Giulia Centurelli - Poesie e Lettere

[Testo tratto da “Lettere e poesie per una rivoluzione” – Bruno Ficcadenti]

 

 

Le poesie e le lettere di Giulia Centurelli offrirono non po­chi spunti al giudice accusatore per denunciare lei e i sui ami­ci, corrispondenti e ammiratori, di «delinquenza politica».

Tanto fu che il Collemasi, nella sua Relazione al presidente del supremo tribunale della S. Consulta, faceva osservare che, «relativamente alla Centurelli è venuto con ogni certezza a ri­sultare, che essa non appartiene né a setta, né all'anzidetta Società, ma responsabile siasi resa d'ingiurie scritte, non pub­blicate, alla Santità di Nostro Signore, alla dignità del Gover­no, a Sua Maestà Siciliana, e che abbia un sentire veramente repubblicano, oltre ad una depravazione anche religiosa, sul che sembra ora pienamente ricreduta. Fu vittima della sedu­zione: succhiò nel primo sviluppo degli anni tali riprovevoli principi dall'inoggi defunto avv. Rumori d'Ascoli, e dalla let­tura di cattivi libri».

In effetti l'adolescente Giulia, di fronte ai fatti del '48-'49, trovava l'ispirazione per comporre questi significativi versi:

«Ecco il tuo sdegno Italia

Celato un altro poco

Finché di libertade

S'accenda il divin foco

Venga il nemico allora

Lo spenga se potrà

Venga pure intrepido e forte

L'Italia e la morte l'abbatterà»

                                                     (Novembre 1849)

Poi, via via maturando, esprimeva in versi la sua inequivo­cabile convinzione politica, nell'inveire contro Pio IX, nel ri­volgere versi di maledizione «Ad una donna datasi allo stra­niero».

Con più equilibrio analizzava il trono del despota, che «gronda sangue», e il trono di «pietà» retto dal popolo fi­ducioso. Quindi con patriottica nostalgia cantava malinco­nicamente di fronte al sole che non era più splendido come quello dell'antica gloria italica.

Tra il Dio dei martiri della fede cristiana e il Dio dei popoli del credo mazziniano inneg­giava alla «santa» guerra di liberazione. Infine si acquieta­va nell'inno della speranza, come pure nell'accorata invoca­zione all'Italia e alle «italiche genti».

Era intorno alla metà degli anni Cinquanta quando la gio­vane Giulia, così poetando, incontrava personalmente Nicola Gaetani Tamburini, il quale da Monsampolo furtivamente si era portato ad Ascoli Piceno su invito del Selva.

Da quel momento sorsero fra loro sentimenti di reciproca stima che li accomunavano negli studi e negli ideali. Tutto ciò si può rilevare dalle lettere di Giulia, che rimangono a testimonianza di un'intensa corrispondenza epistolare fra i due.

La Centurelli infatti, subito dopo che il Gaetani Tamburini le aveva indiriz­zata una lettera di cortesia e di ringraziamenti, per la premurosa accoglienza che gli aveva fatto durante il suo soggiorno in Ascoli, rispondeva: «Vi ringrazio della gentile protesta che mi fate di avermi sempre nell'animo, e il vostro linguaggio lungi dall'offendermi, mi ha fatto conoscere ancor più la bontà del vostro cuore [...] V'incoraggio all'opera benedetta d'in­nalzare la donna».

Il Gaetani Tamburini in risposta inviava alla giovane ascolana alcuni libri e le sue iscrizioni, chiedendo in cambio una composizione. Al che ella: «Vi rendo mille grazie di tutti i libri [...] e del dono gentile che mi avete fatto de le belle iscri­zioni su la donna [...] La donna ha in voi un campione, in cui può riposarsi ciecamente, ed abbandonarsi in un lieto avveni­re, dimenticando il tristissimo passato [...] Qui acclusa trove­rete una mia poesia fatta di fresco».

Dal momento, poi, che il discorso epistolare fra i due si incentrava sulle letture e su­gli studi, sul commento e sull'illustrazione della Divina Com­media, e perciò si scambiavano rispettive composizioni, la gio­vane artista e poetessa faceva osservare all'amico lontano che aveva composto quattro disegni ispirati al 27° canto del Pur­gatorio dantesco. Poi, inviandoglieli, per modestia, osservava: «Vedete da per voi come sono riuscita male. Se avessi la valen­tia che ha Flaxman, nel disegnare, nel dare espressione alle fi­gure con pochissimi segni, forse avrei fatto qualche cosa di meglio».

Con la successiva lettera ragguagliava l'amico monsampolese «di non aver letto più che otto volumi della Storia universale di Cantù». Specificava: «Mi è convenuto sospenderla per leggere il Rinnovamento d'Italia di Gioberti, e le opere del Leopardi [...] Ora sto leggendo l'interpretazione al Petrarca del Leopardi; e poi, amico mio, bisogna che ceda una buona parte del giorno al disegno».

Faceva seguire una sua ri­flessione sulla grandezza della poesia del Foscolo: «Mi dà un consiglio nell' Inno primo [delle grazie], quando dice: — Sde­gno il verso che suona e che non crea — non vi pare una lezio­ne giusta giusta per me?! Vi assicuro che quando lessi quel verso mi colpì tanto che feci proponimento di non scrivere più nulla».

Ispirata ancora dalla vita del Foscolo, chiedeva: «Siete voi felice? Vi stimano tutti a seconda del vostro merito? Siete voi libero? Prevengo la vostra risposta, e mi conferma nella mia opinione. Voi mi direte che vi tengono relegato in luogo ov'è la vostra famiglia, nella vostra patria insomma, è vero, ma il vostro cuore avrà bisogno di cuori e d'uomini altamente grandi [...] E vi pare il luogo ove siete bastante a ciò?».

Con l'ultima lettera, rimasta con le altre agli atti della «processura», ringraziava ancora una volta il Gaetani Tambu­rini di averle fatto avere l'opera del Berchet e di averle dato la piacevole occasione di trascorrere qualche tempo insieme in Ascoli.

 

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