle ortiche.

agosto 1985

 

 

Gli occhi di mio padre.

Ho rivisto. Li ho scoperti in un volto giovane e segnato da solchi così antichi che la loro memoria si è fatta oggi struggente.

Mi piaceva perdermi negli occhi di mio padre, fino alla stanchezza, fino allo sgomento, fino alla promessa di un vicino appuntamento senza rimando.

Per guardare ancora e ancora il suo sguardo, che era mio.

Un'infanzia impietrita da quella gorgone. Occhi bellissimi, vivaci e tristi, profondi come l'oceano all'imbrunire, quando perde l'azzurro per assumere il colore della terra.

La loro dolcezza mi disarmava, mi disarma.

Un'infanzia vissuta nella contemplazione muta di quegli occhi.

Mentre con il passare degli anni si esasperava la loro vivacità come se la passione, che li aveva sempre accesi, li allucinasse. Ma quando li ricordo sono ancora splendenti e audaci, la mia gorgone.

Poi, altri volti, altri incontri. E le parole. La gente diceva che ero presa dagli studi ma io, in disparte, andavo leggendo le miriadi di parole che si scrivevano brucianti sulla pietra di quello sguardo.

Così, ascolto tutte le favole del mondo. A volte sono dolci e audaci, sono come gli occhi, ma non m'imprigionano.

1982

 

 

Il padre t’insegnò: abbi un lavoro altrimenti non campi. Sopra la panca la capra campa. Sotto la panca la capra crepa.

È difficile avere il gusto della vita a cinquant’anni e dire: campo, o peggio ancora, dire campo anch'io. Anch’io come i cuccioli della Frida o anch'io come ni o come mà.

Non posso dire “anch’io come il padre”, che mi morì giovanissimo e ancora lo penso e lo sogno tanto era caro.

E lui che insegnò a vivere e ne morì, forse m'insegnò a morire? E la madre che mi è sempre parsa una viva sepolta oggi mi pare che morendo m'indichi il morire.

La vita del padre era vitalità, oggi è morte?

La vita della madre era morte, oggi è sopravvivenza?

E io che ho amato tutti i valori, tutte le bellezze, tutta la bizzarria e il bene del vivere, oggi mi pare di cominciare a strizzar l'occhio alla fine.

Mi gravano addosso ancora molte superstizioni: 1a bruttezza, la povertà, la malattia, il peso di generiche responsabilità.

Responsabile: di che? per chi?

Responsabile di nulla e per nessuno. Ma con un peso di responsabilità da fare sgretolare una montagna.

 

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Una sera di dicembre ripensai alla mia vita. Ancora due anni a avrei raggiunto la cinquantina. Una donna a cinquant'anni è sorpassata, è vinta, è finita?

Sì, rispetto ai modelli di bellezza, di giovinezza, di mercato. No, rispetto a modelli oggi attuali, di antiquariato, di arte, di valore storico.

Ma come attraversare il mercato senza vendersi? L'antiquariato è ciò che più avvicina l'arte impagabile, non prezzabile.

E io forse mi lancerò su un mercato mio, di cultura, di passato attuale, di presente storico, di alcuni valori intramontabili.

E come contemperare questa novella giovinezza con alcuni arcaismi dolorosi, con alcune anticaglie tenute nel portafoglio a mia insaputa? 

Come intendere la gelosia per il suo verso giusto, senza farne un simulacro?

Come muovermi liberamente fra i libri e le pergamene, senza più badare al servi e agli animali, insomma alle origini?

Come volere una mia dignità, oggi più che mai? I vecchi dicono nel volto e nei gesti come furono in gioventù. Possa io dire la poesia, la gentilezza, la meraviglia, il coraggio. Come, me lo diranno gli anni, gli anni a venire; e le persone che avrò attorno a me. E ancora non so chi.

14 dicembre 1986

 

 

Forse ho creduto in qualcosa, anziché avere una fede.

Forse ho sbagliato tutto, e tutto mi ritorna così scipito, così minaccioso. Tanta industria mi ritorna come truffa.

Certo, avere lavorato, per qualcuno o per qualcosa, mi ha cosi deluso. La delusione non fa poesia.

Voce così timida, cosi calpestata, così ambiziosa di vittoria e così annichilita.

Rifletto su questa scuola della parola e mi pare di essere nella follia.

Non intendo più nulla della cose pratiche. Fra la pratica e la praticona, solo un suffisso maggiorativo. E la praticante?

Trovare la pratica della parola. Dove? Nelle conversazioni di Borges? Nel dialogo di Platone? 

La formazione: formarsi e formarsi e formarsi, sempre la stassa forma? Uno slittamento della forma? Una messa a fuoco della forma?

L'opportunismo: affinché esista l'opportunità. Affinché mi si dia l'opportunità, occorre il suo opportunismo?

Quando il cielo è cosi azzurro...

