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Tempio di Mitra Relazione Torielli Gli Scavi

 

By. Federico Cappello

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La lunga storia a Moleto degli scavi per il tesoro
Sondaggi del 1876 degli abitanti di Camagna e poi dei soldati del Genio Zappatori del conte Candiani – Barberis e Maschera
Prendiamo ora in esame, a completamento della nostra cronistoria sulle caverne dei Saraceni di Moleto, le campagne di scavi effettuate nell’ingresso delle grotte nella valle dei Guaraldi alle falde del colle di San Germano.
Gli scavi di una certa consistenza si articolano in due cicli: il primo effettuato da Pietro Maschera nel 1926-27, il secondo dallo scrivente dal novembre 1955 al marzo 1956. Altri tentativi di sondaggi ed abbozzi di scavi furono esperiti in epoche diverse, come diremo passando in rassegna le memorie raccolte nel corso della nostra trentennale indagine.
Le prime nozioni di scavi eseguiti nella valle dei Guaraldi risalirebbero al 1876, quando abitanti di Camagna, giunsero in sede scavando nei mesi invernali. L’epoca infatti prescelta per gli scavi inzona fu sempre quella dei mesi da novembre a febbraio all’incirca, a motivo dei diminuiti lavori nei campi che permettevano una maggiore disponibilità di mano d’opera. L’anno della venuta in sede di quei di Camagna fu desunta oltre che dalla tradizione, dalla data incisa sulla parete dell’ingresso
delle grotte. Non risulterebbero scoperte di alcun genere.
I successivi sondaggi dei quali si conserva memoria, sarebbero quelli eseguiti da Compagnie del Genio Zappatori, per incarico – si diceva – dell’ammiraglio conte Camillo Candiani di Olivola,residente appunto in tale borgo, poco distante dalla valle dei Guaraldi. Narra la tradizione, come inun anno non precisato dei primi del secolo (quando l’ammiraglio Candiani, dopo aver guidato la
spedizione italiana in Cina al tempo della rivolta dei Boxers, si ritirò a vita privata ad Olivola)alcuni cacciatori, causa un temporale, si rifugiarono nelle grotte, sotto il cornicione tufaceo tutto ravisibile, in una camera abitata saltuariamente da pastori.
La violenta pioggia avrebbe fatto franare un ammasso di terra e tufi donde emerse un oggetto brillante che rappresentava - si narra – un Agnus Dei aureo. La "pecora", come nel 1954 era chiamato il manufatto dagli abitanti di frazione Prera dai quali fu desunto il nostro racconto, fu portato al conte Candiani, ad Olivola, il quale – si dice – inviò nell’ingresso delle caverne una Compagnia del Genio Zappatori nell’eventualità di ulteriori scoperte, ma con risultati negativi. Imprecise sono le notizie riguardanti anche un personaggio di Moleto, Giuseppe Barberis di antica famiglia locale, costruttore dello stabilimento termale della Curella.
Il Barberis effettuò scavi nella zona, decentrata rispetto alla valle dei Guaraldi, per l’impianto dei tubi che recava l’acqua alle vasche della "Curella" traendola dal deposito tuttora esistente nell’interno del colle di San Germano, con l’ingresso ubicato proprio sotto i silos di raccolta del tufo macinato, presso i quali passano gli autocarri per il prelievo del materiale che trasportano a Morano.
La galleria di accesso al laghetto, interamente scavata nel tufo, fu murata con una parete di calcestruzzo allo sbocco nella cavità dove si raccolgono le acque del colle, alimentate sembra da sifoni sotterranei collegati alla caverna centrale sotto il colle di San Germano.
Nel 1954 un tecnico della "Marchino" ci descrisse l’ampia cavità a forma circolare piena d’acqua,intorno alla quale corre un sentiero largo poche spanne, scavato nel tufo stesso, a pelo dell’acqua,che contorna il bacino.
Estremamente pericoloso per i curiosi che vi si sarebbero avventurati fu murato nel 1954 o qualche anno prima. La pittrice Elsa Barberis, nipote del Giuseppe citato, ci spiegò come lo zio le proibiva di giocare nella valle dei Guaraldi: inoltre egli affermava con sicurezza che i Saraceni giunti in zona, abitarono la lunga galleria diretta nell’interno del colle in direzione della distrutta chiesa di San Germano. L’argomento rimane sospeso per la mancata consultazione delle carte d’archivio dei Barberis, custodite nell’antica casa della famiglia a Moleto.
Tali gli scarni cenni relativi ai sondaggi o comunque connessi a ricerche in zona. Fu soltanto nel 1926 che organicamente ci si attrezzò per effettuare uno scavo completo nell’ingresso delle caverne nella valle dei Saraceni.
Fu come già dicemmo, Pietro Maschera, il quale dopo la scoperta del manoscritto redatto nel 1626 dal conte Fabrizio Mola di Ottiglio, iniziò l’indagine in zona, trasformatasi nell’inverno del 1926-27 in una vera e autentica campagna di scavi. Trasferitosi egli alla frazione Prera, sul colle stesso di San Germano, presso la famiglia Cressano, cugina con la di lui madre, fu aiutato dagli agricoltori possidenti del luogo.
Pietro Maschera ci precisò nel 1954 e negli anni seguenti, come nel 1926 il cornicione tufaceo a pianta semicircolare, sotto il quale si sarebbe dovuto entrare era coperto da fitta vegetazione. Uno stretto pertugio immetteva in una camera di qualche metro di lato, dove al centro si ergeva una colonna di tufo, alta un paio di metri circa.
Pareva che sullo sfondo, in altri tempi, esistesse una galleria, della quale nel 1926 a malapena se ne intuiva l’imboccatura. Rottami e terra, terra e tufo occupavano le cavità ipotizzate sul lato sinistro di chi entrava. Nella valle di fronte all’ingresso citato sgorgava e sgorga tuttora una fonte di acqua.
Gli agricoltori dopo settimane di scavi lentissimi, furono bloccati, già scrivemmo, dai Carabinieri di Ottiglio, avvisati dell’ipotetico ritrovamento di un fantomatico "tesoro". Sospesi i lavori il Maschera fu interrogato dal Procuratore del Re in Casale, per le opportune spiegazioni. Nulla ovviamente risultò a suo carico se non la canagliata posta in atto dai possidenti per allontanare il
Maschera e proseguire per conto proprio gli scavi. Quanto in realtà avvenne.
In quindici giorni la terra ammassata nel 1626 dal "vecchio governo Mantovano" ossia dai Gonzaga di Mantova Monferrato, per bloccare (come scrisse l’abate de Morano nella seconda metà del Settecento) i briganti asserragliati nelle caverne, fu scaricata nella valle e sorprendentemente narravano alcuni testimoni ed esecutori dello scavo, ancora in vita nel 1954, apparve l’ingresso delle caverne.

Le facce "paurose" trovate da Cressano

Nelle grotte dei Guaraldi – Un condotto sotterraneo scoperto dal cane dei Cirio – La cavità è stata rinvenuta nel 1926-1927
In quali condizioni emersero le cavità iniziali delle caverne dei Saraceni con l’ingresso nelle valle dei Guaraldi? I racconti e le descrizioni forniteci nel 1954 e negli anni seguenti da alcuni di coloro che presero parte allo scavo concordano nella descrizione. Le cavità si sarebbero rivelate alte 5-6 metri, con vani a pianta vagamente circolare.
Le pareti risultarono di tufo netto e pulito, Apparve una tavola di tufo lunga m. 1,50 circa, larga cm. 70, addossata ad un sedile scavato nella parete. Su tale nicchia-sedile erano incise entro un rettangolo le parole "Extra limen" ossia "fuori, al di là del confine" o "del limite". Sul tavolo giacevano allineati alcuni vasi di bronzo alti circa cm. 30, con fregi di rose all’intorno. Essendo i vasi coperti da una spessa patina verdastra, non vennero presi nella dovuta considerazione ma gettati tra i rottami, come ci raccontò Luigi Cirio, del quale diremo tra breve.
Alessandro Cressano spiegò che con i vasi apparvero "facce che noi abbiamo rotte perché facevano paura": a cosa possa riferirsi questa frase, ignoriamo. Evacuate le tonnellate di terra nella valle antistante, le cavità rivelarono un masso piramidale accuratamente levigato e squadrato che parrebbe dovuto alla mano dell’uomo.
I superstiti scavatori del 1926-1927, da noi avvicinati nel 1954 erano ancora stupefatti per l’ampiezza delle cavità e per la mancata scoperta del condotto o galleria che sprofondasse nella collina. Il pavimento della grotta appariva composto di rottami di tufo e di terriccio. Dopo auscultate le pareti per scoprire eventuali imbocchi di gallerie coperti da lastre di tufo e nulla trovando, abbandonarono essi le cavità ripulite e sgombre di rottami, notevolmente suggestive nella propria maestosità fatta di tufi, silenzio, vuoto, rischiarata da torce, acetilene e candele.
Noi oggi avremmo potuto incontrare quindi l’ingresso delle caverne totalmente sgombro come lasciato nel 1927 dai possidenti locali, se un caso più unico che raro non avesse provocato, per una straordinaria beffa del caso, un intervento da parte di altri sterratori che finirono di colmare con cascami di tufo, le ieratiche cavità, fino al soffitto, ricostruendo l’habitat creato nel 1626 dal "vecchio Governo Mantovano".
In una zona dove l’incredibile pare all’ordine del giorno non dovrebbe sorprendere quanto stiamo per narrare.
In quell’inverno del 1926-1927 mentre i possidenti scavavano dapprima lentamente poi – dopo l’allontanamento di Pietro Maschera – stringendo i tempi, erano soliti transitare nella valle dei Guaraldi, per recarsi al lavoro nei campi, due agricoltori di Ottiglio: Antonio e Luigi Cirio. Il racconto che segue ci fu narrato non una volta soltanto nel 1956, dall’amico Luigi Cirio, che con il fratello Pietro e il loro padre Antonio furono i protagonisti di quanto scriviamo. Antonio e Luigi Cirio, passando al rientro a casa nella valle dei Guaraldi, si fermavano sovente a scambiare frasi scherzose sui lavori in corso e sul fantomatico "tesoro" che ne sarebbe dovuto emergere. Particolari questi confermati dallo stesso Pietro Maschera, presente agli avvenimenti, nel primo ciclo degli scavi. Anzi in una occasione i Cirio aiutarono a smuovere un gigantesco blocco di tufo che ostruiva parzialmente l’ingresso delle grotte. Passarono i giorni ed i Cirio curiosavano un poco scettici sui progressi in atto.