 

 

Parlando del funerale di Giangiacomo Feltrinelli

Conoscevo l’ingresso al cimitero monumentale di Milano e ci andai per l’occasione a rivederlo. Assaporavo il piacere di attraversare quei viali ghiaiosi che costeggiano le grandi pietre tombali, i marmi lucidi e scostanti, le statue sempre neoclassiche, angeliche, assorte.

Assaporavo il gusto di un contrasto che non poteva non risaltare fra quella classicità e l’attuale cerimonia funebre, quella morte così inquietante, così poco angelica, fuori da tutti i canoni classici. Ma assorti lasciava, quanto i marmi tombali.

Sostando dinanzi al cancello la gente si guardava. Infastidita di trovarsi folla. Ma la folla di quel giorno non era la folla manzoniana che a onde e a spintoni si fa marea. Era la folla che ci regalava il sessantotto, la folla più interessante che la storia ci abbia mai regalato. Volti pensosi, figure solitarie, occhi persi in un’avventura, in una favola.

La favola della piazza aveva soppiantato la favola del bosco e l’altra favola del campo.

La variopinta folla della domenica sulle piazze di città non ha colore in confronto alla folla di quel giorno. L’eskimo grigioverde così noioso, così uniforme non può far distogliere lo sguardo da quei volti vivaci della migliore gioventù milanese. Lo splendore del sole in quegli occhi, in quelle teste chiomate rese omaggio al morto.

Il morto era Giangiacomo Feltrinelli. Sfilò il corteo fra quei marmi. Mi tolsi dal corteo, volli osservare da fuori. Facemmo ala.

Sfilò il feretro, mestamente adorno, le donne, gli amici, gli altri. La commozione attanagliava gli animi perchè qualcosa era morto. Non si sapeva bene cosa. Di certo non si trattava solo di un corpo.

Si fermò il gruppo della pietà e si accalcò quella folla tutt’attorno.

Ci fu silenzio.

Era una folla immensa, ma ciascuno era solo. Anche fisicamente. Quei giovani sapevano gestire lo spazio secondo un concetto di transfinito. C’era tanto spazio fra quella immobilità. E allora accadde l’indimenticabile. Fra quei marmi si levò il canto dell’Inter-na-zio-nale.

1972

 

 

A me i pensieri sfuggono sempre. E vanno dove vogliono, magari a strapparmi lacrime dagli occhi o a mettere spine nel cuore.

E rivedo il padre quel giorno bello delle ferie d’agosto [1971], in quello splendore che sa avere solo chi è vicino alla morte.

Come se attorno a lui ci fosse un tempo immenso a separarlo da noi che pure lo vedevamo così vivo ancora, così nostro, così caro.

Ma lui, presente e assente, distratto e attento, gioviale e pacato, dopo quel mese d'agosto se ne sarebbe andato, forse infastidito dalla prime piogge settembrine, forse sconfortato dalle prime brume grigie della valle e dalle brezze serali per lui troppo fredde.

Che io non fossi con lui a dirgli di restare, di restare ancora, che lo avrei difeso dal gelo, per quell’inverno e per altri ancora, che io non fossi con lui gli ha dato l'occasione di andarsene, solo, indifeso dal gelo, di andarsene per sempre nel gelo.

La morte è parola che non riesco ad associare a padre. Morte del padre o padre morto o padre-morte o morte-padre. Forse ci vuole in mezzo un’altra parola. Padre pianto morte. Così ci sono anch’io, fra lui e la morte, fra la morte e lui.

10 novembre 1985

 

 

Mi accorgo soltanto ora che questa scuola è stata nel passato una cosa troppo inportante, che era il centro di un mondo immaginario mostruoso, che era la corte.

Le aspirazioni dei miei primi anni di lavoro non erano diverse da quelle che hanno condotto mio padre lungo la sua carriera esemplare nei quarantaquattro anni di indefessa attività al servizio dell’Istituto.   

L’ansia di ben fare era molto simile a quella che insegnano i preti che soprattutto insegnano a procurarsi garanzie per il futuro, ma nel dubbio si accaparrano (dare caparre o prenderle può anche sembrare la stessa operazione) bocconi smisurati e questo coincide con l’ansia di possedere anche a costo di mal fare.

Ma il bambino che ha mangiato l’ansia di ben fare è il grande fottuto della civiltà cristiana.

Le aspirazioni dei primi anni erano dunque quelle di un’esemplarità modellata sull’esemplarità assoluta, di mio padre, del Cristo, di tutti i direttori del mondo.

lunedì 19 giugno 1972

penultimo giorno alla Scuola Tedesca

 

 

Trattandosi di un enfant terrible, occorre essere distanti e non sinceri: inutile fare chiarimenti o gesti di pacificazione.

Bisogna trovarsi nel punto di umanità in cui la lotta diviene parola.