Era con loro un cane segugio che li accompagnava nei loro andirivieni da Ottiglio ai campi e al ritorno. Il cane, sensibile all’odore delle volpi e dei tassi, che ancor oggi numerosi abitano le cavità e i cunicoli nella valle dei Guaraldi, in molte occasioni cercò di intrufolarsi tra gli sterratori, ma fu sempre trattenuto dai Cirio per evitare che, una volta entrato nei budelli, si perdesse nell’interno della collina, come già era accaduto per altri animali.
Ma un pomeriggio, in un momento di distrazione il cane sparì nei crepacci del tufo presso l’ingresso dove gli sterratori lavoravano. Alle grida di richiamo di Luigi Cirio, fecero eco quelle di suo padre Antonio, il quale salito sulla parete di tufo antistante l’ingresso, seguiva con l’orecchio e con l’occhio il percorso sotterraneo del cane, che con il caratteristico ululato dei segugi sulla peste della selvaggina, segnalava il sotterraneo da lui percorso.
Antonio Cirio urlava, in dialetto, al figlio Luigi: "ecco, senti le urla! Il cane passa presso le tre roveri di… [e qui il nome di un possidente da noi dimenticato]. È sotto la strada di San Michele!
Continua diritto verso la [frazione] Prera!". A poco a poco, man mano che l’animale, con discreta velocità, si addentrava nella collina, i latrati diminuivano d’intensità fino alla loro cessazione.
L’impressione riportata dai Cirio e dai presenti fu prepotente. Inequivocabile risultò la presenza di un condotto sotterraneo nell’interno del colle di San Germano che il cane percorreva, a giudicare dal rapido affievolirsi dei guaiti, con notevole andatura.
Antonio Cirio si dichiarò convinto dell’esistenza delle gallerie e Luigi ci narrava il profondo sbigottimento propri, del padre e dei presenti nel constatare di persona l’incredibile corsa del cane nell’interno della collina. I Cirio dettero il cane per smarrito, in quanto abbastanza di frequente, ancor oggi, i segugi che s’intrufolano nelle tane delle volpi e dei tassi, sparse un poco ovunque nel
friabile tufo del colle di San Germano non ritornano più all’esterno e muoiono sovente dopo giorni di agonia e di latrati strazianti udibili dall’esterno del colle, in qualche budello degli ipogei di San Germano.
Ma i Cirio furono maggiormente sconvolti quando, tre giorni dopo, videro ricomparire il cane a casa, il quale più fortunato o più abile dei suoi simili, trovò un’uscita, probabilmente una tana di volpe che gli permise di porsi in salvo.
Da quanto esposto in queste nostre cronache, basate sui documenti d’archivio, la scomparsa abbastanza frequente dei cani ingoiati dal colle di San Germano sottolinea l’intrico di condotti e budelli percorsi da volpi e tassi in comunicazione con gli ipogei dei Saraceni che si trovano ad un livello ben più profondo di quanto ovviamente non lo siano i complessi abitacoli degli animali abitatori della valle dei Guaraldi e delle zone circostanti.

Gli scavi dei Cirio: impresa sbalorditiva

Quaranta metri di galleria: tuttora resta l'unico ingresso alle grotte.
L'insignificante (ma solo in apparenza) avvenimento che ebbe protagonista il segugio dei Cirio, determinò in realtà un nuovo fattore nella storia delle caverne dei Saraceni. Antonio e Luigi Cirio raggiunsero in tal modo la convinzione assoluta - al di sopra delle affermazioni di Pietro Maschera pur basate sulle memorie del conte Fabrizio Mola di Ottiglio - dell'esistenza delle caverne nel colle di San Germano: essi, testimoni della fuga del loro cane nelle cavità, non potevano nutrire ulteriori dubbi in merito.
La certezza di scoprire quel che non avevano trovato ne il Maschera ne i possidenti a lui succeduti negli scavi nell'ingresso delle grotte nella valle dei Guaraldi, li spinse alla prosecuzione delle indagini. Il proprietario del terreno dove si apre l'ingresso delle grotte, ricusò loro il permesso di  scavo.
I Cirio allora decisero di iniziare nel terreno confinante a quello interessato e , sulla stessa parete di tufo precipite nella valle, lo scavo di una galleria che, addentrandosi nel tufo vivo del colle,aggirasse le cavità svuotate dal terriccio nella campagna di ricerche del 1926-1927, per incontrare in tal modo, oltre la parete terminale delle grotte naturali, l'ipotetica galleria che li avrebbe condotti nel grembo della collina e nelle conseguenti caverne.
A scriverlo parrebbe un lavoro di normale routine. In realtà fu un'impresa sbalorditiva che risveglia ancor oggi nel visitatore l'ammirazione per la tenacia e la sicurezza dimostrata da Antonio Cirio e dai suoi due figli Luigi e Pietro, nell'esistenza delle caverne. E fu davvero sfortunata sorte lo sciupio di tanto lavoro che, se meglio coordinato, sarebbe approdato a ben altra conclusione.
Infatti i Cirio iniziarono lo scavo in una posizione troppo elevata, rispetto non soltanto al piano della valle ma alle stesse cavità rimaste sgombre. Occorreva un lavoro di perforazione su di un livello inferiore di quello attuale della valle dei Guaraldi, in quanto gli ipogei di San Germano, risulta dalla documentazione d'archivio, sono ben più profondi di quanto finora ipotizzato.
I Cirio dunque attaccarono con invidiabile sicurezza la parete tufacea ed a colpi di piccone e con qualche modesta mina che peraltro a motivo dell’elasticità del tufo – ci spiegò Luigi Cirio nel 1954 e negli anni seguenti – provocava risultati assai contenuti. Si scavò per alcuni inverni una galleria nel tufo vergine del colle che, alla fine, risultò lunga all’incirca 40 metri, ad altezza d’uomo, larga un metro e mezzo circa.
La galleria – che rimane tuttora l’unico accesso all’ingresso delle grotte – era si in leggera pendenza ma non sufficiente a superare il notevole dislivello esistente tra il piano della valle e il punto di scavo scelto dai Cirio: infatti, costoro, dopo un lavoro durissimo finirono non già dietro alle cavità naturali rimaste sgombre dopo i citati scavi del 1936-1927, ma come raccontava Luigi Cirio bucarono il soffitto delle cavità stesse.
E qui avvenne il gravissimo errore dei Cirio, i quali per evitare di percorrere i quaranta metri di galleria da essi scavata, con le carriole cariche dì cascami del tufo sbriciolato a colpi di piccone, nella prosecuzione dello scavo - da potersi a quel punto ormai considerare mancato - rovesciarono nei cameroni vuoti, tutto il materiale tufaceo che continuavano ad estrarre dal grembo della collina, nel vano tentativo di eliminare i sei metri di dislivello che li distanziavano dal piano base delle grotte sgombre. Ma lo spazio ormai ridotto, entro cui essi agivano, non permise loro l'attuazione del progetto.
Fu si scavato - narrava Luigi Cirio - un pozzo profondo sei metri, sempre nel tufo vergine del colle, in una determinata posizione della galleria, ma invano perché esso fu riempito dalla falda d'acqua che alimenta la sorgente che ancor oggi sgorga nella valle dei Guaraldi. Precipitosamente il pozzo venne occluso ed altri tentativi furono effettuati ormai a casaccio nella speranza di incontrare le gallerie verso l'interno della collina.
Fu scoperto - rilevo dai miei appunti del 1954 – "un vano ermeticamente chiuso a pianta rettangolare con volta a botte. alto m. 2, largo m. 2,50 circa e lungo in proporzione, col pavimento intagliato: nella cripta apparvero resti di una sostanza bruna non meglio identificata ed un paio di scarpe di foggia assai strana che, maneggiate, finirono in polvere".
Si scavò ad un certo punto, affidandosi al caso. in posizioni purtroppo completamente fuori logica che però produsse il grave inconveniente di fornire quintali di cascami di tufo che furono regolarmente versati nelle cavità sgombrate dal Maschera e dai locali possidenti nel 1926-1927. Tra il 1928 e il 1835 i Cirio, scavata la galleria tuttora visibile e in parte agibile, misero in atto i tentativi accennati che a nulla approdarono.
Quando ormai le cavità un tempo pulite, furono nuovamente colmate fino al soffitto dai cascami di tufo scaraventati dai Cirio, i lavori cessarono e il sudario del silenzio ripiombò sulle caverne dei Saraceni, il cui ingresso fu ridotto nella identica situazione del 1626 allorché il Capitano di Giustizia del Ducato di Monferrato provocò l'occlusione "nell'imboccatura delle caverne... otturate nell'ingresso".
 
Gruppo speleologico si cala nelle caverne
Nel 1954, come già scrivemmo, l'argomento delle caverne dei Saraceni ritornò attuale, in seguito alle indagini in zona da noi in quell'anno effettuate.
Percorsa la galleria scavata dai Cirio negli anni trenta, trovammo uno spazio ridottissimo non superiore ai 50 centimetri, che  permetteva di strisciare a malapena tra il soffitto ed i cascami rovesciati dai Cirio tra il 1928 e il 1935, dalla loro galleria alle cavità lasciate sgombre di terriccio nella campagna di scavi di Pietro Maschera nel 1926-1927.
Il 13 novembre del 1954, da noi interpellato,venne in zona il dott. Salvatore Dell'Oca, direttore della Rassegna Speleologica Italiana, di Como, il quale, a sua volta, incaricò il Gruppo Speleologico Comasco ad effettuare un sopralluogo nelle cavità in esame, il 23gennaio 1955.
Il giudizio fu unanime : per comprendere la struttura delle cavità e formulare un conseguente giudizio sarebbe occorso evacuare la massa di scorie di tufo nella valle antistante l'ingresso delle grotte.
Ma a cosa si riduceva nel 1954 il famoso ingresso alle caverne dei Saraceni? L'osservatore giunto nella valle dei Guaraldi stentava ad individuare sulla parete di tufo alla sua sinistra, un buco poco più largo di una tana di volpe o di tasso.
La vegetazione foltissima, il terriccio di continuo dilavato dalle piogge, il muro a secco eretto sul piano valle poco al di sopra della sorgente, dai possidenti per impedire ulteriori frane di tufo e terra nei campi antistanti, creavano un ambiente del tutto diverso da quel che lo studioso o il curioso avrebbe immaginato.