 

 

 

 

 

La prima novella

La piccola doveva essere mutacica. Mutola fino all'età di tre anni, pensosa e silenziosa. Era incline a giochi seri, trattenuta per ore e ore attorno a una scatola di vecchi bottoni spaiati o alle prese con le strisciole di carta che qualcuno aveva battezzato tessere tranviarie o in piedi in riva al mare a giocare con un sasso.

I vecchi bottoni spaiati erano da riordinare, come ottenere che un adulto lo capisse e aiutasse davvero a riordinarli, a riportarli al loro ordine, quale non poteva sapersi prima, ma un ordine lei lo avrebbe trovato. I colori la attiravano, la catturavano in un abisso di smarrimento e di eccitazione.

Il bottone rappresentava un'unità estetica: certe fatture complesse con cavità sinuose e variegate curvature, con minuscoli fronzoli a pendaglio, a treccia, a gioiello rappresentavano per lei non meno di quanto dovette rappresentare un capitello dell'ordine dorico, ionico o corinzio per il cittadino greco. Istituiva differenze, intuiva associazioni, fantasticava varianti.

La solitudine che la legava ai bottoni era certamente connessa con la dimensione asociale in cui s'inscrive il bottone unico, staccato dalla stoffa, non imbrigliato all’anello che chissà per quanto tempo chissà in quante occasioni lo aveva legato a  un tessuto da cui si sarebbe poi legalmente o fraudolentemente diviso.

Poesia dei bottoni spaiati al cui connfronto il gioco delle tessere del tram sfigura per coreografia ma non per arguzia. Erano strisciole di carta che l’intraprendente genitore aveva cucite in blocchetti e incollate dentro una sacca chiusa che simulava la borsa del controllore. E doveva piacerle gestire, contare, controllare il passaggio, sorvegliare l’entrata. Con quella sacca a tracolla.

Che l'ingresso debba essere controllato è fantasia primitiva  oltre che infantile: l'ingresso dell'ombelico dell'universo è sorvegliato da Caronte. Cane o demonio o controllore. Carriera affascinante per la piccola ambiziosa .

Autunno 1981

 

Il senzadio

Ah, la notte!

Svegliarsi nel cuore della notte è un evento. Se poi si sentono i battiti del proprio cuore accelerati o per lo spavento di un colpo sferrato alla parete dal vicino o per lo sgomento dell’ultimo sogno carico di ricordi o magari per il ripetersi di un lontano sogno che parve premonitore, allora l'evento culmina nell’emozione.

Il silenzio della notte, rotto dal gracchiare di una gilera, si riaggiusta come per un mastice invisibile. Rilke dice che, come api, raccogliamo il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare dell'invisibile.

Chi vuole sentire il respiro della notte cerchi di trovarsi nella stanza da solo: sono attimi estremi, quando la vita trascorsa ritrascorre e si fa presente, per annunciare un futuro che s’inanelli in un passato già nuovo.

È allora che pare d'intendere quello che dicevano di Dio i Padri della chiesa: che vede simultaneamente, passato presente futuro. La simulazione viene attribuita a Dio, ma l'uomo ha dovuto provarla per poter immaginarla.

È allora che si ode il tarlo, non l’immaginario insetto che teneva desti i due fratellini orfani nella poesiola del Pascoli, ma il tarlo reale del mobilio primo novecento, il tarlo che l’indomani a chi se ne ricorda si lascia immaginare in quei minuscoli forelli dell’anta dell’armadio.

È allora che l'eterno si cala nell’istante, e non sembra una persona, quella Persona di cui ama fantasticare l’uomo quando dice “l’Eterno”.

È allora che si avverte l’attesa, non l'attesa dell'autobus alla fermata secondo l'orario pubblico, non l'attesa dell'amico alla porta di casa secondo l'appuntamento privato, non l'attesa convenzionale né l'attesa concordata, bensì l'attesa grande, forse l'attesa biblica di un messia, forse l'attesa dell'ultimo giorno di vita, o forse la semplice ma pur grande attesa della luce del giorno che sorgerà.

È allora che si fruga nel silenzio e nel buio alla ricerca della verità, di una qualsiasi verità. E può capitare che si apra un cassetto e lo si trovi vuoto. E un altro, e un altro ancora, via via tutti i cassetti della sfarzosa cassaforte delle idee lussuose: nessun cassetto contiene una verità. Ogni cassetto contiene parole, frasi, paradigmi, utili per parlare con altri, utili per scrivere lettere, utili per fare carriera. Ma, quella notte, nessuna traccia di verità.

È allora che si è assaliti da un pensiero più pesante degli altri. Anche Dio può diventare un pensiero: se Dio esista, se esista quella Persona che adoriamo, se ci si debba affidare a Dio in ogni frangente, se da sempre la Pietà Celeste ci ha affidato a un angelo custode. Adorazione, angeli custodi, Dio Persona, esistenza di Dio: sembrano le parole di uno di quei cassetti privi di verità. Ben di più: Dio è il pensiero.

Il chiarore notturno, appena percettibile, dalla finestra racconta di pallidi lampioni o di astri splendenti.

agosto 2009