E si stentava a credere che proprio quell'apertura larga poco più di mezzo metro, si identificasse con l'ingresso delle caverne dei Saraceni "per lunga estensione diramate nel colle di San Germano".
Si decise allora di avvicinare chi aveva scavato tra il 1928 e il 1935 per ottenere chiarimenti sulla situazione interna. Luigi Cirio,  abitante in quegli anni ad Ottiglio ci accolse caldamente raccontandoci con una memoria invidiabile ed una sincerità assoluta le vicende già esposte.
Alla nostra richiesta di effettuare sondaggi nelle cavità da lui già viste con suo padre trent'anni addietro, aderì prontamente e con entusiasmo, come infatti avvenne.
Luigi Cirio, con suo figlio, furono i validi amici che ci aiutarono nell'esplorazione delle cavità nell'inverno del 1955-1956. Si entrò nel complesso di buchi, non già dal cosiddetto ingresso ufficiale, ma dalla galleria da lui scavata nel 1928. Il proprietario del terreno dove si apre l'ingresso delle caverne proibì la fuoriuscita del materiale che colmava le cavità, nella sua proprietà.
Fummo dunque costretti a strisciare in uno spazio di poco più di 50-60 centimetri, tra il soffitto delle cavità e l'enorme massa di tufo picchettato rovesciata, dicemmo, dai Cirio nel 1928 e negli anni seguenti. Si tentò di individuare eventuali condotti aperti da animali, in comunicazione con le gallerie e le caverne, ma la posizione nostra era troppo elevata (circa 6 - 7 metri) dal piano dell'ingresso.
Era quindi impossibile la scoperta di qualsiasi camminamento o prosecuzione. Si cercò di trasportare in minima parte i cascami di tufo nell’ampia galleria dei Cirio: impresa subito rivelatasi fallimentare, sempre per la carenza di spazio che permettesse l'agevole movimento di sterro. Fu così rilevata, approssimativamente a motivo della anomala nostra posizione tra il soffitto e il terriccio e il tufo, la planimetria delle cavità che qui pubblichiamo.
Se non fu possibile scendere a livelli inferiori per i motivi precisati, l'indagine si allargò in zona, portando alla scoperta delle epigrafi già menzionate ed alla raccolta delle leggende e di tutte quelle nozioni tramandate dagli antichi tempi, oralmente dall'una all'altra generazione.
Un successivo sopralluogo effettuato nell’autunno del 1956 dal già ricordato rabdomante Padre Innocenzo da Piòvera, confermò la presenza delle gallerie e delle caverne : il sacerdote indicò una località presso l'ingresso ufficiale nella valle dei Guaraldi che combaciava con quanto descritto dal conte Fabrizio Mola di Ottiglio nel 1626. a lui totalmente ignoto.
La serietà del rabdomante e la conoscenza parziale della documentazione, spinse una persona che collaborò con noi nell'inverno 1955-1956, ad un ulteriore tentativo. Il terreno dove si apre l'ingresso delle caverne ed anche gli appezzamenti confinanti (corrispondenti al numeri di mappa 435, 436, 437, 443, come si evince dalla documentazione presso l'Ufficio del Catasto di Alessandria) furono acquistati dal geom. Rollone, residente a Casale.
Nell'inverno del 1956-1957, a nostra insaputa, fu scavato un pozzo di un metro per lato, di fronte all'ingresso, ma in una posizione totalmente, radicalmente sbagliata rispetto alla logica, ai documenti, alle indicazioni fornite da Padre Innocenzo da Piòvera.
Ad undici metri di profondità la falda d'acqua che già aveva invaso il pozzo scavato dai Cirio, nella loro galleria, nel 1928, e che alimenta la sorgente nella valle dei Guaraldi, di fronte all'ingresso, filtrò nel pozzo.
L'inconveniente, unito ad un incidente occorso ad uno degli sterratori provocò la sospensione del lavoro. Il pozzo rimase per anni visibile (ne possediamo l'adeguata documentazione fotografica), poi a motivo della pericolosità ch'esso rivestiva, fu in parte colmato: le frane invernali fecero il resto ed oggi si intuisce appena la località dove esso fu scavato.
 
La ricerca nelle grotte degli speleologi del Cai
L'ingordigia di chi scavò il pozzo, provocò il fallimento ancora una volta di un tentativo.
L'indagine tuttavia prosegui nel 1959-1960 con l'intervento del Gruppo Speleologico Piemontese CAI-UGET di Torino.
Gli speleologi furono in zona in diversi sopralluoghi ma senza nulla concludere a motivo dell'impossibilità di vuotare le cavità iniziali i cui terreni erano e sono di proprietà, si è scritto, del geom. Rollone residente in Casale. Nel 1960 apparve sul loro bollettino un articolo intitolato "Ricerche archeologiche nelle grotte dei Saraceni presso Ottiglio Monferrato (AL)", dove si elencavano alcune delle notizie da noi fornite e in queste cronache pubblicate.
L'intervento degli speleologi torinesi coincise con la scoperta importantissima del crepaccio formatosi nell'autunno del 1959 sul colle di San Germano a venti metri circa presso l'antica strada che unisce la frazione Prera a Moleto e sulla esatta direttrice delle gallerie e delle caverne.
Già sul fianco tufaceo della citata carraia e sul medesimo asse della fenditura in oggetto esiste un"camino" naturale dal quale in inverno, l'aria calda delle cavità sotterranee fuoriuscendo si trasforma in vapore.
Una ciclopica frana del fronte di cava sottostante, favorita da insistenti piogge, provocò per contraccolpo, la rottura del coperchio che tappava la fenditura nel campo presso la ricordata strada. I blocchi caduti ostruirono a 17 metri di profondità la strozzatura del "camino" costituendo in tal modo un pavimento che se pure instabile impediva ulteriori esplorazioni.
Era evidentissima la prosecuzione del (testo illeggibile) coperchio esterno. A 17 metri di profondità il "camino" tendeva chiaramente ad allargarsi. Gli speleologi del CAI UGET di Torino dopo l'accurata esplorazione del crepaccio confermarono la sua prosecuzione che sarebbe indubbiamente sfociata in cavità ben più ampie e la sua esistenza da tempo immemorabile come testimoniavano le pareti della fenditura nette da residui di terra e con tutte le caratteristiche geologiche relative a consimili fenomeni rocciosi di tipo carsico.
La sua posizione proprio sul percorso degli ipogei nel colle di San Germano, rendeva la scoperta estremamente interessante. Furono eseguite le fotografie per l'opportuna documentazione, appena in tempo, perché a motivo della sua pericolosità la fenditura e l'area adiacente furono ricoperte con tonnellate di marna per espressa disposizione della UNICEM.
Scomparve in tal modo un'altra valida prova - tuttavia documentata fotograficamente - dell'esistenza delle "tortuose e diramate grotte per lunga estensione scavate nel tufo della collina" come ebbe a scrivere il canonico Giuseppe de Conti nel 1811.
Giova inoltre sottolineare come gli speleologi del Cai Uget di Torino, studiata la struttura morfologica del colle di San Germano, confermarono la possibilità dì altri "camini" che pongono in comunicazione le cavità sotterranee con l'esterno, un tempo probabilmente utilizzati quali sfiatatoi o aeratori naturali, poi occlusi per mancanza di manutenzione e per cause naturali.
Tralasciando l'intervento in zona del Gruppo Speleologico "Eraldo Saracco" di Giaveno nel 1967- 1968 risoltosi non soltanto con un nulla di fatto ma con uno strascico polemico a motivo delle fantastiche e false notizie apparse nell'agosto 1967 sui quotidiani piemontesi. non dimenticheremo il successivo intervento nelle cavità che si aprono nella Valle dei Guaraldi da parte di giovani vercellesi, con risultati parimenti negativa.
La "spedizione" in zona ebbe però un seguito giornalistico allorché nel 1977 apparve su di un periodico vercellese la rubrica "Vercelli fantascientifica" e come sottotitolo "La valle dei Saraceni" che ovviamente è la Valle dei Guaraldi dove si apre l'ingresso delle grotte in esame. L'autore dopo varie divagazioni più o meno letterarie, passa in rassegna un testo di Peter Kolosimo (Il pianeta sconosciuto, 127 sgg.) dove addirittura tanto per confondere le idee si accomuna il Mitreo di Moleto (risalente ad età romana luogo di culto del Sole, largamente diffuso negli ultimi tempi dell'Impero in tutto il territorio latino) alle divinità peruviane .
 
Gli scavi del fotografo Torielli portano alla luce una camera
È tuttora visibile – Sarebbero anche apparse due tombe di guerrieri con iscrizioni arabe
Abbiamo volutamente alterato l’ordine cronologico delle ricerche in zona per riservare maggior spazio all’indagine svolta saltuariamente tra il 1957 e il 1980 a Moleto e sul colle di San Germano dal fotografo Pier Angelo Torielli, presidente del Gruppo Speleologico Casalese da lui fondato.
Dopo il mancato tentativo dell’inverno 1956-1957 effettuato, come dicemmo, con lo scavo del pozzo presso l’ingresso delle grotte
nella valle dei Guaraldi, il Torielli iniziò una serie di indagini per addivenire ad una qualche conclusione intesa a risolvere l’annosa questione delle caverne dei Saraceni. Ma purtroppo anche sul piano pratico poco si è raggiunto.
Pier Angelo Torielli,  esperto di geologia e di paleontologia, noto per la sua splendida collezione di fossili e minerali, eseguì accurati studi geologici sulla collina di San Germano che risale, ci disse, al periodo quaternario, cioè a oltre cinquecentomila anni or sono, traforata e scavata da condotte di acque forzate che nel corso di tante ere hanno profondamente intaccato il tufo raggiungendo profondità notevolissime.
Tra il 1957 e il 1968 il Torielli scavò saltuariamente in zona con i permessi sia del geom. Rollone proprietario dei terreni dove si apre l’ingresso delle grotte e del dott. Carducci, in quegli anni, Sovrintendente alle Antichità del Piemonte.
Anch’egli si aggirò nel labirinto da noi esplorato nell’autunno – inverno 1955-1956, scaricando con una slitta metallica parte del terriccio e del tufo nella valle dei Guaraldi, occludendo il pozzo di cui si è scritto.
Ma la notizia che ci comunica il Torielli, assume rilevanza trattandosi di una scoperta avvenuta non molti anni or sono, nell’area compresa tra la zona occupata dai frantoi dell’Unicem e la scomparsa borgata di San Michele.
Nel corso degli sbancamenti dei fronti di cava emerse una camera di m. 4 x 3 circa, alta quasi m. 5, scavata interamente nel tufo della collina con una colonna con basamento ben delineato che regge il soffitto: anch’essa ricavata dal tufo del colle, interrata, al momento della scoperta, di circa 60 centimetri di terra e tufo filtrati nella cavità attraverso una botola circolare esistente nel soffitto.
Due aperture identificabili forse come porta (?) e finestra (?) davano alla luce alla camera.
L’intervento delle autorità preposte alla tutela del patrimonio archeologico bloccarono la distruzione della camera tuttora visibile. Ma invece non riuscì il recupero della scoperta che segue avvenuta in zona nei pressi della cavità in esame.
Sarebbero – al dire di testimoni oculari, come ci riferisce il Torielli – apparse nel corso degli sbanchi, due tombe coperte da rispettive lastre di tufo lunghe m. 2,20 circa e larghe in proporzione.
Esse contenevano due scheletri con le mani appoggiate sull’elsa della spada: la lama ormai "mangiata" dal tufo era identificabile dalla traccia lasciata nel calcare. Sempre al dire dei testimoni oculari che parlarono con il Torielli, le lastre recavano iscrizioni in lingua araba. Tutto venne stravolto e macinato nei frantoi.
Noi possiamo giudicare l’età della camera di cui sopra per le difficoltà che presenta la datazione di una cavità effettuata in un materiale quasi senza tempo qual è il tufo: potrebbe tale vano risalire ad un secolo addietro come a mille anni fa. Occorrono esami di tecnici per stabilire quindi la datazione sicura.
Per quanto riguarda le tombe non possiamo che deprecarne la distruzione, come già avvenne per la chiesa romanica di San Germano sul colle omonimo allorché l’edificio venne fatto brillare con la dinamite.
Ricordiamo perfettamente i capitelli, le colonne, le lesene, i fregi romanici sparpagliati al suolo dopo l’esplosione, raccolti in gran fretta dalle escavatrici e portati a triturare nei frantoi: alla faccia della tanto strombazzata tutela del nostro patrimonio artistico e storico. E giacché siamo in argomento esterniamo il timore che anche il campanile della vicina chiesa romanica di Olivola,
risalente al X secolo, rischi la stessa fine.
Quanto ci riferisce il Torielli,trova riscontro con la scoperta di una tomba con "uno scheletro enorme ed una spada gigantesca" avvenuta nel 1944 presso la scomparsa frazione di San Michele che sorgeva poco distante dalla cavità e dalle tombe illustrateci dal Torielli stesso.
Un altro sepolcro fu scoperto a Moleto nel 1958 nelle cantine di un’abitazione privata: apparvero scheletri, due anfore alte circa 50 centimetri, una ciotola, due lumi sepolcrali con monete. Don Raimondo parroco di Moleto vide il tutto perché chiamato dal possidente che scoprì il loculo.
Le anfore, ci spiegò in quell’anno don Raimondo, erano in terracotta, mentre le monete parevano in bronzo ma con le parole illeggibili ad un primo sommario esame. Non ci fu possibile né vedere né ottenere ulteriori ragguagli per il netto rifiuto del possidente.
Infine è ancora Pier Angelo Torielli a narrarci la scoperta di una galleria in forte pendenza che si addentrava con un percorso sinuoso nella collina di San Germano. Nelle pareti erano alternate nicchie che potevano contenere torce o candele. Anche tale interessante opera d’uomo fu demolita dai lavori di cava.
Per concludere, rimanendo in tema, aggiungeremo il ritrovamento avvenuto nel giugno 1957, nel territorio della ditta Barbero, presso Moleto, di una cavità sul tipo di quella illustrataci dal Torielli.
L’escavatore franò in un vano e l’operaio sceso a curiosare ci riferì di aver osservato una cavità con una colonna al centro, pressoché eguale, aggiungiamo noi, di quella già descritta.
La variante era costituita da anelli di ferro ormai rugginosi al punto da sbriciolarsi al tocco, inseriti nella colonna. Il tutto fu naturalmente spazzato via dai fronti di cava.
Le scoperte elencate sono ubicate nell’area compresa tra Moleto e l’antica frazione di San Michele sul colle di San Germano, in una regione non direttamente interessata alla valle dei Guaraldi ed alle caverne stesse che risultano decentrate rispetto al territorio dove sono avvenuti i ritrovamenti esaminati ma comunque legati alla presenza degli insediamenti umani passati in rassegna in queste nostre cronache.
Rimane intatto il mistero sulle grotte della valle. Sono stati individuati solo due condotti laterali – Quando si aprirà il varco?
Giunti alla conclusione della nostra dissertazione, riteniamo di avere onestamente esposto in forma chiara e stringata le vicende relative alle caverne dei Saraceni di Moleto, nell’area comunale di Ottiglio, sull’appoggio dei manoscritti e delle memorie del conte Fabrizio Mola di Ottiglio (1626), dell’abate Giuseppe Antonio de Morano (seconda metà del sec. XVIII), del canonico Giuseppe de Conti (1811), del conte Giuseppe Sacchi-Nemours (seconda metà del sec. XIX).
Non soltanto, ma anche dai reperti archeologici e dallo studio della toponomastica locale. Su basi quindi che qualunque studioso non può ritenere che valide si perviene a stabilire l’esistenza di caverne nel colle di San Germano: in esse – sempre secondo la documentazione passata in rassegna  si troverebbero sovrapposti i resti archeologici di un tempio del Sole o di Mitra, risalente al periodo romano, la salmerie o gli impedimenta dei Saraceni (sec. X), la cui presenza fu ampiamente dimostrata in Monferrato e in zona nel corso della nostra trattazione, "uomini e cavalli" bloccati e sepolti nelle caverne nel 1626.
Un coacervo quindi di avvenimenti e di residui archeologici non di scarsa importanza. Naturalmente si parla e si fantastica di "tesori" e tutte o quasi le ricerche pratiche tendono alla scoperta del "tesoro" che si celerebbe negli ipogei di San Germano.
Disilludiamo coloro che immaginano cofani ripieni di bottino, degni di figurare sulle navi di Morgan, di Kid, di Blood e di altri pirati dei Carabi. Un "tesoro" di fronte al quale, quello del conte di Montecristo diventerebbe un campionario di chincaglierie da poco prezzo.
In realtà esistono – sempre attenendoci ai documenti esaminati – nelle caverne reperti archeologici di indubbio interesse e valore ma non tali da identificarsi con i "tesori" dei romanzi d’avventura. Se fino ad oggi, sul piano teorico molto si è raccolto, nulla si è concretizzato sul piano pratico.
Nessuno, dal 1626, è più riuscito a penetrare nelle caverne gelose custodi di una sequela di reperti di varie epoche, che, quando scoperta, segnerà una tappa miliare nella storia dell’archeologia piemontese.
Le epigrafi incise nel 1626 dal conte Fabrizio Mola di Ottiglio, testimoniano e tramandano il loro enigmatico messaggio per l’identificazione di un ingresso periferico, diverso cioè da quello ufficiale nella valle dei Guaraldi, di impossibile accesso per vari motivi.
Un paio di condotti laterali sono forse individuati, ma per ora nessuno ancora riuscirà a svelare il mistero delle caverne dei Saraceni. Anche i fronti di cava rimangono distanti dalla zona in esame e per un caso davvero sorprendente la regione interessata archeologicamente – almeno al momento – dalle benne delle escavatrici.
I tentativi di scavo e indagine pratica, quelli cioè effettuati con picconi e pale da curiosi e appassionati al "tesoro" sono destinati al fallimento. La nostra affermazione è semplicemente dettata dallo studio trentennale ed accurato – nemmeno ancora concluso – delle carte d’archivio e della regione esplorata, vagliata, esaminata metro per metro. È ovvio che la conoscenza derivatane superi la presunzione degli sprovveduti cercatori di caverne e di "tesori".
Ma dal momento che ogni suggerimento è sciupato in tale direzione, lasceremo al loro divertimento domenicale i "tesoristi", come sono definiti dai contadini quei giovanotti che approdati a Moleto, dalla Brianza o dal Cuneese, credono di sapere tutto sulle caverne dei Saraceni, con il conseguente quasi subitaneo abbandono dell’iniziativa alla quale ritenevano dedicarsi con ardore di neofiti.
Attualmente la valle dei Guaraldi, sospese da anni le colture al fieno, si trasforma in estate in un inferno verde impraticabile a motivo dell’alto tasso di umidità e della conseguente vegetazione lussureggiante, in inverno di un canyon scheletrico, solcato da alberi e rampicanti parassiti in una ragnatela di linee e di intrecci intricatissima.
L’ingresso "ufficiale" alle caverne è pressoché invisibile: le frane, gli scavi a casaccio, le volpi e i tassi, hanno totalmente stravolto l’ambiente. E risulta davvero difficile immaginare un ingresso che accede alle "lunghe tortuose diramate grotte scavate nel tufo" del colle di San Germano, come scrisse nel 1811 il canonico Giuseppe de Conti.
A questo punto, si domanderanno i lettori, cosa occorre fare? Purtroppo i tempi di Schliemann e di Carter paiono tramontati e difficilmente può ancora sussistere l’appassionato, colto mecenate che ponga a disposizione dello studioso competente le possibilità di uno scavo adeguato per rompere finalmente l’enigma delle caverne dei Saraceni.
I freddi burocrati degli uffici statali, i casuali sterratori domenicali non posseggono certo la forma mentis per intuire l’appassionante realtà di una situazione eterodossa rispetto all’archeologia di routine. Il bel gesto, il pensiero grandioso, il savoir faire al di sopra e al di fuori delle rachitiche regole standardizzate sono forse scomparsi.
Meglio dunque il silenzio che accompagni il lento decorso dei secoli scanditi dal tempo eterno nella valle dei Guaraldi e nelle caverne dei Saraceni. Forse un giorno quando uomini meno intesi alle loro a volte meschine faccende, sapranno accogliere la sfida degli ipogei di San Germano, il varco tanto atteso si aprirà e la conoscenza dell’enigma compenserà il geniale interprete della nostra documentazione.

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